Appunti sulla rappresentazione filmica degli italiani in Francia

Dal punto di vista della ricezione, se ci si attiene a un minimo di visibilità – forse meno soggetta, nel consumismo generale, al volontarismo sociale di strutture dominanti –, la rappresentazione degli italiani in (o “di”) Francia potrebbe ridursi, a distanza di tempo, al celebre Toni di Jean Renoir (1934) e all’inatteso Mima dell’italo-francese Philomène Esposito (1991), regista in seguito piuttosto deludente fino al banale Les Ritaliens (2000). Volendo, ma con più scarsa diffusione, si aggiungerebbe sul necessario versante politico Ciao compagni / Salut camarades di Marco Astolfi (2000), al limite però dell’inchiesta socio-storica (com’era già stato, a pieno titolo, il collettivo L’anniversaire de Thomas del 1983). La serie televisiva per France 2, Les ritals di Marcel Bluwal, soggetto di François Cavanna (1991), con Gastone Moschin (unico italo-francese verace, poi doppiato (!) nella versione italiana intitolata Macaronì), incontrò un discreto successo di pubblico – ma tredici anni dopo il libro, e senza la forza d’urto di questo.
Gli anni Sessanta, di più forte presenza italiana in Francia, soprattutto se si sommano là immigrati, loro figli, oriundi e discendenti diretti di italiani, in genere naturalizzati – ossia prima, “prima e mezzo”, seconda e terza generazione –, quegli anni centrali delle cosiddette Trente Glorieuses del secondo dopoguerra[1], non hanno espresso nessuna produzione cinematografica, neanche di tipo quasi documentario come fu, seppure con titolo iperletterario, Déjà s’envole la fleur maigre del belga Paul Meyer (1960). Né, da parte italiana, si riuscirebbe a trovare molto di più (l’espatrio in Svizzera e in Germania, per non dire di quello oltreoceano, come tutti sanno, è stato affrontato certamente meglio), alla stregua di quanto si verifica nella letteratura[2]. Complessivamente, i lunghi fenomeni migratori non hanno avuto comunque molta attenzione. C’è chi parla di un filmato mitico di Jean Grémillon, l’anno stesso del suo Un tour au large ugualmente perduto (1926), ma l’opera, La vie des travailleurs immigrés (a quanto pare, nei dintorni di Parigi), risulta irreperibile. Un film di successo come La trace di Bernard Favre e Bertrand Tavernier (1983) riguarda uno scomparso nomadismo migratorio d’ancien régime, prima della nascita dei moderni stati nazionali, intorno all’antica Savoia per l’appunto. Viceversa, in molti film di ogni taglio e genere appaiono qua e là personaggi che si possono caratterizzare – e vengono subito riconosciuti – come vagamente “italiani”, specie nei noirs (polizieschi), con tra l’altro attori proprio in quanto tali noti e stereotipati, da Lino Ventura a Serge Reggiani al solito Yves Montand; un recente esempio ne sarebbe la serie con l’ispettore Montale (Alain Delon), un bel successo televisivo del 2001 (Fabio Montale, di José Pinheiro) ispirato agli scritti (e con sceneggiatura) dell’italo-francese Jean-Claude Izzo. E anche qui, potremmo seguire la medesima tendenza in alcuni romanzi italiani coevi, ad esempio Duri a Marsiglia di Gian Carlo Fusco (Torino, Einaudi, 1974), ove sembra di incontrare quegli stessi cliché (Don Carmèl e la N’Drangheta calabrese importata nel sud della Francia) che si sarebbero ritrovati in Mima (ove la vicenda, si sa, viene spostata, però, a bella posta da Antibes a Sète nel sud-ovest) di lì a pochi anni. Come se la presenza straniera si fosse mimetizzata, per riaffiorare quando uno meno se l’aspetta in opere che non hanno molto a che fare con un cinema per così dire “d’emigrazione”. E anche il film cui allude la citazione data sopra in epigrafe (Il est plus facile pour un chameau…, 2003), ne sarebbe in fondo una buona illustrazione.
