Manlio Rossi-Doria: il Mezzogiorno, i contadini e l’emigrazone

  1. Rossi-Doria, la Lucania e l’Irpinia

Manlio-Rossi Doria meridionalista e studioso di economia e politica agraria nasce a Roma nel 1905 e muore nella stessa città nel 1988. Ma trascorre la maggior parte della sua vita a Napoli e nel Mezzogiorno. In una intervista televisiva di qualche anno prima della scomparsa diceva di aver due patrie, una reale, Roma, e una ideale, la Lucania. In questa regione aveva vissuto da giovane per un tirocinio legato alla tesi di laurea, era stato al confino e aveva condotto battaglie politiche all’epoca del referendum istituzionale e delle elezioni per la Costituente (insieme a Carlo Levi). Dalla Basilicata provenivano alcuni dei suoi collaboratori e amici più cari il “poeta dei contadini” Rocco Scotellaro, che ospitò presso l’Osservatorio regionale dell’Inea (Istituto nazionale di Economia Agraria) a Portici per la ricerca su “I contadini del Sud”.

A partire dal 1968 porta avanti il suo lavoro da senatore del partito socialista eletto in un collegio dell’Irpinia, un’area rappresentativa delle zone interne, “dell’osso del Mezzogiorno” secondo una sua notoria definizione. Rieletto nello stesso collegio si dimetterà per un problema cardiaco ma, nonostante la salute malferma, continuerà a condurre e promuovere ricerche in Basilicata e soprattutto in Irpinia.

Queste due aree del Mezzogiorno, due realtà contadine, alle quali è particolarmente legato hanno rappresentato dunque i principali contesti territoriali di studio dell’emigrazione, i principali punti di osservazione ma anche i sui principali ambiti del suo impegno civile e politico. E l’emigrazione è uno dei temi in cui a partire dall’immediato dopoguerra si esprime il suo impegno. Più specificamente sono i contadini, le loro condizioni, le loro speranze e soprattutto il punto di riferimento di Rossi-Doria studioso di emigrazione

Insomma l’ottica dalla quale Rossi-Doria studia l’emigrazione è quella dell’agricoltura e del Mezzogiorno, un contesto sociale e produttivo dal quale quei contadini dovranno andar via per migliorare la propria condizione e soprattutto per rendere possibile un miglioramento delle condizioni di tutti. Con tutte le implicazioni anche dolorose che sempre comporta, l’emigrazione per Rossi-Doria ha avuto un effetto senza dubbio positivo perché ha sempre permesso ai contadini di migliorare la propria condizione. E i periodi in cui la possibilità di emigrare per assenza di sbocchi veniva meno hanno avuto implicazioni ancora più dure.

 

  1. Dalla grande emigrazioni alla impossibilità di emigrare nella prima metà del Novecento

Commentando nel 1967 il ruolo dell’emigrazione europea del dopoguerra, quando il fenomeno è al suo apice, scrive: “Personalmente debbo dichiarare che non avrei mai creduto di poter vivere tanto a lungo da vedere la fine della miseria contadina di queste zone e invece l’ho vista. Oggi la miseria contadina ‒ la miseria di gente che non aveva scarpe, che viveva nelle capanne o in una sola stanza, che non aveva da mangiare a sufficienza, perché secondo il vecchio detto mangiava pane ed erba cotta – non esiste più nelle zone interne e questo sostanziale progresso è dovuto all’emigrazione”[1].

