L’emigrazione dal Lazio meridionale nel secondo dopoguerra

L’analisi del quadro socioeconomico e delle vicende storiche che ne hanno caratterizzato la nascita costituiscono punti di riferimento obbligato per l’individuazione dei caratteri dei movimenti migratori che hanno interessato la provincia di Frosinone nel secondo dopoguerra.
Istituita nel 1927, la provincia nasceva dall’unione di due aree storico-geografiche differenti, il circondario di Frosinone e quello di Sora, appartenuti il primo alla provincia di Roma e il secondo a quella storica di Terra di Lavoro, cioè Caserta. Il circondario di Sora era stata una zona di forte emigrazione fin dall’età moderna, mentre quello di Frosinone non aveva una forte tradizione migratoria, soprattutto perché mancava una mentalità propensa alla mobilità. Infatti il governo pontificio non aveva mai giudicato positivamente l’emigrazione e, dunque, non aveva rilasciato con facilità i passaporti, scoraggiando gli abitanti a partire. Per di più agiva un altro aspetto che faceva del frusinate un’area di scarsa emigrazione al di fuori dei confini dello Stato Pontificio dovuto all’attrazione esercitata da alcune sue zone interne, come la Campagna Romana, che aveva generato un sistema migratorio intra-territoriale dove affluivano circa 100.000 lavoratori stagionali ogni anno.
Al contrario il circondario di Sora era un’area caratterizzata da notevole mobilità, i cui abitanti erano abituati allo spostamento e presentavano una forte tradizione migratoria fin dall’antico regime. Fin dagli inizi dell’Ottocento veniva descritta come la terra dei domatori di orso e dei suonatori ambulanti, ed era stata caratterizzata da un incremento dei flussi migratori, in seguito all’unificazione italiana, alla crisi industriale del 1881 e alla recessione agricola del 1887.
Le destinazioni privilegiate degli emigranti provenienti dal Sorano erano state quelle europee, ma a partire dal 1881 era stato il mercato americano ad attrarre sempre di più giovani lavoratori. A cavallo dei secoli XIX e XX l’emigrazione dal circondario di Sora si componeva di contadini, braccianti, manovali, operai, artigiani, casalinghe, ambulanti, negozianti, domestiche, cui si aggiungeva una esigua emigrazione di élite che comprendeva benestanti, medici, ingegneri e artisti. Ma anche l’ingaggio dei bambini portati a lavorare nelle vetrerie di Lione e Parigi, o di ragazze costrette alla prostituzione costituivano anelli importanti di questa emigrazione ottocentesca.
I flussi migratori del secondo dopoguerra seguivano questa tradizione secolare di spostamenti, soprattutto da alcune aree della provincia da sempre interessate al fenomeno migratorio. La presenza dei discendenti dei primi emigranti aveva garantito lo spostamento di altri individui, innescando solide catene migratorie.
Ne è testimonianza uno studio sulle origini della popolazione immigrata a Saint Romain le Puy, a sud della Francia, condotto dal Gruppo di Storia locale del centro francese1. La ricorrenza di un cospicuo numero di cognomi di origine italiana nella comunità è giustificata dal trasferimento di persone provenienti dall’area meridionale della provincia di Frosinone e dalle zone settentrionali di quella di Caserta.
L’importanza assunta da quelli che erano considerati apripista delle successive emigrazioni non può sicuramente essere trascurata, sia dal punto di vista delle mete raggiunte fin dal XIX secolo sia per i percorsi individuali di numerosi emigranti. E proprio attraverso tali percorsi è stato possibile il successivo innesto di catene migratorie di tipo familiare, o tutt’al più genericamente legate al vicinato, alle contrade e ai rapporti di comarato e comparato. Dunque, la comprensione dei meccanismi migratori del secondo dopoguerra rinvia alla presenza di catene familiari e alla predilezione di alcune mete, soprattutto europee, frutto di una tradizione migratoria disorganizzata che si era consolidata fin dagli inizi del XIX secolo e che appare significativa soprattutto per un nucleo di comuni.
La tendenza ad emigrare, propria delle aree a sud di Frosinone, fu sfruttata nel secondo dopoguerra per diminuire la pressione demografica. Furono le stesse autorità locali a considerare l’emigrazione una valvola di sfogo. Il prefetto Roberto Siragusa, nell’aprile del 1948, di fronte alle numerose e ingenti difficoltà legate alla ricostruzione materiale del Frusinate, osservava che «l’unica drastica alternativa adottata dalla popolazione è quella del tradizionale canale di sfogo sociale dell’emigrazione»2.
Fu soprattutto la parte meridionale della provincia, storicamente corrispondente al circondario di Sora, a risentire maggiormente della depressione economica seguita al periodo bellico.
