Modelli regionali di emigrazione

Appunti sul fenomeno migratorio in Campania

La Campania ha conosciuto due grandi esperienze migratorie verso l’estero: la cosiddetta “grande emigrazione”, a cavallo tra la fine del XIX secolo e il primo ventennio del XX, e l’emigrazione del secondo dopoguerra, stimolata soprattutto dalla domanda di manodopera dei paesi latinoamericani (in particolare Argentina, Brasile, Uruguay e Venezuela) e dei paesi del Nord Europa. L’emigrazione campana nel corso degli anni Cinquanta ha cambiato sostanzialmente la sua direzionalità, in quanto, da una parte, si sono affievoliti progressivamente i flussi verso le Americhe e, dall’altra, sono cresciuti di molto quelli diretti verso l’Europa settentrionale.
L’emigrazione è un fenomeno doloroso, che ha sempre significato sradicamento, abbandono dei focolari domestici, allontanamento dal naturale ambiente di insediamento e quindi da tradizioni, usi, costumi, comportamenti a lungo sedimentati nel tempo. E, ancora, ha significato difficoltà e disagi nell’impatto con le nuove realtà, la nostalgia per la madrepatria, il desiderio di mantenere vivi i legami culturali e sociali con la propria terra, di farne partecipi i propri figli.
Il non averlo affrontato con le giuste azioni, determinate ad eliminare o attenuarne le cause, ha fatto sì che il problema si radicalizzasse a tal punto da diventare inestinguibile. Con l’esodo indiscriminato di centinaia di migliaia di persone si pensava di risolvere il problema della disoccupazione. Ma, lasciando inalterata la realtà di partenza, questa generava ulteriore disoccupazione che provocava altre fughe verso altre frontiere.
Vi è da chiedersi come mai si sia scelta la strada dell’emigrazione all’estero e non invece, in assenza di altre soluzioni, non abbia prevalso la rassegnazione, dal momento che il viaggio oltre oceano rappresentava un viaggio verso l’ignoto?
Certo l’esodo può ben essere rappresentato come “un viaggio tra due tunnel bui”. Tale definizione chiarisce l’inquietudine, il travaglio dell’animo tra due mondi: uno sofferto come necessità economica, dettata dal “destino”; l’altro, sconosciuto, sognato come luogo di speranza e di benessere.
E ben si addice a descrivere tale esperienza il titolo del volume di Domenico Chieffallo1. Il viaggio emigratorio “inizia con la ‘notte’, ‘l’ignoto’ delle cause delle disuguaglianze, delle cause storiche, vissute con un segno di impotenza, pregustando magari un ritorno improbabile da vincitore. Alla base di tutto ciò non vi è qualcosa che somiglia alla ‘notte dei tempi’, che è conoscibile e che non promette avvenire. Ma tra sudori, fatiche, proiezioni sui figli è in agguato un’altra ‘notte’, una sirena sconosciuta, affascinante e piena di promesse. Anch’essa, dopo il tratto migliore della vita, spesso si rivela non diversa dalla ‘notte’ della partenza. Arriva la fine della vita, del tempo di vita: è notte per sempre e per tutti, anche per quelli che hanno creduto di vincere o di aver vinto. L’emigrazione, quando è condanna obbligata, raramente porta felicità. Neppure la ricchezza, quando la si raggiunge, riesce a rendere più lieve la nostalgia” 2.
Le ragioni di questo “esodo biblico” al di là dell’oceano sono da trovarsi nelle lusinghe degli stati del Sud America, nella propaganda degli agenti dell’emigrazione italiana e, quindi, anche quella campana (in particolar modo irpina e salernitana), insieme al ruolo fondamentale avuto dall’informazione. Infatti la stampa del tempo propinava ai lettori due tipi di informazione: le disastrose condizioni sociali ed economiche e, in netta contrapposizione, le opportunità offerte dal Nuovo Mondo. Riguardo alle prime gli articoli trattavano dell’arretratezza sociale, dell’analfabetismo, dell’immobilità sociale; rispetto alle seconde le occasioni offerte dall’America, il lavoro salariato e la possibilità di una maggiore e più libera espressione individuale, anche della donna.
Nei paesi d’approdo gli emigranti cercavano di far rivivere le tradizioni, in particolar modo religiose, che avevano lasciato nei loro paesi. È il caso, tanto per fare qualche esempio, del culto di alcuni santi e della Vergine: Gennaro, per i napoletani; Michele, per i salesi; Cono, per i teggianesi; Nostra Signora delle Nevi per i sanzesi3.
Inoltre gli emigranti aumentavano la devozione verso il santo patrono sia tra le mura domestiche, dove spicca la sua immagine, fatta benedire prima della partenza, davanti alla quale è sempre acceso un lumicino, sia nel paese dove si trovano attraverso una processione nel giorno della festività. In questo giorno la statua del santo, costruita in maniera uniforme rispetto a quella originale, è portata lungo le vie con festeggiamenti che ricalcano quelli che avvenivano nel paese d’origine. In questa maniera, nonostante la lontananza, si era vicini a coloro che vivevano gli stessi momenti nel paese d’origine.
