Da Ivo Livi a Yves Montand: un italiano di Marsiglia

La morte del cantante e attore Yves Montand, il 9 novembre 1991, ha suscitato grande emozione in Francia come in Italia. Sui media francesi si sono susseguiti gli omaggi a colui che il presidente Mitterand considerava come “un grande artista (…) entrato nella storia dello spettacolo della nostra epoca”[1]. Alcune sue interpretazioni, come Les feuilles mortes del poeta Jacques Prévert, Le Temps des cerises, canzone simbolo della Comune di Parigi, La bicyclette, 1968, o ancora il Chant des partisans, inno della Resistenza francese, erano impresse nella memoria di tutti mentre il suo successo sulla scena di Brodway e i film girati a Hollywood negli anni 1960 gli avevano conferito quel riconoscimento all’estero che tanto lusingava l’orgoglio nazionale. Lo si ricordava inoltre come un artista impegnato, che affermava i suoi ideali umanisti nel dibattito pubblico come nella scelta di alcuni ruoli sul grande schermo (si pensi ai film di Costa-Gavras: Z-L’orgia del potere, 1969, La confessione, 1970, e L’Amerikano. 1973).

In Italia l’omaggio a Montand in occasione della sua morte è stato altrettanto sentito: la notizia ha aperto i telegiornali nazionali e occupato la prima pagina dei maggiori quotidiani (“La Repubblica” titolava, in francese, Adieu Montand[2]) che dedicavano inoltre diverse pagine a ripercorrere la carriera dell’artista. Un corrispondente della televisione francese a Roma sottolineava, non senza ironia, che in Italia “ci si compiace di chiamarlo con il suo vero nome come per attribuirsi una parte, seppur modesta, della sua fama”[3]; l’ex presidente del consiglio Bettino Craxi non ne parlava, d’altronde, come di “un italiano straordinariamente francese?”[4]?

 

  1. Una famiglia di emigrati italiani a Marsiglia

Yves Montand nasce in effetti italiano, il 13 ottobre 1921, a Monsummano Terme in Toscana, con il nome di Ivo Livi. Nella cittadina in provincia di Pistoia, conosciuta per le grotte termali e celebre per aver dato i natali, nel 1809, allo scrittore e poeta Giuseppe Giusti, passerà solo i primi tre anni di vita. Suo padre infatti conduce la famiglia, di cui Ivo è il terzo e ultimo figlio, sulla via della migrazione, come tanti altri abitanti della regione all’inizio degli anni Venti. L’artista racconterà in seguito le circostanze di questa emigrazione,  legata alle persecuzioni fasciste: “mio padre ha incassato di tutto, le sevizie, le bastonate, fino all’olio di ricino che gli facevano ingoiare a forza”[5].

Fervente pacifista a seguito degli anni passati sotto le armi nel corso della guerra di Libia e poi della Grande Guerra, Giovanni Livi fu tra i primi militanti locali dell’appena nato Partito Comunista Italiano e costituiva quindi un bersaglio per gli squadristi di Monsummano guidati da suo cognato. L’incendio del suo laboratorio di fabbricazione di scope, firmato con la scritta “A morte i comunisti!”, ultima di numerose aggressioni, non solo finì di convincerlo della minaccia fascista, ma comportò la sua rovina[6]. La scelta dell’emigrazione fu dunque determinata dalla sovrapposizione e dall’intreccio di moventi politici ed economici, come spesso sottolineato nella storiografia recente.

