Riccardo Bauer, l’emigrazione e il ruolo della Società Umanitaria negli anni della ricostruzione

Nel 1945 a Milano Riccardo Bauer insieme a numerose figure dell’antifascismo e della cultura democratica riorganizzò proprio alla fine della guerra la Società Umanitaria. Istituzione centrale nella vita sociale e politica non solo milanese ma nazionale e internazionale, l’Umanitaria si trovò immediatamente a fare i conti con le emergenze e le necessità della ricostruzione post-bellica. Disoccupazione, penuria alimentare, carenza delle infrastrutture, ritorno dei reduci, abbandono scolastico erano solo alcuni dei problemi gravissimi che lo scenario postbellico imponeva. Riccardo Bauer, uno dei protagonisti della Resistenza antifascista, scelse appositamente di dedicare tutte le  sue energie proprio alla riorganizzazione dell’Umanitaria, rifiutando gli incarichi istituzionali che i governo antifascisti iniziarono a proporgli. L’obiettivo fondativo della Società, “elevare la classe lavoratrice dal punto di vista tecnico, civile e morale”, venne così ribadito ma venne allo stesso tempo inserito nel nuovo contesto dell’Italia repubblicana. Le attività vennero strutturate secondo un doppio canale. Da un lato soddisfare i bisogni fondamentali della popolazione, assicurando quindi servizi quali mense popolari, assistenza medica, alfabetizzazione. Dall’altro lato puntare alla formazione e alla qualificazione professionale, a partire dal mercato del lavoro. Parallelamente, il nucleo dirigente dell’organizzazione si fece portatore di una miriade di iniziative di elaborazione, denuncia e dibattito organizzate in collaborazione con le istituzioni del nascente Stato repubblicano.

Il tema dell’emigrazione era stato fin dall’età liberale uno dei temi cardine delle attività della Società. Sia sul versante del sostegno alle organizzazioni del movimento operaio, sia dal punto di vista del sostegno sociale, sia guardando alle connessioni con i luoghi e i paesi di destinazione degli emigranti, la Società divenne rapidamente soprattutto in età giolittiana uno dei più importanti punti di riferimento nel mondo laico per quanto riguarda l’elaborazione politica e culturale e l’assistenza materiale per il mondo dell’emigrazione. Tale attivismo era stato di fatto bloccato dal regime fascista e solo alla fine della guerra fu possibile riprendere in mano le iniziative sociali legate all’emigrazione.

Nel 1945 e negli anni successivi la ripresa dell’emigrazione presenta caratteristiche diverse dal passato: un contesto politico ed economico strettamente legato alle conseguenze della guerra, un diverso rapporto tra l’Italia e i Paesi interessati all’emigrazione, una generale trasformazione delle destinazioni e del modo stesso di manifestarsi dell’emigrazione. In questo periodo il tema dell’emigrazione all’estero entra prepotentemente nell’ordine del giorno dell’agenda pubblica, discusso nelle aule parlamentari come negli uffici dei comuni, nei locali delle camere del lavoro come negli uffici di collocamento, nelle scuole e nelle fabbriche, nei consigli dei ministri e negli esecutivi sindacali, nei quotidiani e nei rotocalchi. Nonostante il miglioramento delle condizioni economiche dell’Italia già nei primi anni Cinquanta, l’emigrazione continuò a rappresentare una voce strutturale per l’economia italiana. Il contributo che ad esempio diedero le rimesse degli emigranti alla crescita fu significativo e destinato a crescere col passare del tempo: se nel solo 1960 i risparmi inviati in Italia ammontavano a 397,5 milioni di dollari, nel 1970 superavano la cifra simbolica di un miliardo: 1004,6 milioni di dollari.