Vorrei soffermarmi un attimo su questo convincimento ‒ vale a dire sulla sua speranza e fiducia nell’emigrazione e la sua preoccupazione per l’assenza di sbocchi per tentare di spiegarne l’origine remota legata espressa ad esempio in un suo importante discorso a Potenza nel 1947[2]. Qui egli aveva affermato: “Voi permetterete la massima franchezza … la vostra agricoltura ha sempre duramente sofferto … di tre piaghe: canoni di affitto troppo alti, eccessivo gravame fiscale e forte indebitamento. Il grave è che il processo che ha portato … ad aggravare le condizioni della regione è tutt’ora in atto nei motivi suoi più profondi. A cominciare con l’aumento della popolazione”. Aggiungendo, con riferimento all’esperienza del passato (agli inizi del secolo) e al ruolo della emigrazione: “Allora… il paese seppe reagire e cominciò il glorioso e tragico processo della emigrazione di massa dei vostri contadini e anche dei vostri piccoli borghesi di paese e per quarant’anni la regione ha potuto vivere dei benefici apportati da questo esodo a tanta parte dei suoi figli, con i milioni delle rimesse degli emigranti che hanno permesso a tutti di respirare”.

Un po’ sulla base delle letture fatte, un po’ sulla base di conversazioni con lui negli ultimi anni della sua vita, mi sono andato convincendo che la sua fiducia nell’emigrazione derivasse proprio dalla osservazione degli effetti benefici che la Grande Emigrazione a cavallo tra Otto e Novecento aveva avuto per le masse contadine meridionali, anche grazie ai “milioni delle rimesse degli emigranti che hanno permesso a tutti di respirare”.

Questo è evidente nel discorso di Potenza. Ma è già ben illustrato nella stessa recensione al volume conclusivo della Indagine sulla formazione della piccola proprietà coltivatrice nel Dopoguerra, indagine alla quale aveva partecipato insieme a Emilio Sereni, quale borsista dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria[3]. La recensione ‒ scritta da un trentenne, sia pure con grande esperienza scientifica e di vita – colpisce per la sua sobrietà ed è perciò utilissima per comprendere anche il nesso tra emigrazione e trasformazioni sociali nel Mezzogiorno anche in tempi passati. L’esperienza migratoria aveva permesso ai contadini di migliorare il proprio livello di vita. Certo, lo sforzo per accumulare i soldi necessari all’acquisto dei pezzetti di terra che avevano permesso di “alzare il tetto” (secondo una sua metafora) era stato veramente immane per i contadini e, come notato da molta letteratura sull’argomento, con quelle rimesse si erano arricchiti soprattutto i proprietari fondiari che avevano loro venduto la terra. Devo anche dire che la formazione della piccola proprietà coltivatrice, come è evidente dal testo dell’Indagine sulla formazione della proprietà coltivatrice nel Dopoguerra e come sottolineato dalla recensione di Rossi Doria, era stato un fenomeno soprattutto settentrionale, anche se il Sud ne era stato significativamente interessato. Rossi Doria nella sua recensione sottolinea come i contadini emigranti del Sud, così come erano riusciti ad acquistare meno terra, furono costretti a restituirne (per incapacità di restituzione di pagamento del debito) anche meno.

Nella Grande Emigrazione c’era stato un notevole turnover, un notevole avvicendamento di emigranti. E sia i risparmi di coloro che tornavano, sia le rimesse di quelli che erano ancora o restavano in America erano stati importantissimi per la popolazione delle regioni del Mezzogiorno. Con la forte ripresa l’emigrazione negli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale, erano aumentate anche le rimesse. E queste, in un clima di inflazione molto elevata, valevano moltissimo: il che permise l’acquisto di terra. Non certo a pressi stracciati ‒ anzi il prezzo della terra era elevatissimo come sottolinea nel suo libro, Di qua e di là dell’Oceano Andreina De Clementi[4] – ma a condizioni più accessibili perché dato che il dollaro – la moneta delle rimesse ‒ guadagnava continuamente terreno. E questo favorì un grande trasferimento di piccoli pezzi di terra per formare piccole proprietà nelle mani dei contadini. Naturalmente poi con il discorso di Pesaro di Mussolini del 1926 e la fissazione della Quota 90, insomma con la rivalutazione della lira si bloccò l’inflazione, dando origine a una dura fase di deflazione che per i contadini indebitati fu una enorme tragedia. Avevano infatti contratto debiti in un clima di inflazione, quando si potevano saldare con grande facilità, ed erano ora costretti a ripagarli in una situazione di deflazione e di aumento del costo del danaro (e quindi del valore del debito). Il risultato fu che parte di questi terreni acquisiti tornò ai vecchi proprietari. Complessivamente la sommatoria, per il paese nel suo complesso, fu il passaggio di un milione di ettari nelle mani dei contadini e questo passaggio interessò tutte le regioni di Italia, ma in proporzione l’impatto fu minore nel Mezzogiorno.