Livi parte in un primo tempo da solo e attraversa la frontiera franco-italiana clandestinamente, ricorrendo a uno di quei passeurs che a caro prezzo permettevano di eludere i controlli di polizia[7]. Quando arriva a Marsiglia l’intenzione inizialmente non è quella di stabilirvisi ma, come per molti altri italiani, di imbarcarsi per le Americhe[8]. Sulla prima pagina della sua copia della Gerusalemme liberata, Giovanni Livi menziona la data del suo arrivo, il 2 febbraio 1924[9]. Una volta a Marsiglia si presenta al consolato americano dove, con sua grande delusione, apprende che da appena 24 ore i visti non sono più concessi, a seguito del “Quota Act” approvato a Washington. Nella città provenzale non si trova, però, isolato. All’interno della grande comunità toscana (18,5% degli immigrati italiani nel 1901[10]) vi è anche una sua zia, da cui viene accolto, e grazie al marito, caporeparto in un oleificio, trova un impiego nello stabilimento Darrier de Rouffo, a boulevard Oddo. Nei quartieri nord gli oleifici, insieme ai saponifici, alle industrie agro-alimentari, chimiche e metallurgiche e alle fornaci, sono parte integrante del sistema industrialo-portuale che guida la crescita economica di Marsiglia a partire dall’Ottocento e impiegano un gran numero di italiani (rappresentano l’88% degli operai nel 1881[11]). La filiera di trasformazione dei semi oleosi risente senz’altro, come del resto l’insieme dell’industria marsigliese, della fase di contrazione dei mercati che segue la fine Prima Guerra mondiale, ma continua ancora a occupare una gran quantità di manodopera[12].

Tre mesi dopo il suo arrivo, Giovanni Livi può dunque già essere raggiunto dalla sua famiglia, che si stabilisce vicino al suo luogo di lavoro, inizialmente dalla parte del Verduron alto[13], poi in un appartamento nel quartiere des Crottes, rue Edgar Quinet, indirizzo della famiglia Livi quando avvia le pratiche per ottenere la naturalizzazione, nel 1927[14]. A quanto emerge dagli atti amministrativi, Giovanni Livi, che esercita la professione di operaio a giornata, “prevede di non lasciare più la Francia” e si comporta da “buon repubblicano”. In quel momento sembra dunque aver preso le distanze dall’impegno militante, distinguendosi così da molti dei suoi compagni italiani, fra cui tanti toscani[15], che intraprendono un’intensa attività di propaganda e di lotta contro il fascismo, senza escludere azioni di forza[16]. I comunisti italiani sono oggetto in questo periodo di una sorveglianza particolarmente attenta e agli avvertimenti seguono di norma le espulsioni. In questo contesto, Livi sceglie senza dubbio di assicurare un futuro alla sua famiglia in Francia, ma non rinnega le sue convinzioni (è a sua insaputa che il figlio Ivo viene battezzato dalla madre[17]). La famiglia attraversa dei momenti difficili a causa del rapido fallimento del laboratorio di costruzione di scope che Livi tenta di rilanciare a Marsiglia[18]. Una volta ottenuta la naturalizzazione, la sua attività politica sembra riprendere. Il figlio lo descrive addirittura come un “un responsabile degli antifascisti italiani”, che ospita i “compagni di passaggio”[19], stampa volantini e tiene delle riunioni in un bar nel quartiere della Cabucelle, dove la famiglia si è stabilita[20]. È difficile individuare la vera natura di questo impegno, che sfugge agli organi di controllo: al momento del rinnovo della naturalizzazione, imposto dal regime di Vichy con la legge del 22 luglio 1940, si valuta che «il suo atteggiamento dal punto di vista nazionale e politico non è stato oggetto di alcuna nota sfavorevole”[21]. Ciò non toglie che il ricordo di questo impegno abbia segnato durevolmente il figlio più giovane che, una volta diventato famoso, vi fa spesso riferimento come matrice originaria delle sue prese di posizione politiche.

In gioventù, Ivo Livi non segue comunque l’esempio paterno, contrariamente al fratello che aderisce alle Jeunesses communistes, e ammette di aver partecipato solamente una volta a una manifestazione organizzata da “Rouge-Midi”, il giornale comunista locale[22].