Proprio tra il 1945 e il 1970 si realizza la nuova fase di intervento dell’Umanitaria verso l’emigrazione, coordinata da Riccardo Bauer. Nella sua azione si fa portatore di una visione dell’emigrazione in cui alla lettura economica del fenomeno si affiancarono le sue posizioni pacifiste e cosmopolite. Dal punto di vista concreto tale azione si risolse nella denuncia dello sfruttamento dell’emigrazione (sia in Italia che all’estero) e nel tentativo di costruire una efficace tutela politica, sociale e professionale degli emigranti.

 

L’assistenza agli emigranti si svolge per improvvisazione piuttosto che secondo un meditato piano d’azione, con la conseguenza che l’assistenza agli emigranti e il collocamento loro non avviene secondo criteri univoci ma con larga dispersione di forze. Occorre invece che l’arruolamento dei lavoratori per l’estero avvenga con metodo, con assoluta garanzia di onestà, cessi cioè l’Italia di essere pingue campo d’affari per negrieri d’ogni risma, e non privi infine la nazione di una mano d’opera che pur è necessaria alla sua ricostruzione economica. Così come è percorso in ogni senso da commissioni e da privati che operano sotto vesti diverse e con scopi troppo spesso speculativi, nel nostro paese l’ingaggio di mano d’opera è sottoposto ad una vera pioggia di notizie false e tendenziose[1].

 

Una delle prime iniziative della nuova fase fu l’apertura di un giornale quindicinale, chiamato “Bollettino quindicinale per l’emigrazione”, che serviva allo stesso tempo come strumento di servizio e come luogo di elaborazione culturale e politica. Nato nel 1947, il giornale si distinse subito per la pluralità degli approcci e la completezza delle informazioni, mentre l’Umanitaria fu un punto di riferimento fondamentale per la formazione e l’assistenza di migliaia di migranti, soprattutto quelli diretti verso i paesi europei e in transito da Milano e da altre zone dell’Italia settentrionale.

La città di Milano fu negli anni del secondo dopoguerra un crocevia straordinario di movimenti migratori differenti. Già alla fine degli anni quaranta e in modo crescente negli anni cinquanta e sessanta fu innanzitutto meta di un gigantesco flusso di immigrazione proveniente dalle zone rurali della Lombardia e del Veneto e dalle regioni del Mezzogiorno. Nel frattempo, diventò luogo di transito per tutti coloro che – provenienti soprattutto dal Sud – si muovevano per raggiungere il confine e recarsi in Svizzera, Belgio e Francia. Il Ministero del lavoro aprì già nel 1946 un Centro di assistenza attivo sia nei sotterranei della stazione Centrale sia a piazza S. Ambrogio, la cui organizzazione venne criticata anche dal “Bollettino quindicinale” dell’Umanitaria.

 

Vi si respira l’atmosfera del rifugio antiaereo, della brutta caserma, o quella ancora dell’abitazione collettiva di infimo ordine, non vi si prova l’accogliente senso di conforto di cui l’emigrante ha pur bisogno come del pane. Le file di doppi letti – che costituiscono la sola ed unica attrezzatura del centro – susseguentisi vicinissimi l’uno all’altro, i sacconi, non propriamente pieni, di paglia umida, l’aria pesante[2].

 

Successivamente sempre le pagine del “Bollettino” criticarono l’eccessiva presenza delle forze di polizia nel Centro del Ministero del lavoro.

 

Troppi, poi, sono i funzionari di polizia intorno agli emigranti nel centro di raccolta; pochi, al contrario, gli assistenti a vegliare su quegli uomini, quelle donne, quei bambini dal cuore gonfio di speranze, ma anche di già penose nostalgie[3].