Forse, passato il momento storico di intenso coinvolgimento, si dovrebbe quindi cercare molto più a fondo, anche nelle pubblicità televisive (un gruppo di siciliani mafiosi, ma con accento spagnolo vantava qualche anno fa la potenza di un’auto francese), anche nei film d’autore che dimostrano scarso interesse per questioni socio-economiche quali sono le migrazioni (soprattutto lavorative, v. L’isola). Un lavoro di scavo delle presenze sotterranee, non esibite, un poco come avviene nei due film di Paul Auster e Wayne Wang Smoke e Blue on the Face (1995), con addirittura l’allusione fantasmatica a un campione italo-americano scomparso, ombra spettrale di quella storia taciuta nel discorso ufficiale, salvo a farne oggetto museale come a Ellis Island o adesso a Parigi nell’ex-museo delle Colonie. Un catalogo attento perfino al modo di presentare i servizi televisivi degli inviati speciali (o permanenti) dall’Italia, con le scelte a dir poco particolari che ne fanno, compreso il fenomeno inverso della nuova immigrazione extra-comunitaria in Italia. Una riflessione di più lungo respiro, su opere in cui le rappresentazioni meno controllate venissero a galla quasi senza il volere dell’autore, in scene secondarie di tipo “descrittivo”, con puro “effetto di reale” avrebbe detto Barthes, e quindi forse un riflesso non deformante delle cosiddette mentalità popolari – e qui non ne abbiamo il tempo. Si veda per esempio il pregiudicato rital (Melki) in Le deuxième souffle (2007) di Alain Corneau e gli ambienti descritti da Tonino Benacquista, di cui si sperano nuovi adattamenti per il cinema (La commedia des ratés, 1991).
Un indicatore interessante è quello dei Festival del Film italiano, da Villerupt a Annecy, a Bastia a Toulouse o Tremblay-en-France (l’ordine è quello cronologico della creazione: 31 anni per Villerupt), in cui – salvo la rara eccezione de L’anniversaire de Thomas (Jean-Paul Menichetti, 2000), del resto nato proprio a Villerupt intorno alla Maison des Jeunes et de la Culture locale[3] – non vengono mai presentate quelle scarse produzioni che abbiano a che fare col nostro argomento. Un ciclo di manifestazioni organizzate dal Liceo Italiano di Parigi nel 1998, “Alcune presenze italiane in Francia”, va ricordato proprio per la sua eccezionalità[4]. Per qualche anno, tenni io stesso una rubrica intitolata “Cinémigration” sulla rivista quasi confidenziale “La trace” (pubblicata dal CEDEI) e su quella della SLNL “Les langues néo-latines”, con recensioni e articoli sulle proiezioni alle quali mi fu dato di assistere, da D’une terre l’autre di Liliane Kihm al classico Il conformista, a Buongiorno dalla Francia (molto vicino al citato L’anniversaire de Thomas), a Lamerica di G. Amelio, a La Cecilia e Les chemins du retour (episodio dei Carnets de bal) di Jean-Louis Comolli (1982, con un gruppo di toscani parigini). Si era ormai già in un altro tipo di ciclo immigratorio, per il quale gli italo-francesi (ormai europei a tutti gli effetti) e anche gli italianisti in Francia non avevano, e ben si capisce, una particolare curiosità estetica o socio-storica. Più che una specie di turn-over dagli italiani ai portoghesi, e poi soprattutto ai turchi e magrebini, come una storiografia spicciola ha dato a intendere, c’è stato un salto qualitativo dalla vecchia mobilità con la sua relativa cultura, all’emergenza delle seconde-terze generazioni nelle banlieue e alla sensibilità nuova del multiculturalismo. Ed anche il cinema francese – con l’eccezione notevole di Indigènes, quasi fuori tempo e intriso di facile nostalgia (Rachid Bouchareb, 2006), o di un telefilm quale Harkis (2006) di Alain Tasma con la vera Mima algerina che sembra esservi Leila Bekhti -, sia pure in mezzo a discreti successi commerciali, entra allora nella spirale della decadenza o addirittura della “morte della cultura francese”: come a suon di tromba annunciava l’edizione europea di  “Time”, sotto una foto alquanto spiazzata, o estemporanea, anche lì, dell’anziano attore-mimo da poco scomparso Marcel Marceau (3 dicembre 2007). Il che significa forse fine del monostilismo, come il trionfo del folclorico Bienvenue chez les Ch’tis (2008) di Dany Boon sembra annunciare.