 

  1. Una giovinezza italo-marsigliese

I suoi primi ricordi lo portano ad evocare gli anni d’infanzia passati a la Cabucelle, nella loro casa con giardino, in un contesto industriale fra raffinerie di zucchero, industrie chimiche e di trattamento dei rifiuti che sprigionano un odore pestilenziale e versano acqua inquinata nell’impasse des Muriers, dove è solito giocare con gli altri bambini del quartiere[23]. I suoi compagni di gioco sono toscani, piemontesi, ma anche greci, spagnoli o armeni. Vive quindi l’esperienza della Marsiglia cosmopolita degli anni fra le due guerre, quando la componente italiana, comunque maggioritaria, si riduce progressivamente in ragione dell’arrivo di nuovi flussi migratori[24]. In questo contesto, ricorda di non essersi sentito “immigrato o esule”, ricorda solamente qualche insulto ricevuto – “sporchi babis”[25] – ma appare lontano dalle tensioni xenofobe che, senza raggiungere l’intensità di fine Ottocento[26], accompagnarono la crisi degli anni 1930[27].

Ivo viene a contatto molto presto con il mondo del lavoro, ben prima dell’età legale. Quando, approfittando della sua statura, falsifica i documenti e trova impiego in un pastificio non ha che 12 anni. Attività industriale in pieno sviluppo, i pastifici sono allora nelle mani di poche grandi famiglie, alcune delle quali, come gli Scaramelli, di origine italiana[28]. Nella fabbrica Guérin, il giovane Livi “riempie i sacchi di cellophane” prima di diventare fattorino[29] e sperimenta presto la precarietà del lavoro non qualificato, in particolare fra gli immigrati, che vive sulla sua pelle quando viene licenziato dopo un diverbio con un suo superiore. Lavora quindi un periodo nel salone di parrucchiere della sorella, ma il suo interesse è ormai altrove: nelle sale cinematografiche.

 

  1. I primi passi sulla scena marsigliese

L’amore di Ivo Livi per il mondo dello spettacolo nasce fra le sale buie della Canebière e il cinema de l’Arbre, dove i film, in particolare le commedie musicali, sono proiettati in lingua originale[30]. Il giovane Livi è attratto inoltre dai teatri di varietà, al punto di vincere la sua timidezza e partecipare a un primo concorso, nel 1937, nel suo quartiere: si presenta con imitazioni di Maurice Chevalier, Charles Trenet e, cosa più sorprendente, di Paperino. La sua esibizione colpisce Francis Trottobas, l’organizzatore del concorso, che gli propone di esibirsi nei “cafés chantants” diffusisi a Marsiglia e nei dintorni già dal secolo precedente[31]. È a questo punto che adotta il nome di Yves Montand, che si dice essere un riferimento al modo in cui la madre, in un misto di italiano e francese, lo chiamava per salire a casa: “Ivo, monta”. Montand ammetterà in seguito che si tratta probabilmente di una ricostruzione a posteriori e confesserà di aver dimenticato la vera origine del nome d’arte[32].