 

L’Umanitaria sostenne attraverso le sue strutture assistenziali il passaggio degli emigranti e iniziò a lavorare per fornire loro informazioni, strumenti legali, elementi di qualificazione professionale indispensabili per affrontare il percorso migratorio. Questa attività è ben rappresentata nel “Bollettino”. La pubblicazione era orientata su tre differenti direzioni: diffondere notizie di servizio agli emigranti (dal costo dei viaggi alle condizioni di ingaggio, dalle abitudini culturali dei paesi di destinazione alle importantissime informazioni burocratiche e amministrative), realizzare inchieste sulle condizioni di vita e di lavoro delle comunità all’estero, promuovere il dibattito politico e scientifico sui temi legati all’emigrazione. Per capire l’importanza di questi contributi è sufficiente ricordare che molti temi all’ordine del giorno dell’iniziativa sociale e politica legata all’emigrazione vennero di fatto teorizzati e messi in pratica per la prima volta dall’Umanitaria: basti pensare alla questione della formazione professionale degli emigranti. Come ha affermato Claudio A. Colombo il giornale:

 

È in grado di seguire tempestivamente i fatti interessanti della sua particolare sfera di competenza, grazie ad una rete informativa estesa in tutta Europa. Accanto ad un certo numero di corrispondenti fissi (da Roma, dall’Argentina, dal Belgio, dal Brasile, dalla Cecoslovacchia, dalla Francia e dalla Svizzera), la rivista si avvale di collaborazioni saltuarie fornite da persone che occasionalmente si recavano all’estero e da una vasta selezione di stampa straniera specializzata nei problemi del lavoro degli emigranti. In questo modo il “Bollettino” ha saputo esercitare un costante controllo delle informazioni che circolavano in Italia a proposito delle possibilità e delle condizioni di lavoro in paesi stranieri. E nel contempo, un’efficace corrispondenza con i lettori su quesiti e casi personali ha permesso agli interessati di risolvere i propri casi, o almeno di ottenere proficui consigli[4].

 

Il profilo pragmatico che Bauer diede alle attività dell’Umanitaria rappresenta indubbiamente un elemento distintivo della sua impostazione nel contesto generale dell’approccio all’emigrazione da parte delle culture laiche legate al movimento operario. L’importanza, ad esempio, dell’alfabetizzazione degli emigranti è resa esplicita dalla storia raccontata in un articolo del “Bollettino”, raccolta proprio nei locali del Centro ministeriale di Milano:

 

In un angolo dell’ufficio biglietti se ne sta timido e rassegnato nella sua tristezza Meraglia Umberto, di anni 27, da Ugento (Lecce), il quale, interrogato, ci spiega di essere un buon lavoratore, di aver sostenuto i più pesanti lavori agricoli e stradali; dopo essere risultato idoneo alla visita di Lecce e quindi anche a quella del centro di Milano, si è visto scartare perché analfabeta. Il Meraglia, che si trova disoccupato e con tre fratelli di minore età a carico, in una famiglia estremamente povera, è scoraggiatissimo. Egli pensa con grande rammarico e con non poca apprensione al debito di 10 000 lire che ha dovuto contrarre per comprarsi qualche indumento decente e fare qualche altra spesuccia onde poter affrontare il viaggio. Nessuno si è preso il disturbo presso gli uffici di Lecce di avvertire il povero Meraglia che il suo analfabetismo l’avrebbe esposto a essere scartato a Milano?[5]

 

Negli anni della ricostruzione possiamo notare un notevole distacco tra la ricchezza del dibattito politico sul tema dell’emigrazione e la difficoltà per le organizzazioni sociali nell’allestire un intervento concreto: quella dell’Umanitaria è una evidente eccezione. Le sinistre condividevano con l’intera classe dirigente il timore che la disoccupazione di massa potesse spostare verso destra gli equilibri sociali e politici usciti dalla fase costituente e di fatto ebbero molti problemi a intervenire sul tema dell’emigrazione. Promuovere le partenze verso l’estero serviva sia ai governi di unità antifascista sia in seguito ai governi centristi a limitare il dilagare della disoccupazione. Questa veniva percepita come un pericolo da temere in ogni modo e, per quanto possibile, da scongiurare. Pesava naturalmente la memoria del primo dopoguerra, della crisi economica, delle difficoltà della classe dirigente e dei conflitti sociali che avevano avuto come esito l’avvento del regime fascista. Ecco quindi che la parola d’ordine della massima occupazione, della centralità del diritto al lavoro, della necessità di combattere su più fronti la disoccupazione balzarono (fin dagli articoli fondamentali della carta costituzionale) in testa alle preoccupazioni dei governi post-bellici.