Il passaggio del fronte di guerra, che vi aveva sostato per nove lunghi mesi, i continui bombardamenti cui erano stati soggetti i comuni dislocati lungo la linea difensiva «Gustav», avevano determinato la distruzione del paesaggio naturale e del patrimonio edilizio, con la distruzione di interi paesi, ma avevano provocato anche danni ingenti in tutti i settori produttivi.
Il quadro delle condizioni materiali della provincia era aggravato, come emerge dalle relazioni prefettizie, dal problema della disoccupazione, notevolmente acuitasi in seguito alle vicende belliche. La scarsa presenza di capitali da investire, l’inadeguatezza tecnico-economica degli imprenditori e dei lavoratori, la restrizione delle superfici coltivabili e la pressione demografica costituivano le principali cause degli alti indici di disoccupazione del Frusinate.
Paradossalmente, nel 1951, quando erano ormai risanati i danni della guerra e s’inaugurava un periodo di sviluppo economico si assisteva ad un incremento del numero di emigrati.
Nonostante l’impegno dei governi e l’avvio di uno sviluppo industriale, l’emigrazione era vista dalle popolazioni del Frusinate come l’unica scelta per migliorare le proprie condizioni di vita. Il quadro della mobilità risultava fortemente influenzato anche dalla politica internazionale in tema di emigrazione: gli accordi per favorire l’afflusso di manodopera italiana all’estero risalgono tutti alla fine degli anni Quaranta e sono sicuramente fra le cause che accentuarono il fenomeno dopo il 1950.
All’interno della provincia di Frosinone si potevano rilevare due zone distinte, una nord-occidentale e una sud-orientale, nelle quali l’emigrazione aveva assunto connotati differenti. Dalla prima area si emigrava meno all’estero, visto che gran parte degli spostamenti erano diretti verso la capitale. Nelle zone meridionali si registravano, invece, delle differenze direzionali fra i diversi Comuni: in America si emigrava dai paesi a Sud del Liri, in particolare da Pontecorvo e Cervaro, in Francia dalla Valle del Liri e dal Cassinate.
Le diverse destinazioni influivano anche sulla differenziazione professionale degli emigranti. Se in Inghilterra, infatti, erano diretti camerieri, domestiche e gelatai, per un lavoro stagionale e temporaneo, intere famiglie contadine si trasferivano stabilmente in Canada e giovani muratori celibi in Venezuela. Bisogna inoltre considerare, per quanto riguarda la zona del Cassinate e del Liri, che l’incremento naturale della popolazione fu minore rispetto al resto della provincia, data l’incidenza del numero di morti causati dagli eventi bellici, che avevano interessato maggiormente quel territorio.
Lo spostamento nel secondo dopoguerra di un gran numero di emigrati provenienti dalla parte più orientale della provincia, la Valle di Comino (che comprende quindici comuni e cioè Alvito, Atina, Belmonte Castello, Broccostella, Casalattico, Casalvieri, Fontechiari, Gallinaro, Picinisco, Posta Fibreno, San Biagio Saracinisco, San Donato Val Comino, Settefrati, Vicalvi e Villa Latina) apparve come il prolungamento di flussi migratori consolidati nell’Ottocento: essi, infatti, si mossero lungo traiettorie tradizionali, avallati dalla presenza di accordi bilaterali con i Paesi europei che contavano da decenni un alto numero di immigrati italiani.
La Valle di Comino ha costituito una zona di consolidata tradizione migratoria. Considerata un’area marginale, il Cominese è circondato dai monti, ha un’economia prevalentemente agricola e non presenta sviluppo industriale significativo, gravitando intorno ai centri maggiori dell’area cassinate e del sorano.
Nel secondo dopoguerra, i piccoli centri appartenenti alla Valle di Comino subirono un forte spopolamento, dovuto soprattutto alle precarie condizioni di vita. Soprattutto le zone collinari e montane erano interessate al fenomeno dell’emigrazione detta “degli inglesi”, volta quasi esclusivamente verso Paesi europei, come l’Inghilterra, la Scozia, l’Irlanda, la Francia e il Belgio.
Per la nostra analisi sui flussi migratori, basata proprio sul forte trend secolare di mobilità che ha caratterizzato la Valle di Comino, si è provveduto a individuare un campione di comuni appartenenti a tale area e comprendente, cioè, Casalvieri, Atina, Casalattico, Picinisco, San Donato Val Comino, Fontechiari, Gallinaro, Settefrati, Vicalvi e Alvito.
Nello specifico:
A Casalvieri la notevole riduzione della popolazione locale registrata nel dopoguerra sta a confermare la “tendenza ad emigrare” propria della comunità, una tendenza che non aveva subito interruzioni nemmeno durante il periodo fascista, nonostante le leggi introdotte dal regime. In base al censimento del 1951, risultavano emigrati all’estero 345 individui, ma la tendenza negli anni perdurò e, se negli altri paesi si registrò nel lungo periodo un decremento del flusso migratorio, non é avvenuto altrettanto a Casalvieri. Qui neanche negli anni Settanta, quelli della tardiva ricostruzione e della crescita economica della provincia, si arrestò un fenomeno ormai consolidato, mentre l’insufficienza delle risorse economiche locali aveva perpetuato la mobilità portando, via via, la popolazione a dimezzarsi. Infatti, se nel 1861, su una popolazione di 4.242 abitanti, erano solo 510 i casalvierani residenti all’estero, il censimento del 1991, su una popolazione di 3.216, ne ha accertati ben 2.3753. La principale meta dell’emigrazione casalvierana era la Francia, soprattutto la periferia parigina e lionese, a conferma di una tradizione che risaliva alla fine del XIX secolo. Fra le prime tappe c’era stata la Val-de-Marne, in particolare il centro di Villerjuif, fra le altre mete c’erano gli Stati Uniti, già a partire dal 1880, il Canada, dove molti si erano distinti nel ramo edilizio, il Venezuela e il Belgio.
Gli emigranti di Atina avevano comunque contatti a Parigi, venivano chiamati attraverso i ricongiungimenti familiari ed erano per lo più sarti e falegnami. È significativo il caso di Filiberto Gargano, partito per la Francia a diciassette anni, che aveva una fabbrica di mobili dove lavoravano trentuno atinati su trentasette addetti.
La tradizione migratoria dal Comune di Casalattico risale alla prima metà dell’Ottocento, quando gli spostamenti si indirizzavano prevalentemente verso l’Irlanda dove negli anni Novanta dell’Ottocento si contavano 3.500 italiani, il 90% dei quali proveniente dai paesi che oggi fanno parte della provincia di Frosinone4. Si trattava soprattutto di stuccatori, ma anche di gelatai, cantanti, musicisti, venditori di patatine fritte, caffettieri, ristoratori o addetti al trasporto pubblico. Nel secondo dopoguerra, l’emigrazione proveniente dal Comune di Casalattico riprese in dimensioni maggiori, ricollegandosi a quella precedente. In questo periodo gli emigranti partivano sfruttando gli atti di chiamata dei compaesani. La lunga catena migratoria aveva determinato lo spopolamento di intere contrade del Comune, in modo particolare quella di Montattico. Famiglie come i Borza, i Marsella e i Macari, partite anni prima, avevano incentivato l’emigrazione di altri casalesi, procurando loro sistemazione e lavoro. Villa Latina era sempre stata una terra di emigranti e, soprattutto negli anni Sessanta del Novecento, il flusso migratorio si diresse principalmente verso il nord Europa ed era composto, come quello di Casalattico, da gelatai e pasticceri.
La tradizione migratoria del Comune di Picinisco raggiunse cifre consistenti nel 1952 e nel 1957. In quegli anni il numero delle persone che trasferiva la propria residenza all’estero raggiunse dei valori consistenti (rispettivamente 122 e 389 unità). Questa emigrazione coinvolgeva interi gruppi familiari che lasciavano il paese. Molto spesso si trattava di giovani coniugi con due o tre figli in età scolare. I dati ricavati dal rilascio dei nulla osta, però, dimostrano che in realtà in quegli anni sarebbero emigrate molto più persone. Infatti la richiesta del rilascio di passaporto se non fornisce la piena certezza che tutti gli intestatari fossero effettivamente partiti, è comunque indice dell’intenzione che tanti avevano di abbandonare la propria residenza. È probabile che queste persone effettivamente partissero, poiché molti avevano già un contratto di lavoro o ricevevano un atto di chiamata da coniugi o parenti che si davano da fare per trovare loro una prima sistemazione di alloggio e lavorativa. A conferma di un’emigrazione che aveva assunto caratteri di stabilità nei luoghi di arrivo, c’è il dato della partenza di numerose donne e soprattutto la presenza, nei registri del Comune per gli anni 1953-585, di atti di chiamata nei Paesi raggiunti precedentemente da altri emigrati. Si trattava di una emigrazione dai tratti spiccatamente parentali, con reti familiari che costituivano punti di riferimento essenziali all’interno delle comunità di partenza. Ne sono dimostrazione i nulla osta concessi dal sindaco di Picinisco, che documentano la frequenza di ricongiungimenti a genitori, cognati, fratelli, ma anche una interessante rete di solidarietà fra concittadini. Era il caso di alcune piciniscane che erano state chiamate come donne al servizio di emigrati, dato sicuramente anomalo se teniamo in considerazione le condizioni di vita di chi emigrava. Si trattava piuttosto di espedienti per permettere ad alcuni compaesani, che non avevano già un contratto di lavoro, di raggiungere mete europee dove avrebbero trovato un’occupazione.
I registri dei Comuni mostrano, invece, una rilevante presenza della componente femminile, innanzi tutto in relazione ai ricongiungimenti familiari, che connotano in modo determinante il carattere più stabile dei flussi della seconda metà del Novecento, ma anche in relazione alle occupazioni svolte. Nei registri di Alvito, oltre a 185 casalinghe, che fanno supporre un ricongiungimento familiare, troviamo, nel decennio tra il 1946 e il 1956, 7 agricoltrici, 3 sarte, una magliettaia e una domestica6. A Picinisco, tra il 1953 e il 1959, fanno richiesta di nulla osta per diverse mete europee e transoceaniche 148 casalinghe e 60 agricoltrici7.