L’effetto dell’emigrazione e delle rimesse per quest’ultimo non riguardò solo i contadini giacché l’intera società meridionale ne fu coinvolta anche direttamente (Rossi-Doria ricorda i tanti piccoli borghesi protagonisti delle partenze). E certamente dei cambiamenti si avvertirono come dimostra una certa mobilità sociale che interessò gli emigranti di maggiore successo. Ma ‒ e questa è una delle grandi differenze con l’emigrazione degli anni dello sviluppo del secondo dopoguerra ‒ in termini generali i rapporti di classe restarono sostanzialmente immutati.

È importante il riferimento a questa vicenda perché Rossi-Doria ha ben chiari gli effetti della grande emigrazione per l’alleggerimento demografico e il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini. Ne ricorda i grandi vantaggi ma anche i grandi limiti: limiti che non vuole si creino nella nuova ondata migratoria del secondo dopoguerra.

Qual è stato il grande limite? Come accennato, il grande limite è stato che la struttura proprietaria, il regime fondiario, non cambiò affatto. Certo, se i contadini compravano un pezzetto di terra tentavano di gestirlo, ove possibile, in maniera più intensiva, in maniera più labour intensive, ma anche più capital intensive, investendoci quante più risorse possibili e valorizzando il terreno. Ma normalmente la struttura economica e sociale delle zone non si modificava. Per chi aveva fatto molti soldi c’era un cambiamento individuale nella collocazione sociale, ma non c’era quella importante trasformazione nei rapporti sociali, sia pure mai completa e mai sufficiente, che Rossi-Doria invece avrebbe visto e osservato con la seconda emigrazione.

 

  1. La nuova emigrazione europea e le trasformazioni sociali nel Mezzogiorno.

Passiamo ora a quell’emigrazione che è stata oggetto delle analisi del Centro di Portici, che lo stesso Rossi-Doria ha direttamente studiato e alla quale ha dedicato maggior attenzione politica: l’emigrazione interna verso il Nord e l’emigrazione verso le nuove destinazioni europee soprattutto Germania e la Svizzera. A parte i numeri più modesti, le prime destinazioni europee – Francia, Inghilterra e Belgio ‒ avevano avuto un effetto minore sulla realtà sociale del Mezzogiorno proprio per il loro carattere sostanziale di emigrazione definitiva. Non che mancasse un certo turnover, come si era già verificato nel caso della Grande Emigrazione, ma per la situazione in cui avveniva, e soprattutto per le politiche migratorie dei paesi di arrivo, il carattere definitivo è stato prevalente. Conseguentemente, gli effetti sulla realtà sociale del Mezzogiorno non potevano che essere anch’essi relativamente più modesti. L’impatto sulle comunità di partenza, anch’esso positivo, era comunque più limitato. A tornare erano pochi, tranne che nei casi di fallimento dell’esperienza migratoria come fu il caso di molti dei protagonisti dell’emigrazione verso l’America latina a quel tempo[5]. Si tratta di destinazioni che riducono la loro portata non appena esplode in maniera davvero impressionante l’emigrazione verso Svizzera e Germania[6].