La spinta all’emigrazione si colloca quindi in questo contesto come una necessità immediata e irrinunciabile, che ogni gruppo politico riempì di contenuti propri, a seconda delle varie strategie immaginate per la ricostruzione. Ecco quindi che per i democristiani rilanciare l’emigrazione significava di fatto allentare il conflitto sociale, allontanando masse pericolose e turbolente. Per le sinistre invece si trattava di un “male necessario”, da accettare come strumento congiunturale. Ma le differenti letture politiche avevano anche importanti risvolti a livello internazionale. De Gasperi parlava dell’emigrazione come di nuova colonizzazione, come occasione per internazionalizzare l’economia italiana, come strumento per sedersi nuovamente nei tavoli delle sedi internazionali che andavano pianificando la ricostruzione europea, facendo valere quella che probabilmente era l’unica risorsa italiana: la manodopera. Le sinistre invece vedevano nell’emigrazione una occasione internazionalista, che poteva costruire relazioni più salde con i movimenti operai degli altri paesi, soprattutto nella fase in cui le sinistre partecipavano al governo, non solo in Italia: l’accordo per l’emigrazione tra Italia e Francia del marzo 1947, firmato dal ministro del lavoro francese comunista Ambroise Croizat, venne salutato dall’“Unità” con toni celebrativi.

In realtà gli entusiasmi per l’emigrazione durarono poco. Lo scenario reale che i lavoratori migranti si trovavano a vivere era ben diverso da quello che era stato loro promesso. I margini di manovra per il governo italiano si fecero immediatamente scarsissimi e fu chiaro già nel triennio 1946-1948 che nelle trattative internazionali il coltello dalla parte del manico non lo aveva certo l’Italia, che se voleva risolvere fuori dai propri confini il problema della disoccupazione interna doveva accettare senza troppi mugugni le condizioni poste dagli stati stranieri. A questo punto la politica migratoria di tipo nuovo pianificata fin dagli anni di guerra aveva ben pochi spazi per essere messa in pratica. Perché se le varie forze politiche, pur nelle loro diversità, avevano condiviso nel periodo costituente il rilancio dell’emigrazione, altrettanto condiviso era stato l’appello a non ripetere gli errori del passato e a lavorare per fare in modo che lo stato si assumesse delle responsabilità durature e impegnative nell’assistenza ai percorsi migratori. La “discontinuità” con il laissez-faire del passato fu evidente soltanto dentro i confini nazionali, dove per effetto dell’organizzazione locale del Ministero del lavoro le procedure di reclutamento, selezione e avviamento vennero quantomeno razionalizzate. Ma all’estero il controllo di ciò che accadeva ai lavoratori in fatto di alloggio, condizioni di lavoro e accoglienza si allentava notevolmente, complice anche la diffidenza delle strutture consolari a prendere in carico i problemi dei lavoratori espatriati. Un tema decisivo nella storia delle politiche migratorie italiane post-belliche è infatti quello della frammentazione delle competenze pubbliche, di fatto divise tra la Presidenza del consiglio dei ministri, il Ministero del lavoro (per ciò che comportava l’attività in Italia) e il Ministero degli esteri (per ciò che comportava le iniziative da prendere fuori dai confini).