In particolare a Picinisco, come risulta dai registri comunali, le partenze riguardavano individui che svolgevano queste professioni generiche: casalinghe, in maggioranza, quasi sicuramente ricongiunte al capofamiglia emigrato, manovali e agricoltori. Altri dati interessanti sono sicuramente riscontrabili da una analisi dei luoghi di arrivo di alcune comunità frusinati, sulla scia di reti di emigrazione ottocentesche. A Villerjuif, in Francia, emigravano molti piciniscani perché lì era presente fin dagli inizi del XIX secolo una colonia; a Vitry sur Seine aveva sede una vetreria dove si era condensata una parte consistente dell’emigrazione frusinate fin dall’Ottocento.
I registri del Comune di San Donato Val Comino, per gli anni che vanno dal 1951 al 1960, mostrano la predisposizione degli abitanti a raggiungere le mete del Nord e del Sud America. La particolarità della destinazione dei flussi è, ancora oggi, riscontrabile nella presenza di numerosi emigrati residenti nel Massachusetts. Da questo centro, che vantava «una autentica tradizioni di lavori in pietra», emigravano soprattutto scalpellini.
La forte connotazione di un’emigrazione stabile si evince anche dalla presenza di numerosi nuclei familiari partiti dal piccolo centro cominese. Nei registri del Comune di San Donato, su 319 pratiche inerenti l’emigrazione all’estero, 87 riguardano le partenze di individui legati da vincoli parentali (fratelli, cugini, genitori e figli). In alcuni casi, la partenza di donne con i figli, conferma l’ipotesi di ricongiungimenti familiari, per lo più concentrati in America. Si tratta sempre di nuclei numerosi, composti da 3 o 4 figli.
Gallinaro, che riacquisì l’autonomia amministrativa nel 1948, fu anch’esso un centro interessato al fenomeno dell’emigrazione fin dal XIX secolo. Già dopo l’Unità molti cittadini erano stati costretti ad emigrare in Europa e in America a causa delle misere condizioni del paese. La meta preferita era stata la vicina Francia, da dove molti emigrati, nel 1915, erano tornati per combattere la Grande Guerra. Nel corso dell’Ottocento, un certo numero di ragazze di Gallinaro emigrate in Francia erano state assunte come modelle. Nel secondo dopoguerra, oltre Parigi, le scelte degli abitanti di Gallinaro si indirizzarono verso il Belgio, il Venezuela, il Canada, gli Stati Uniti e, per una minoranza, anche l’Inghilterra, la Germania, l’Argentina. Dal 1951, le partenze furono costanti e determinarono un notevole decremento della popolazione. Come mostrano i censimenti del 1951, del 1961 e del 1971 la popolazione si ridusse drasticamente, più del 50%, e in valori assoluti, rispettivamente, da 2.212 abitanti a 1.516 e a 10588. Le partenze che interessarono il Comune di Gallinaro dal 1949 al 1960 furono 361 per l’Europa (75 nuclei familiari) e 388 per i Paesi transoceanici (106 nuclei familiari).
Soprattutto dai registri di Picinisco e Gallinaro emergono dati interessanti in relazione agli anni di maggior vigore del flusso migratorio. Ad esempio, si registra un notevole aumento delle partenze dal 1955 in avanti. Il dato è interessante perché strettamente ricollegabile agli accordi di Roma del 1957, che davano la possibilità di una maggiore circolazione di manodopera.
Anche la delusione delle aspettative di una ricostruzione dei centri della provincia, soprattutto di quelli di piccole dimensioni o della parte collinare della Valle di Comino, giocò un ruolo fondamentale nelle scelte migratorie. Un problema che si era presentato chiaro già nell’immediato dopoguerra e che aveva portato i vari governi del tempo a considerare l’emigrazione come unico rimedio per risolvere il problema della disoccupazione. Dunque la politica italiana verso i Paesi esteri, basata su accordi bilaterali, venne vista come la scelta migliore per affrontare gli squilibri del periodo post-bellico.
Un primo esempio fu rappresentato dal tentativo di istituire una unione doganale italo-francese, poi naufragata. Quando poi, nella primavera del 1948, venne avviato l’Erp, il mondo politico e produttivo italiano considerarono il surplus di mano d’opera come una risorsa da mettere a disposizione degli altri Paesi aderenti al piano Marshall. Per le autorità nazionali la soluzione più immediata alla questione occupazionale passava attraverso l’emigrazione9. Quando, nell’ottobre 1948 George Marshall, incontrò a Roma le massime cariche istituzionali italiane, De Gasperi gli rappresentò che l’emigrazione rappresentasse «the only solution politically praticable»10, per cui chiese al segretario di Stato americano di adoperarsi per persuadere le altre nazioni europee e dell’America latina ad accettare i lavoratori italiani.