In questa direzione, anche la Chiesa svolse un ruolo importante. Infatti Leone XIII, eletto nel 1878 al soglio pontificio, dette un notevole impulso alle missioni. Ecco perché non poteva sfuggire alla sua attenzione il fenomeno migratorio. Anzi egli ne seppe intuire non solo le profonde radici, ma anche gli sviluppi successivi che da quell’esodo sarebbero derivati sia nei paesi d’origine sia nelle terre d’approdo. Infatti in una lettera apostolica, Quorum aerumnosa, il pontefice sottolineava il dramma presente nei pericolosi viaggi verso l’ignoto da parte degli emigranti esposti alle insidie dei malvagi e dei prepotenti. Di fronte a ciò la Chiesa non rimase a guardare, ma intervenne attraverso la presenza del clero, che raggiunse gli emigranti in quelle terre lontane affrontando i loro stessi sacrifici e pericoli.
L’emigrazione è certamente un problema complesso della storia del Mezzogiorno, che non può essere affrontato se non nei suoi molteplici aspetti, nelle varie e diverse realtà territoriali ed umane4.
Alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento l’emigrante rientrava in patria quasi sempre, perché vinto dalla nostalgia del “natio loco”, dal richiamo degli affetti familiari e dal vivo desiderio di farsi una casetta ed una terra tutta sua. L’emigrante che ritorna in patria ha ancora voglia di operare e di far crescere con le esperienze acquisite all’estero quei paesi delle zone rurali interne da cui era partito in cerca di fortuna.
Di questo tipo di emigrante degli anni Cinquanta e Sessanta non si avevano che vaghe conoscenze, come pure poco si sapeva del ruolo svolto dai tanti ritornati nelle zone del cratere dopo il terremoto del 1980, ove hanno avuto modo di contribuire con il proprio lavoro e con la propria esperienza alla ricostruzione e all’impianto di tante piccole attività imprenditoriali, che hanno finito col trasformare e col dare nuovi impulsi produttivi a territori prima quasi tagliati fuori da ogni circolarità economica.
Nel considerare il problema del ritorno migratorio in Campania, il volume Itaca5 ha fornito un ulteriore tassello. L’emigrante ha affrontato rischi nell’accettare l’ignoto in termini di costumi, lingua, comportamenti, ma anche l’occasione di compiacimento di chi ha avuto il coraggio di riaffermare la propria dignità e assicurare alla famiglia e al proprio paese un futuro migliore.
Gli emigranti hanno affrontato sacrifici, umiliazioni e non hanno mai inveito contro la terra d’origine, portata sempre nel cuore tanto da riorganizzare nella nuova patria una socialità che ne ricordasse gli aspetti fondamentali. Quando si parla di ritorni non si deve pensare solo in termini economici, ai soldi, alle famose rimesse che gli emigranti inviavano o riportavano con loro, ma ad uomini con esperienze diverse, con capacità umane e professionali diverse, con mentalità diverse, con un’identità che non è più quella di partenza.
Analizzando gli aspetti socio-psico-antropologici non si può ignorare il ruolo svolto dalle donne. La prospettiva di futuro sia delle donne sia degli uomini è orientata ad un ricongiungimento del nucleo in Italia. La ritardata presenza delle donne nei flussi migratori è addebitata alla cosiddetta “temporaneità programmata”, in base alla quale le donne restano nel paese d’origine in modo da gestire quegli aspetti che un giorno avrebbero consentito la riunificazione del nucleo familiare. Le donne restano a casa ad accudire i figli, mentre gli uomini tornano una o due volte all’anno in occasione del Natale o del periodo estivo.
L’evento migratorio, descritto attraverso generi letterari diversi, ma in particolar modo attraverso il romanzo, è stato oggetto alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, di numerosi studi attraverso i quali si è analizzata la sua presenza nella letteratura6. Lo stesso romanzo sull’emigrazione non ha avuto molta fortuna sia per lo scarso interesse dei lettori, sia per il disinteresse degli autori maggiori.
A tal proposito vale ricordare quel che scrisse Ojetti, ma soprattutto Gramsci: “Che i letterati non si occupino dell’emigrato all’estero dovrebbe far meno meraviglia del fatto che non si occupano di lui prima che emigri, delle condizioni che lo costringono a emigrare […], che non si occupino cioè delle lacrime e del sangue che in Italia, prima che all’estero ha voluto dire l’emigrazione di massa. D’altronde occorre dire che se è scarsa (e per lo più retorica) la letteratura sugli italiani all’estero, è scarsa anche la letteratura sui paesi stranieri […]”7. A ciò bisogna aggiungere quanto ha sostenuto Sebastiano Martelli: “Quando Ojetti e Gramsci annotavano questi giudizi, in oltre un cinquantennio si erano alternate e consumate diverse ideologie sull’emigrazione: da quelle anti-emigrazionistiche degli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, codificate anche a livello politico-legislativo e supportate da una certa pubblicistica specialmente nell’Italia settentrionale e da vaghe inconsistenti comparse di letterati, alle posizioni emigrazionistiche di un certo Francesco Saverio Nitti negli anni Ottanta e quindi alle grandi aperture del periodo giolittiano e nel primo decennio del Novecento” 8.