Ed è a iniziare dalla seconda metà degli anni cinquanta che emigrazione e trasformazioni sociali nel Mezzogiorno sono un tutt’uno. Oltre a cancellare la tradizionale miseria contadina, l’emigrazione contribuì in primo luogo a un mutamento nei rapporti tra le classi sociali del Mezzogiorno. O, forse, la drastica riduzione della pressione demografica e l’esistenza di una via di uscita per i contadini (e gli altri strati popolari del Mezzogiorno soprattutto rurale) scossero i rapporti di potere e la stessa situazione di oppressione economica della quale essi erano vittime. Il fenomeno ha una portata sconvolgente e non riguarda solo tutti gli aspetti della vita economica e sociale dei paesi del Mezzogiorno, ma incide drasticamente anche a livello culturale. I rapporti di potere e la riduzione del peso della borghesia terriera, messa in crisi dalle lotte contadine e dalla conseguente parziale modifica dei contratti agrari, permettono una nuova vita di uscita e modificano radicalmente l’intera società meridionale.

Anche i processi di scolarizzazione di massa, legati innanzitutto alla riforma della scuola media inferiore, trovarono nel reddito proveniente dall’emigrazione un fattore decisamente permissivo, che rese possibile la prosecuzione della scuola ben oltre l’obbligo ai figli degli emigranti. E ciò favorì in maniera significativa i processi di mobilità sociale.

Ricordo che la scuola e l’istruzione hanno rappresentato un campo di interesse e di impegno notevole per Rossi-Doria. L’alleggerimento della pressione demografica sulla terra migliorò le condizioni dei contadini che restavano, mentre il flusso delle rimesse innalzò il livello dei redditi e dei consumi stimolando la domanda complessiva di beni e rappresentando così anche uno stimolo indiretto allo sviluppo economico delle aree industriali di tutto il paese. Ma uno dei risultati più importanti dello sviluppo e dell’aumento del reddito di quegli anni fu il massiccio accesso alla scolarizzazione anche alle superiori e conseguentemente anche all’università.

C’era per converso anche il problema dello spopolamento delle zone di esodo: il fenomeno infatti, oltre un certo limite, diventava un problema che Rossi-Doria avvertiva seriamente. In quegli anni egli teneva desta l’attenzione alle trasformazioni demografiche, tematica di grande interesse per chi si occupava della realtà sociale nelle campagne.

Le prospettive degli emigrati nelle aree di partenza hanno anch’esse rappresentato un oggetto precipuo di interesse politico e scientifico per Rossi-Doria. Si era cominciato a notare in quegli anni come le condizioni per il reinserimento degli ex emigranti fossero poco vantaggiose e che in generale i risparmi accumulati e le rimesse avessero una destinazione scarsamente produttiva. Proprio al termine di questo grande processo di esodo rurale e agricolo e di emigrazione dal Sud presso il Centro di Portici è condotta una ricerca di vasto respiro sull’emigrazione, volta anche e soprattutto a comprendere gli effetti sul piano socio-economico, ma anche sul piano culturale, nelle zone di partenza. Nelle conclusioni gli autori scrivono “La reazione attraverso l’emigrazione all’immobilismo tradizionale ha rappresentato la definitiva rottura di un isolamento a cui invece sembrava fossero condannate alcune specifiche realtà del nostro sistema sociale. I flussi migratori, nel bene e nel male, hanno rappresentato un aspetto determinante del processo di profonda e irreversibile trasformazione della società, nelle sue componenti globali e nei veri e propri sub-sistemi, qual è, per es., il mondo contadino. L’emigrazione ha quindi generalizzato un certo meccanismo di ‘modernizzazione’ di mutamento socio-culturale in contraddizione con il passato e la tradizione, anche a motivo del frequente contatto con realtà diverse che la temporaneità o la stagionalità dell’emigrazione ha accentuato (…). L’imponente ondata delle migrazioni interne ha profondamente modificato le strutture lavorative e di insediamento delle metropoli del “triangolo industriale”[7]. La ricerca, voluta da Manlio Rossi-Doria, riguardava proprio le aree dell’Irpinia particolarmente interessate dal fenomeno e venne condotta in quindici comuni attraverso un grande numero di interviste rivolte ai protagonisti dell’esperienza migratoria, per altro suddivisi in base alla fase dell’esperienza[8]. Come mettono in evidenza gli autori della ricerca l’emigrazione all’estero è stata caratterizzata in questa fase appunto dal modello rotatorio, imposto soprattutto dal governo tedesco, che ha sempre scoraggiato, ovviamente solo con successo parziale, i trasferimenti definivi. Sennonché questo modello rotatorio, con continui ritorni e continue partenze, ha tenuto legati gli emigranti alle aree di provenienza.