In ogni caso è sotto questo nome che vince la finale del concorso organizzato dalla rivista “Artistica”, una sorta di guida agli spettacoli del Mezzogiorno francese. La sua carriera è così lanciata e prosegue sul palco del teatro dell’Odéon, sala da 1500 posti costruita alla fine degli anni 1920 a Marsiglia. La prima consacrazione arriva nel 1939, quando viene invitato a partecipare come “vedette anglaise[33]” a uno spettacolo in scena all’Alcazar, che Montand descriverà in seguito come il “Metropolitan Opera des Bouches-du-Rhône”[34]. Aperto nel 1857, L’Alcazar, con la sua sala d’ispirazione moresca, è il tempio del varietà nella regione[35], dove si esibiscono tutti i grandi artisti dell’epoca (Charles Trenet, Maurice Chevalier, Tino Rossi, Fernandel) e sono messe in scena le operette di Vincent Scotto, altro marsigliese di origine italiana[36]. Di fronte a un pubblico esigente, che non si fa scrupolo di dimostrare rumorosamente la propria disapprovazione, Yves Montand conosce il successo grazie alle proprie imitazioni, ma anche grazie a una canzone originale: Dans les plaines du Far-West. Dopo questo avvio promettente, la sua carriera procede a singhiozzo a causa della guerra. Montand è infatti costretto a tornare a lavorare prima per i Chantiers de Provence, impresa metallurgica dove è addetto a fabbricare le boe di sostegno ai cavi dei sottomarini che bloccano l’entrata dei porti[37], poi nei docks, dove è impiegato nella movimentazione di carichi pesanti[38]. Ritrova la scena dal 1941, quando fa una tournée nella regione di Marsiglia, che lo porta ancora all’Odéon, in apertura del concerto di Rina Ketty, nome d’arte di Cesarina Picchetto. La cantante, nata a Sarzana in Liguria, aveva fatto carriera a Parigi dove si era rivelata nel 1938 interpretando J’attendrai, adattamento di una canzone italiana, Tornerai, scritta da Nino Rastelli sulla musica di Dino Olivieri, a sua volta ispirata a Madame Butterfly di Puccini; per “Le Petit Provençal” e “Le Petit Marseillais” all’unisono “la rivelazione della stagione” è, però, Yves Montand[39]. Ancora una volta le circostanze frenano la sua ascesa e viene richiamato nei “chantiers de jeunesse”, una sorta di sostituzione del servizio militare imposto ai giovani dal regime di Vichy[40], dove a causa di una confusione sul suo cognome, scritto Levi, sfugge per poco alla deportazione[41]. Di ritorno a Marsiglia, la sua carriera artistica è nuovamente minacciata dall’imposizione del “Service du travail obligatoire” (STO) nel settembre 1942[42], che riesce a eludere grazie a un contratto che lo porta sulla scena parigina a partire dal 1943. Lasciata Marsiglia, la sua carriera si appresta a trovare nuovo slancio.

 

  1. Memorie d’Italia

Nel corso di tutta la sua carriera, Yves Montand mantiene dei legami con il suo paese di origine sotto diverse forme senza che però questi sembrino assumere un peso particolare. Alla sua morte, il corrispondente di “Le Monde” in Italia nota addirittura che: “Questa «italianità» tuttavia, il cantante sembrava averla vissuta abbastanza male e la stampa ricorda per diletto che, nel corso della sua vita ignorò superbamente il suo paese natale, Monsummano, nella provincia di Pistoia, in Toscana. A più riprese, i diversi sindaci del paese tentarono di conferirgli almeno la cittadinanza onoraria: Montand ignorò le pratiche. Il paese, tanto orgoglioso di aver visto la sua nascita, rimase dunque deluso. Ci andò un giorno, comunque, nel 1953, quando girava a Firenze un episodio di Tempi nostri, di Blasetti”[43]. Quest’indifferenza non impedisce, però, ben più tardi, di intitolare il teatro cittadino a Yves Montand. L’artista fa in ogni caso diversi viaggi per ragioni professionali o personali attraverso la Penisola.

Nel corso della sua carriera di attore, Montand non manifesta particolare interesse per il cinema italiano in un momento in cui viene internazionalmente apprezzato e attira diversi attori francesi, in particolare nel quadro delle co-produzioni franco-italiane[44]. Al di là del film di Blasetti, Montand gira infatti solo altri due film con dei cineasti italiani: Uomini e lupi di Giuseppe de Santis (1957) e La lunga strada azzurra di Gillo Pontecorvo (1958). Rende, però. omaggio all’Italia in musica, interpretando nel 1962 diversi brani tratti dal repertorio popolare: Amore dammi quel fazzolettino, Un bicchier di dalmato oltre al canto partigiano Bella Ciao[45], allo stesso tempo omaggio all’impegno politico di suo padre e in sintonia con le sue posizioni politiche.

Senza mai rinnegare le sue origini, Yves Montand afferma tuttavia di essersi sempre “sentito francese”[46]. Quando, in occasione di una trasmissione televisiva nel 1980, lo scrittore e disegnatore umoristico François Cavanna, che aveva pubblicato due anni prima Les Ritals[47] (racconto autobiografico che, evocando la vita della comunità italiana di Nogent-sur-Marne, partecipa al ritorno della memoria dell’immigrazione italiana in Francia[48]) gli fa notare che è “un vero Rital”, in quanto nato in Italia, Montand concorda solo moderatamente[49]. Il suo sguardo sull’Italia e sugli italiani non si discosta molto da quello, fortemente stereotipato, che hanno la maggior parte dei francesi in epoca contemporanea[50]: “amo la cortesia, la gentilezza ma tutto il lato gesticolatorio mi annoia”[51], osserva. La distanza dell’artista rispetto paese di origine trova un ulteriore  riscontro nella padronanza imperfetta della lingua, come attestato dall’ultima intervista rilasciata a una televisione italiana poco prima della sua morte[52].