Gli strumenti utilizzati dagli attori dell’esodo sono stati essenzialmente due: l’epistolografia e l’autobiografia. Un ruolo importante viene svolto dalle lettere che gli emigranti scrivono ai loro parenti. In esse traspare evidente la nostalgia per la terra natia, nostalgia, che può essere classificata in tre modi: del paese d’origine, come entità fisica e spirituale; delle persone care; dei fatti che sono stati vissuti nel paese, ma che si vorrebbero rivivere nel luogo dove si è arrivati: “L’anima non è uccello che puoi ingabbiare in una gabbia, l’anima vola libera e lontana, né la lontananza, né l’Oceano, né le tempeste possono fermarla. La mia mi porta al paese, alla marina, alle ore, che pria bevvi all’ombra della mia infanzia” 9.
La nostalgia si trasforma in una vera e propria malattia dell’anima, che si manifesta con “tristezza continua, costante pensiero rivolto unicamente alla patria, sonno irrequieto o addirittura insonnia, senso di ottusità, insensibilità per la fame e la sete, apprensione, batticuore, frequente sospirare, ottundimento dell’amore immerso soltanto nelle idee della patria” 10.
Nelle lettere gli emigranti narrano il viaggio, il nuovo ambiente, il lavoro. Nello stesso tempo chiedono notizie sul paese natio. Inviano e chiedono fotografie dei cari. Spesso si fanno carico di organizzare collette da inviare al sindaco per contribuire alla ristrutturazione della chiesa, al rinnovamento del cimitero con la speranza di poter vedere un giorno come il paese è cambiato anche grazie all’impegno dei suoi figli all’estero. Attraverso le lettere si documenta l’esodo dal suo “dentro”, ossia dal punto di vista degli interessi umani e sociali delle persone coinvolte, dei loro affanni, delle loro privazioni, delle speranze e tragedie, delle loro sconfitte e dei loro successi. Lo scriversi da una parte all’altra del mondo, se da un lato metteva in risalto la lontananza, la divisione, dall’altro rappresenta un modo come un altro per mantenere in vita un contatto, “quasi di stare insieme a dispetto delle distanze che si venivano facendo, coll’andar del tempo, oltreché fisiche anche culturali” 11.
Nell’ambito di una storia della letteratura dell’emigrazione esistono due momenti: quello degli autori maggiori, come De Amicis, Pascoli e Pirandello, e quello di una letteratura mediana, che è stata messa in luce recentemente12. Ecco perché occorre dare importanza a quella che si definisce “la letteratura dell’emigrazione”, anche se è più giusto parlare di “letteratura sull’emigrazione” e “letteratura di emigrazione” per “la poliedricità dei testi, documenti e materiali vari e per il significato che essi assumono non più nell’ambito della sola storia della letteratura italiana, ma più organicamente nel campo della storia e realtà culturale” 13. Necessita, quindi, “una metodologia polifunzionale, a diverse contaminazioni: storia, antropologia, sociologia, sociolinguistica, capace di confrontarsi con prodotti assai eterogenei che vanno dal romanzo storico al feuilleton, dal saggio storico-geografico all’inchiesta sociologica, alla poesia lirica, dal reportage giornalistico all’autobiografia, generi spesso assemblati in uno stesso testo, segnando così una delle peculiarità strutturali di questa letteratura: la coesistenza e contaminazione di più generi, stili, tempi, giudizi […]”14.
L’indifferenza mostrata dalla letteratura è stata anche espressa da La Capria: “Solitari e disperati partirono gli emigranti, abbandonati da Dio e dagli uomini, da uno Stato che più indifferente al loro destino non poteva essere. Della stessa indifferenza fu colpevole la letteratura italiana. Non c’è un vero romanzo su quest’epica della povertà, non uno scrittore ha voluto raccontare questo tragico esodo. C’è un racconto molto romanzesco di De Amicis, e poco altro che io sappia. Sono rimaste le canzoni napoletane a ricordare tanti dolori e nostalgie e patimenti (Partono i bastimenti…, E ce ne porta lacrime ‘st’America…) e un atto unico Scalo marittimo, scene e musica di Raffaele Viviani” 15.
Per ciò che concerne il “teatro dell’emigrazione”, l’attenzione degli studiosi è risultata ancora più scarsa, concentrandosi sui soli: Raffaele Viviani e Eduardo Migliaccio (Farfariello) 16.
Nonostante questa indifferenza occorre intensificare lo studio e l’attenzione, perché solo attraverso la lettura di testi appartenenti a generi diversi (romanzo, cronaca, feuilleton, diari, ecc.) è possibile avere un quadro più variegato del fenomeno migratorio. Se Ezio Raimondi ha assegnato alla letteratura e a una critica veramente moderna la possibilità dell’”ampliamento di un canone, la creazione di nuovi modelli” 17, Andrea Battistini ha individuato, a sua volta, proprio nella letteratura dell’emigrazione l’esempio più probante18.
Queste brevi note, a cui segue una bibliografia, che costituisce una goccia nel “mare magnum”delle notizie riguardanti l’emigrazione, vogliono contribuire a far luce sull’esodo che modificò, senza “del tutto cambiarli, milioni di nostri corregionali in cittadini e uomini d’un mondo nuovo o, se si preferisce, in costruttori e abitatori di “altre” Italie” 19.