Resta innegabile una costante incapacità a capire, nonché accogliere l’altro, fino a una data molto recente – i francesi non hanno in pratica mai emigrato, bensì sono andati all’estero soprattutto per colonizzare –, quando le spinte del 1968 (si ricordino slogan come “Siamo tutti ebrei tedeschi”) hanno obbligato perfino il famoso astratto “cittadino medio” ad accettare la diversità, per poi proclamare sull’onda della moda la bontà in sé delle società “miste” e, appunto, multiculturali. E a “imparare le lingue”, finalmente. Troppo tardi, come ho scritto già più volte in altra sede, per interessare la presenza comunque alquanto “trasparente” degli italiani e italo-francesi[5]. Alla timidezza dei lavoratori immigrati, ansiosi di farsi dimenticare grazie a una totale integrazione, corrispondeva fin troppo bene il centralismo auto-sufficiente e poco curioso di scoprire culture diverse – neanche, al limite, quelle delle varie provincie francesi – della società di accoglienza; la cosiddetta “grandeur” francese, così tanto criticata in Italia, non è stata altro (a parte le illusioni del passato gollismo) che una chiusura e forse cecità di una nazione sedentaria e rinchiusa sul proprio territorio. L’immigrato si spostava troppo, come un tempo avevano fatto le stesse “classi pericolose” (studiate da Louis Chevalier) nell’Ottocento, rispetto agli autoctoni ormai stabilmente insediati e desiderosi solo di “salire” a Parigi. Sicché, anche fra i diretti interessati, sembra che si siano sprecati gli stereotipi suggeriti dalla rappresentazione dominante. Mettiamo, nella fortunata canzone Le rital di Claude Barzotti del 1983: “J’aime les amants de Vérone / Les spaghettis le minestrone / Et les filles de Napoli / Turin, Rome et les Tifosi / Et la Joconde de Vinci / Qui se trouve hélas à Paris”, manco a dirlo… lo stesso cantautore, nel 2005, non si perita di lanciare il ritornello, non si sa quanto serio o quanto ironico “La France est aux Français!” (commedia musicale Les nouveaux nomades). A me sembra che nessun’altra comunità immigrata – ma, per l’esattezza (e vedi nota 3), una vera comunità italiana in Francia non c’è stata mai – abbia soggettivato a tal punto i cliché del paese d’arrivo, fino a farne tout court espressione sua propria. Pure nel raffinato gioco a doppio fondo di À l’attaque (2000, Robert Guédiguian, scritto assieme a Jean-Louis Milesi, con un omaggio implicito al Retour à Marseille, 1980, di René Allio[6]), intorno all’officina Moliterno & Co le canzoni – un nonno, “Bella ciao”… – e simili espressioni “etniche” di italiani in Francia si sprecano. Gli stessi intellettuali di origine italiana diretta, interpellati sulle loro radici culturali, spesso non fanno che ripetere i soliti topoi sulla “ragione francese” e “il cuore italiano”, oppure sulla letteratura italiana molto più vicina alla “realtà concreta”, al “vissuto” ecc. (anche, par anni, in aperto contrasto con la neo-avanguardia francese e senza sapere nulla di quella italiana). Oppure citando Stéphane Giusti, regista-sceneggiatore di Bella ciao (2001): “Io mi sento immigrato. Sono italiano di cuore, per sempre. Ho la nazionalità francese, parlo in francese; sogno e scrivo in italiano”. Magari[7]. Addirittura la lingua, o mistilingua che sia, sembra il più delle volte improbabile nelle produzioni suddette (a parte Toni, in cui gli immigrati appena arrivati hanno l’accento marsigliese, da buoni attori del giro di Pagnol), salvo in poche sequenze di tipo ludico, come quando la giovane Mima si diverte a contraddire il nonno (calabrese): “Non lo sai – Si, je sais! – Non lo sai – Si, je sais! – Non lo sai…” e via dicendo; subito dopo, Nino Manfredi (il nonno) ci lascia però perplessi con un curioso code switching affatto gratuito: “Lo faccio presque toutes les semaines” (Mima, cit.).