“Tu vois, je n’ai pas oublié”, cantava Yves Montand in Les feuilles mortes. Se la memoria di un’Italia lasciata in tenerissima età si è dissipata, molto meno senza dubbio quella di una giovinezza marsigliese imbevuta di italianità.

[1]           “Le Monde”, 12 novembre 1991.

 

[2]           “La Repubblica”, 10 novembre 1991.

 

[3]           Institut national de l’audiovisuel (INA): telegiornale di TF1, 10 novembre 1991.

 

[4]           “Le Monde”, 12 novembre 1991.

 

[5]           Montand raconte Montand. Récit recueilli par Hervé Hamon et Patrick Rotman, Paris, Le Seuil, 2001, p. 21.

 

[6]           Hervé Hamon e Patrick Rotman, Tu vois je n’ai pas oublié, Paris, Seuil/Fayard, 1990, p. 20.

 

[7]           Ilsen About, Building lines between nations: Border-making and police practices at the French-Italian frontier, 1890-1914, in Borders, Mobilities and Migrations. Perspectives from The Mediterranean, XIX-XXIst Century, a cura di Lisa Anteby-Yemini et al., Bruxelles, Peter Lang, 2013, in corso di stampa.

 

[8]           Migrance. Histoire des migrations à Marseille, diretta da Émile Témime Marseille, Jeanne Laffitte, 2007 (riedizione), 2, pp. 19-27.

 

[9]           H. Hamon e P. Rotman, Tu vois je n’ai pas oublié, cit., p. 24.

 

[10]          Marcel Dottori, La Migration toscane à Marseille. Histoire d’une migration, Paris, L’Harmattan, 2010, p. 16.

 

[11]          Archives départementales des Bouches-du-Rhône (ADBdR), 1M881: état nominatif des chantiers, ateliers, manufactures ou fabrique employant concurremment avec des ouvriers français des ouvriers étrangers, 25 juillet 1881.

 

[12]          Du savon à la puce. L’industrie marseillaise du XVIIIe siècle à nos jours, a cura di Xavier Daumalin, Nicole Girard, Olivier Raveux, Marseille, Jeanne Laffitte, 2003, pp. 220-221.

 

[13]          Yves Montand, Le temps n’efface rien, Paris, Albin Michel, 2006, p. 10.

 

[14]          ADBdR 6M920.

 

[15]          Colette Berger, L’antifascisme italien à Marseille et dans Bouches-du-Rhône de 1922 à 1934, Mémoire de maîtrise d’histoire contemporaine, Université d’Aix-Marseille, 1988, p. 30.

 

[16]          Stéphane Mourlane, De la violence entre fascistes et antifascistes, in Les batailles de Marseille. Immigration, violences et conflits, XIXe-XXe siècles, a cura di Id. e Céline Regnard, Aix-en-Provence, Presses Universitaires de Provence, 2013, pp. 85-94.

 

[17]          INA, CPB90013653, Qu’avez-vous fait de vos 20 ans?, France 2, 19 dicembre 1990.

 

[18]          Yves Montand, Le temps, cit., p. 11.

 

[19]          Montand raconte, cit., p. 35.

 

[20]          H. Hamon e P. Rotman, Tu vois je n’ai pas oublié, cit., p. 56.

 

[21]          ADBdR 6M920.

 

[22]          Montand raconte, cit., p. 35.

 

[23]          Ibid., p. 15.

 

[24]          Gli italiani sono 105.000 nel 1924, pari al 72% della popolazione straniera.  I dati ufficiali (poco affidabili ed esagerati) riportano per il 1934 la cifra di 127 000 italiani, il 62% della popolazione straniera (Migrance, diretto da É. Témime, cit., 3, pp. 25-29.