Rispetto invece ai due grandi flussi dal Sud – di cui parliamo qui: quello verso l’Italia Settentrionale e quello verso l’estero ‒ notevoli sono state le differenze sia per quel che riguarda i protagonisti, sia per quel che riguarda l’esito dell’intrapresa migratoria. Nel primo caso più generale è stata l’area dei ceti sociali interessata alle partenze, più giovani sono stati in generale i protagonisti e tendenzialmente definitivi sono stati i trasferimenti. Nel caso dell’emigrazione verso l’estero ha prevalso invece un criterio di pendolarismo a lunga distanza con mancato trasferimento definitivo per la maggior parte dei protagonisti.

Comunque, con tutte le difficoltà, tutti i drammi e tutti i problemi connessi all’esperienza migratoria, va sottolineato un dato incontrovertibile: il fatto che si è trattato di una grande processo di affrancamento. E di questo parlerò nelle conclusioni.

 

  1. Rossi-Doria, Scotellaro e l’emigrazione meridionale: sofferenza e affrancamento

Nel bene e nel male per Rossi-Doria l’emigrazione rappresenta la rottura del mondo contadino tradizionale e il tramonto di qualunque idea di immobilità. Proprio nel commemorare Rocco Scotellaro, in occasione della ventennale della morte del suo amico, scrive: “Scotellaro ha contribuito più di ogni altro a rompere il mito della immobilità e della incapacità di progresso dei contadini, il suo dramma tuttavia è stato quello di constatare che il tempo necessario per la loro crescita civile, per la costruzione, nelle regioni dove si addensavano, di una realtà economica e sociale, non ci sarebbe stato … A partire dall’anno della sua morte si gonfia impetuoso il torrente della emigrazione meridionale che in vent’anni porterà in altre terre quattro milioni di meridionali”[9]. A questi cambiamenti concorre in maniera determinante l’emigrazione con tutte le sue implicazioni sociali e umane.

La complessità di questo processo è resa splendidamente da una poesia di Rocco Scotellaro che Rossi-Doria cita: “Ho perduto la schiavitù contadina / non mi farò più un bicchiere contento/ ho perduto la mia libertà”. Si tratta de L’America: nei versi iniziali c’è nostalgia: “Dov’è l’America, bella, lontana / del padre mio che aveva vent’anni”. Ma la parte più interessante per me, studioso dell’emigrazione, è quella dei versi prima citati: l’ossimoro relativo alla contemporanea perdita della schiavitù e della libertà. Evidentemente si tratta di forma e aspetti diversi della schiavitù e della libertà.

Ma torniamo al testo: “Ho perduto la schiavitù contadina / non mi farò più un bicchiere contento / ho perduto la mia libertà”2. Qual è il senso di questa apparente contraddizione? Emigrare è duro: chiunque ha avuto a che fare con gli emigranti italiani e con gli immigrati sa quante durezze comporta. Però, se questo è vero, è anche vero che l’elemento di riscatto e la coscienza del riscatto attraverso l’emigrazione sono altrettanto veri. Il rispetto – tematica che è diventata di grande attualità in questo periodo – è quello che in ultima analisi sono riusciti, almeno in parte, a ottenere i contadini meridionali che hanno vissuto l’esperienza dell’emigrazione.

E proprio con riferimento a questa forte sottolineatura dell’elemento di riscatto che si comprende l’orientamento di Rossi-Doria nei confronti dell’emigrazione meridionale. Un elemento di riscatto – senza considerare il miglioramento delle condizioni di vita ‒ nell’emigrazione è innegabile anche tenendo conto di tutte le difficoltà e delle condizioni affrontate.