1 Gli immigrati di Saint Romain le Puy, opuscolo realizzato dal Gruppo di Storia locale di Saint Romain le Puy, Amministrazione comunale e Villaggio del Forez, Saint Romain le Puy 2000.

2 Situazione Provinciale mese di marzo 1948, 3 aprile 1948, in Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Gabinetto 1948, b. 82, f. 14836.

3ISTAT, Popolazione residente e presente dei comuni, Censimenti dal 1861 al 1991, tomo 2, Roma 1997.

4 U. Power, Terra straniera….cit., p. 13.

5 Nei registri manca il 1957.

6 Archivio storico Comune di Alvito, Registro di emigrazione.

7 Archivio storico Comune di Picinisco. Nei dati c’è la lacuna dell’anno 1957, colmata attraverso lo spoglio dell’elenco delle persone cancellate dal registro di popolazione. Per Picinisco i dati si riferiscono non alle pratiche di emigrazione ma ai nulla osta richiesti al sindaco del Comune.

8 Ibidem.

9 Tuttavia,negli stessi ambienti, l’emigrazione non veniva considerata esclusivamente come valvola di sfogo sociale (diminuzione delle tensioni sociali, alleggerimento della pressione demografica ed aumento del tenore di vita dei lavoratori) ma anche sotto l’aspetto economico in quanto le rimesse degli emigranti contribuivano a diminuire il deficit della bilancia dei pagamenti italiana

10 Conversation, 18 ottobre 1948, in Frus 1948, vol. III, Western Europe, United States Government Printing Office, Washington 1974, p. 885.