 

[25]          “Babis” è uno degli appellativi dispregiativi con cui venivano chiamati gli italiani e i loro discendenti in Francia a partire dall’epoca della grande migrazione. Il termine, di origine occitana, significa “rospi”.

 

[26]          Laurent Dornel, Cosmopolitisme et xénophobie: les luttes entre français et italiens dans les ports et docks marseillais, 1870-1914, “Cahiers de la Méditerranée”, 67 (2003), pp. 245-267, e Céline Regnard, Une société xénophobe? Marseille à la fin du XIXe siècle, in Les batailles de Marseille, a cura di S. Mourlane ed Ead., cit., pp. 149-158.

 

[27]          Ralph Schor, L’opinion française et les étrangers en France, 1919-1939, Paris, Publications de la Sorbonne, 1985.

 

[28]          Pierre-Antoine Dessaux, La filière du blé dur: semoulerie et fabriques de pâtes alimentaires, in Portraits d’industrie, Marseille, Editions parenthèses/Musée de Marseille, 2003, pp. 37-41.

 

[29]          Montand raconte, cit., pp. 28-30.

 

[30]          Ibid., p. 37.

 

[31]          Pierre Échinard, Les hauts lieux traditionnels de la Chanson, “Marseille”, 217 (luglio 2007), pp. 29-42.

 

[32]          Montand raconte, cit., p. 48.

 

[33]          Negli spettacoli dei Music-Hall si alternavano sulla scena diversi artisti: era detto “vedette anglaise” il terzo cantante che si esibiva durante la prima parte dello spettacolo.

 

[34]          INA, Qu’avez-vous fait de vos 20 ans?.

 

[35]          Claude Barsotti, Le music-hall marseillais de 1815 à 1914, Arles, Mesclum, 1984.

 

[36]          Roger Vigneau, Vincent Scotto et la chanson marseillaise, “Marseille”, 217 (luglio 2007), pp. 57-62.

 

[37]          H. Hamon e P. Rotman, Tu vois je n’ai pas oublié, cit., p. 85.

 

[38]          Montand raconte, cit., p. 54.

 

[39]          H. Hamon e P. Rotman, Tu vois je n’ai pas oublié, cit., p. 96.

 

[40]          Olivier Faron, Les chantiers de jeunesse: avoir vingt ans sous Pétain, Paris, Grasset, 2011.

 

[41]          INA, Qu’avez-vous fait de vos 20 ans?.

 

[42]          Patrice Arnaud, Les STO – histoire des Français requis en Allemagne nazie, Paris, CNRS Editions, 2010.

 

[43]          “Le Monde”, 12 novembre 1991.

 

[44]          Perrine Ledan, Les Échanges cinématographiques franco-italiens dans l’Europe des années soixante, mémoire de maîtrise, Université de Paris I, 1991.

 

[45]          Vedi http://www.yves-montand-site-officiel.com (consultato il 9 giugno 2013).

 

[46]          Montand raconte, cit., p. 21.

 

[47]          François Cavanna, Les Ritals, Paris, Belfond, 1978.

 

[48]          Stéphane Mourlane e Céline Regnard, “Invisibility” and memory: italian immigration in France during the second half of the 20th century , in Borders, Mobilities and Migrations, a cura di L. Anteby-Yemini et al., cit.

 

[49]          INA, I00005495, Le grand échiquier, 24 aprile 1980.

 

[50]          Pierre Milza, Français et Italiens à la fin du XIXe siècle. Aux origines du rapprochement franco-italien de 1900-1902, Rome, École française de Rome, 1981, pp. 353-406, e Stéphane Mourlane, Une certaine idée de l’Italie. Attitudes et politique françaises 1958-1969, thèse de doctorat d’histoire contemporaine, Université de Nice, 2002, pp. 243-349.

 

[51]          Montand raconte, cit., p. 21.

 

[52]          INA, CAA91058328: telegiornale di TF1, 10 novembre 1991.