Non sempre con l’emigrazione si registrano riscatto, condizioni di vita accettabili e mobilità sociale, anche se in ultima analisi in generale è stato così per quelli che sono andati in Francia, anche clandestinamente. Certo: tra quelli che imboccarono “il cammino della speranza” verso la Francia nell’immediato dopoguerra ci sono anche quelli che sono morti, o sono stati respinti alla frontiera o forzosamente arruolati nella Legione Straniera, come è stato illustrato ieri. Ma poi in maggioranza hanno progredito socialmente perché la Francia è ‒ anzi forse sarebbe corretto dire era ‒ anche un paese dove la mobilità sociale degli stranieri, italiani compresi, è stata forte. E, comunque, certamente più forte che in Germania e, comunque, certamente più forte che in Svizzera, dove pure in realtà le condizioni sono migliorate.

E comunque l’esperienza dell’emigrazione italiana del secolo scorso è sempre accompagnata dalla acquisizione un grande rispetto di sé. In riferimento a questo ambito di problemi – in questa valutazione del ruolo positivo dell’esperienza migratoria non solo sul piano materiale ‒ credo che l’influenza di Rossi-Doria sul mio punto di vista sia stata determinante.

 

  1. Conclusione

In conclusione vorrei ribadire ancora quello che ho capito della visione di Rossi-Doria su queste cose. Egli era caratterizzato da una grande curiosità sociale e soprattutto da un interesse forte per la storia. Lo studio storico, oltre che economico agrario, del Mezzogiorno gli aveva fatto comprendere i problema del carico demografico sulle regioni meridionali e il crescente squilibrio tra popolazioni e risorse con l’aumento dello squilibrio fino a livelli parossistici durante il fascismo, quando avvennero questi due contemporanei eventi: da una parte, la politica di disincentivo all’emigrazione ad opera del regime; dall’altra, il fatto che gli Stati Uniti, che sono stati il grande riferimento per i contadini potenziali emigranti del Sud, cessano di rappresentare una prospettiva possibile e a portata di mano. Prima ci sono le legislazioni restrittive, con il sistema delle quote, che ha una forte impronta razzista e che riduce significativamente le possibilità di ingresso per gli italiani e gli altri europei del Sud.

Il sistema delle quote si smantella progressivamente dopo la guerra. E in occasione del terremoto dell’Irpinia – non quello dell’80 ma quello degli inizi degli anni ‘60 – si allargano definitivamente le maglie per gli Italiani. Ma in quegli anni le destinazioni migratorie prevalenti sono già altre: all’estero in Europa, ma anche all’interno.

Per Rossi-Doria l’emigrazione va inquadrata all’interno degli interventi statali di sviluppo e tra questi vanno presi in considerazione in primo luogo gli interventi per l’agricoltura, vale a dire l’attività di bonifica ma anche i contratti agrari. Rispetto poi alle prospettive, il giudizio positivo sulla necessità e sugli stessi effetti benefici dell’emigrazione era sempre accompagnato – ne ho accennato – dalla chiarezza delle difficoltà, delle sofferenze e dei costi umani. Non si tratta per Rossi-Doria dell’“ottimismo della volontà e del pessimismo della ragione”, di cui si parla citando sempre Gramsci, bensì della lettura complessiva del processo. D’altra parte – ricordo – in alcuni momenti tendeva ad accentuare gli aspetti positivi e in altri gli aspetti negativi anche con forte preoccupazione. Questo valeva in generale e valeva anche per l’emigrazione.

Il primo elemento di critica e preoccupazione riguardava l’assenza di sostegno agli emigranti. Lo stato – ne ho accennato – se ne era in sostanza disinteressato. Rossi-Doria riconosceva il ruolo positivo delle organizzazioni ecclesiali e cattoliche, per le quali aveva grande rispetto. Ma soprattutto credeva all’associazionismo degli emigranti, alle associazioni regionali e alle loro iniziative, che benevolmente commentava con linguaggio immaginifico. E anche su questo aveva visto giusto.