Purtroppo, o forse logicamente, il successo di pubblico è andato a quelle scene più prevedibili, in cui gli italiani preparano con amore cibo e caffè, esagerano nei sentimenti familiari (però sinceri), non esitano più di tanto a tradire tutti gli altri (vivace ancora il ricordo dei Concini, del resto messi in scena ne Le Capitan, 1960, di André Hunebelle, e poi della “pugnalata alle spalle” del famigerato 10 giugno 1945), cercano sempre di arrangiarsi anche evitando le strettoie della legge – ma un certo bricolage, fai da te minuto e quotidiano, è stato sì necessario alla loro sopravvivenza. Gli spettatori amano davvero i “commedianti, tragedianti” nostrani (basti pensare al bellissimo Le carrosse d’or di Renoir, 1952, ambientato nel Sudamerica). La “doppia cultura” decantata nei siti e blog di ragazzi italo-francesi, non è fatta di altro. Inutile dire che una rapida ricerca sul net, chiedendo “rital cinéma” o “cinéma Italiens France”, dà soltanto poche risposte di film polizieschi e soprattutto vari strascichi di un certo caso Materazzi-Zidane… Così, di nuovo a proposito di Mima, il “Figaroscope” scriveva: “Ici, les spaghettis se dégustent amoureusement et se préparent religieusement. Le café est plus noir que noir” (16 gennaio 1991)[8], senza notare ovviamente quel minimo indicatore culturale dell’abitudine alle carestie e al risparmio che pur traspariva nella battuta del solito nonno (rivolto alla nipotina): ”Ne mange pas tout, altrimenti che ci resta per stasera?”, ove certamente il cambiamento di codice era pertinente alla cultura di origine. Poche le indicazioni un po’ più complesse, storicamente istruttive, oppure basate su fatti realmente accaduti (sia Toni, sia da parte italiana Il cammino della speranza di Pietro Germi, 1950, partono dalla cronaca contemporanea; non a caso, l’ostilità che incontrano in Italia stessa, in quel di Parma, i forestieri del Cammino è simile a quella subita nelle saline di Fangouse alla fine dell’Ottocento dai braccianti italiani immigrati e, com’è noto, massacrati), o semplicemente sulla storia di un secolo e mezzo di immigrazione transalpina, come si può verificare nelle opere a carattere documentario o radicalmente realistico. Il caso di Armand Gatti (Montbéliard est un verre, 1978, nella serie di film concatenati Le lion, sa cage et ses ailes), più poetico e “epico” che stretto cinéma du réel (Jean-Louis Comolli), è diciamo unico, all’altezza delle poche tracce letterarie di questa lunga vicenda migratoria compreso Ungaretti. Restano però alcuni spunti, precisi o di carattere generico, che val la pena di riportare a mo’ di conclusione. Il primo, negli inserti archivistici e documentari del già citato mediometraggio Ciao compagni / Salut camarades, conferma quanto sappiamo dei luoghi di socializzazione dei fuoriusciti durante il Ventennio: “Non c’era un quartiere di Parigi in cui non vi fossero italiani che organizzassero riunioni, iniziative di solidarietà, iniziative anche culturali” (parla Nella Marcellino). Due altri, a partire dai rispettivi film (citati) nelle interviste fatte allo stesso Marco Astolfi e a Philomène Esposito in occasione di una ricerca universitaria[9]: “In Ciao compagni [si vede] un motore incredibile di emancipazione… queste persone arrivavano in un periodo in cui, in Francia, si stava sviluppando un movimento popolare straordinario…”; oppure: “La prima generazione ha voluto assolutamente diventare francese… In quegli anni gli immigrati diventavano forzatamente depressi perché perdevano la propria identità”. Dove, ancora una volta, si percepisce bene quanto emigrazione politica e lavorativa fossero sentite come – ed erano – inseparabili.