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2 Ibid., pp. 8-9.

3 Giuseppe Colitti, Lo statuto di un’associazione di emigranti sanzesi a Brooklyn. Aspetti linguistici e antropologici, in AA. VV., Memorie migranti, Atti del I Convegno Memoria delle Origini e Ibridazioni storico-culturali. Un secolo di migrazioni nel Vallo di diano e nel Cilento (Padula – Certosa di San Lorenzo, 6 maggio 1995), a cura di Gianfranco Pecchinenda, Padula, Ipermedium libri, 1996, pp. 73-91.

4 Matteo Sanfilippo, Problemi di storiografia dell’emigrazione italiana, Viterbo, Sette Città, 2002.

5 Itaca. Il problema del rientro migratorio in Campania, a cura di Giuseppe Imbucci, Napoli, Arte Tipografica, 1998.

6 Emilio Franzina, Dall’Arcadia in America. Attività letteraria ed emigrazione transoceanica in Italia (1850-1940), Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1996, pp. 243-257.

7 Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, III, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, pp. 22-54.

8 Sebastiano Martelli, Un romanzo sull’emigrazione: «Emigranti» di Francesco Perri, “Civiltà italiana”, 4, 1984; 1-3, 1985.

9 D. Chieffallo, Venimos de la noche, cit., pp. 8-9.

10 Delia Frigessi Castelnuovo e Michele Risso, A mezza parete: emigrazione, nostalgia, malattia mentale, Torino, Einaudi, 1982, p. 13.

11 Emilio Franzina, Emigrazione transoceanica e ricerca storica in Italia: gli ultimi dieci anni (1978-1988), “Altreitalie”, 1 (1989), p. 19.

12 La letteratura dell’emigrazione. Gli scrittori di lingua italiana nel mondo, a cura di Jean-Jacques Marchand, Torino, Edizioni della Fondazione Agnelli, 1991.

13 Antonia Lezza, Tra letteratura e teatro dell’emigrazione: Viviani “sociologo” di Napoli, in Il Meridione nella letteratura ed emigrazione, a cura di Sebastiano Martelli e Mario B. Mignone, “Forum Italicum”, 1-2 (1993), pp. 84-85.

14 Sebastiano Martelli, Modelli narrativi ed emigrazione, in Discorso fizionale e realtà storica, Atti del I Colloquio Internazionale “Testo e contesto” (Macerata, 15-17 ottobre 1990), Macerata, Quaderni di Lingue e Culture Straniere, Università degli Studi di Macerata, 1992, p. 253.

15 Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, Milano, Mondadori, 1994, pp. 31-32.

16 Raffaele Viviani, Scalo Marittimo (‘Nterr’ ‘a Mmaculatella), in Id., Teatro, a cura di Guido Davico Bonino, Antonia Lezza, Pasquale Scialò, Napoli, Guida, 1987, I, pp. 199-240; Hermann W. Haller, Tra “Napol”’ e “New York”. Le macchiette italo-americane di Eduardo Migliaccio, Roma, Bulzoni, 2006.

17 Ezio Raimondi, Considerazioni di un italianista sulla propria disciplina, “Lettere italiane”, 1991, 3, p. 352.

18 Andrea Battistini, Canoni e storie della letteratura nell’età della globalizzazione, “Critica letteraria”, 133, 4 (2006), p. 729.

19 E. Franzina, Emigrazione transoceanica, cit., p. 19.