Le preoccupazioni riguardavano ancora i rischi connessi allo spopolamento, ma anche e soprattutto la difficoltà nel mettere a profitto a livello locale tanto l’esperienza accumulata che le risorse materiali messe da parte con grandi sacrifici. Egli non aveva il mito dell’emigrante (anzi dell’ex-emigrante) innovatore. E ricordo l’ironia e il divertimento con il quale si commentava insieme qualche “scoperta” quale l’esistenza dell’emigrato di ritorno “conservatore”. L’emigrazione era importante per lui perché aveva rotto un ordine oppressivo e perché – per quel che riguarda l’emigrazione interna – aveva ancora ulteriormente unito il paese. Ma senza mitologia.

E quando egli si impegnò a sostegno delle zone colpite nelle settimane successive al terremoto dell’Irpinia mostrò di puntare molto il contributo che la solidarietà nazionale avrebbe potuto e dovuto dare per i soccorsi e la ricostruzione. E non mancava di fiducia nel contributo che gli emigranti, gli emigrati di ritorno, avrebbero potuto dare anch’essi.

[1]           Il brano è tratto dal capitolo nono di Scritti sul Mezzogiorno, I parte: “Considerazioni degli anni Sessanta”, Torino, Einaudi, 1982, p. 100, frutto della rielaborazione di vari scritti pubblicati a partire dalla metà degli anni Sessanta.

 

[2]           Il discorso, dal titolo I prossimi dieci anni in Lucania, fu pronunciato al teatro Stabile di Potenza l’8 ottobre 1947. Ora è in Riforma Agraria e Azione Meridionalista, Bologna, Edizioni Agricole, 1956].

 

[3]           Come è noto, la recensione, ripubblicata a suo nome in Note di economia e politica agraria, Roma, Edizioni italiane, 1949, era stata originariamente pubblicata su “Bonifica e colonizzazione”, novembre 1939, con il nome di un altro autore (Giovanni Volpi), non potendo egli, perseguitato antifascista, firmare alcun contributo. All’inchiesta Lorenzoni sulla formazione della piccola proprietà coltivatrice nel primo dopoguerra, con Sereni e sotto la direzione del prof. Alessandro Brizi, partecipò come borsista a Portici. La Campania fu studiata dunque da questi due giovani “estremisti” e Rossi-Doria nel periodo di lavoro per l’Inchiesta, era responsabile del lavoro di fabbrica nel Pci a Napoli, per cui fu arrestato e condannato poi dal Tribunale Speciale fascista.

 

[4]           Andreina De Clementi, Di qua e di là dall’Oceano. Emigrazione e mercati nel meridione (1860-1930), Roma, Carocci, 1999.

 

[5]           Andare, tornare, restare, a cura di Francesco Carchedi ed Enrico Pugliese, Isernia, Cosmo Iannone, 2006.

 

[6]           Lavoro in movimento. L’emigrazione italiana in Europa 1945-57, a cura di Michele Colucci, Roma, Donzelli, 2007.

 

[7]           Luciano Pieraccini, Gilberto A. Marselli, Luciano Matrone, Domenico Piccolo e Cosimo Vitale, Un’indagine diretta sull’emigrazione nelle zone interne del Mezzogiorno, in L’agricoltura nello sviluppo del Mezzogiorno, a cura di Michele De Benedictis, Bologna, Il Mulino, 1980, p. 303.

 

[8]           La ricerca rappresenta una delle documentazioni più dettagliate dell’effetto dell’emigrazione nelle zone di esodo. Oltre al saggio di Pieraccini, Marselli e altri, si veda anche Ricerca sull’emigrazione meridionale nelle zone di esodo, a cura di Gianfausto Rosoli, Roma, Formez, 1977.

 

[9]           Rocco Scotellaro venti anni dopo, “Nuova Antologia”, 2081 (1974).