Si dovrebbe tornare, è vero, sul caso di quei “depressi”, perciò inadatti a fornire una diversa rappresentazione di sé. Di tale tendenza alla depressione, credo, la scarsa qualità (e quantità relativa) delle rappresentazioni disegnate sopra a grandi tratti, troppo brevemente, è senz’altro un sintomo rivelatore. I lavori su questa problematica di fondo sono rarissimi (due nomi, Hervé Beauchesne e Jean-Louis Villa[10]), anche se comincia a circolare l’idea della mancata costituzione di un vero soggetto storico italo-francese. In attesa di meglio, poiché gli intellettuali provenienti da quegli ambienti si sono affrettati ad occuparsi d’altro, per lo più, sarebbe necessaria una serie di ricerche attraverso tutta la produzione cinematografica, senza tematizzare, come un poco per forza s’è fatto finora, la mera emigrazione-immigrazione. Gli italiani trasparenti non sono scomparsi nel nulla. Una presenza quasi invisibile, minuta, capillare, sommersa come si diceva, eppure operante nello sfondo rapidamente modificato della cultura francese recente, per la prima volta dai tempi della Rivoluzione non solo parigina – o anti-parigina, vedi banlieue –, resterebbe tutta da indagare.

[1] Ovviamente fauste anche grazie all’afflusso di immigrati, in specie italiani (l’ultimo accordo bilaterale, a onta del già in atto Trattato di Roma, venne pubblicato sul Giornale Ufficiale il 23 marzo 1961).
[2] Mi si consenta di rimandare al mio breve saggio Cinema e presenza italiana in Francia, “AltreItalie”, 6 (1991), pp. 140-147. Sul decennio tra guerra d’Etiopia e Liberazione, cfr. Jean-Pierre Bertin-Maghit, Toni, Maria, Joan, Concini et les autres …, in Italiens et Espagnols en France 1938-1946, a cura di Pierre Milza e Denis Peschanski, Paris, ed. CNRS, 1991, pp. 249-263.
[3] Dove, nel 1983, Ettore Scola dichiarava in apertura: “Il cinema italiano parla la lingua che molti tra voi ancora parlano”. Sulla situazione direi abnorme di Villerupt, si veda: Isabelle Felici, Le marché de Villerupt, vivante et pittoresque illustration du brassage des populations, in: Lorraine, Terre d’accueil et de brassage des populations, a cura di François Roth e Yves Cardellini, Nancy, PUN, 2001, pp. 287-299.
[4] Interessante anche solo l’elenco della programmazione: Il cammino della speranza, La loi c’est la loi, Mima, Paris musette, Ballando ballando, Toni, L’anniversaire de Thomas, La trace, Beau-Masque, Les ritals (Programma liceo “Leonardo da Vinci”, Parigi).
[5] Cfr. per tutti il mio contributo Les Italiens, trop tôt pour intéresser, in Vingt-cinq communautés linguistiques de la France, a cura di Geneviève Vermès, Paris, L’Harmattan, 1988, pp. 234-262 (ne ricopio l’ultima frase: “Si augura che una certa forma d’italofonia entri a far parte del paesaggio culturale francese: sarebbe un modo, questo, accanto a un’istruzione plurale, per aiutare ciascuno a ricuperare la memoria della propria storia, e quella delle parole”).
[6]Ugualmente maestro di Philomène Esposito, che ne fu l’assistente.
[7] Stéphane Giusti (mia trad.), cfr. sito www.voxlatina.com. E si confronti, ad esempio (sempre in TV): Yamina Benguigui, Mémoires d’immigrés, tre episodi, 1997.
[8] E si confrontino: “Télérama” (G. Pangon, 16.1.1991), “Le Monde” (J. Siclier, 18.1.1991), “Le Figaro” (E. Frois, 18.1.1991), “France-Soir” (R. Gianorio, 19.1.1991)… ognuno, come succede anche per la cronaca letteraria, copiando più o meno il precedente.
[9]Tesi di Paola Civiero (Dams di Bologna, 2003); anche di questi primi lavori accademici si dovrebbe parlare – fra i primi, Le festival du film italien de Villerupt (Maîtrise Paris III – CIRCE) di Nathalie Ledeuil, 1989 (v. anche ns. sito, con banca dati: http://circe.univ-paris3.fr/msie.html).
[10] Hervé Beauchesne e José Esposito, Enfants de migrants, Paris, PUF, 1985; Jean-Louis Villa, Les troubles digestifs fonctionnels chez l’émigré italien en Suisse romande, “Revue de médecine psychosomatique”, 27 (1986), pp. 79-90. Si veda anche Fethi Benslama, L’illusion ethnopsychiatrique, “Le Monde”, 4 dicembre 1996, p. 14.