Sul lungo periodo la politica migratoria italiana si risolse nel tentativo di fare partire più persone possibile utilizzando tutte le occasioni che si ponevano a livello internazionale. Le opposizioni di sinistra attaccarono questa scelta, senza però elaborare parallelamente una propria lettura e un proprio intervento che non si limitasse a denunciare le storture di un tale meccanismo. Soltanto con le migrazioni interne del miracolo economico possiamo individuare nelle sinistre una nuova sensibilità rispetto ai fenomeni migratori. Ma siamo già alla fine degli anni cinquanta e anche il contesto politico è in movimento, con l’avvento del centrosinistra. Sul fronte governativo l’unico risultato che i ministri degli esteri, i ministri del lavoro e i presidenti del consiglio potevano rivendicare era quello quantitativo, come puntualmente fecero, un risultato comunque al di sotto delle aspettative post-belliche e viziato da incidenti sul lavoro, truffe, violazioni continue degli accordi.

In questo contesto l’azione dell’Umanitaria spiccò perché pur mantenendo inalterata la funzione di pungolo e di critica verso le istituzioni si orientò verso un sostegno concreto alle persone che partivano. Secondo Bauer l’emigrazione rappresentava una realtà in qualche modo inevitabile, come sostenne al Primo Congresso nazionale per l’emigrazione:

 

È inutile ripetere ciò che tutti sanno e cioè che soltanto una razionale distribuzione del lavoro italiano nell’interno del paese e all’estero potrà realmente contribuire allo stabilirsi di un fecondo equilibrio economico nazionale[6].

 

 

L’emigrazione doveva essere però inserita in un percorso di tutela sul quale le istituzioni erano del tutto latitanti. Non mancarono prese di posizione forti dello stesso Bauer, che ad esempio nel 1955 contestò l’allontanamento voluto da parte del Ministero degli Esteri di Egidio Reale, ambasciatore in Svizzera, uno dei pochi ambasciatori di orientamento dichiaratamente antifascista nei primi anni della ricostruzione. Nel giudizio di Bauer l’operato di Reale rispetto ai problemi migratori costituiva una felice anomalia nel panorama della diplomazia italiana e questa anomalia aveva cause ben precise: le radici antifasciste di Reale e il suo reclutamento non convenzionale ai vertici della diplomazia voluto nel 1946 da Nenni, quando il leader socialista era a capo del dicastero degli Esteri. Con queste parole Bauer salutò nel 1955 la partenza di Reale dalla Svizzera:

 

La gran macchina di Palazzo Chigi, intenta a ristabilire la “sana” tradizione diplomatica secondo quel principio di continuità sotto il quale si drappeggiano le sapienti rivendicazioni dei nostalgici della “potenza”, di quella “imperiale potenza” che tanti allori ci ha procurati intruppandoci nella odiosa schiera degli aggressori, è riuscita a liquidare anche questo ambasciatore non legato alla carriera, ma designato al suo posto da una lunga dignitosa prova di vita e di cultura libere. […] Lo sanno i lavoratori italiani in Svizzera che cosa abbia saputo essere il loro ambasciatore, riuscendo anzitutto ad imprimere agli uffici consolari un ritmo ed un tono consentanei alle loro concrete esigenze[7].

 

In conclusione, è necessario richiamare la dimensione visionaria e anticipatoria del lavoro di Bauer. Concentrato prevalentemente sull’emigrazione verso l’estero, il suo approccio – pragmatico e allo stesso tempo capace di elaborare una interpretazione dei movimenti di popolazione – rappresenta un modello di intervento molto utile per capire anche i percorsi di elaborazione politica e impegno sociale che già nel corso degli anni sessanta-settanta prenderanno corpo di fronte ad altre esperienze migratorie, quali le migrazioni interne e l’immigrazione straniera.

[1]           Claudio A. Colombo, Alla testa dell’Umanitaria, in Il coraggio di cambiare. L’esempio di Riccardo Bauer, a cura di Arturo Colombo, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 94-97.

 

[2]           Il centro di Milano, “Bollettino quindicinale dell’emigrazione”, 2, 1947, p. 27.

 

[3]           L’emigrazione in Francia, “Bollettino quindicinale dell’emigrazione”, 25 settembre 1948, p. 45.

 

[4]           C. A. Colombo, Alla testa dell’Umanitaria, cit., p. 95.

 

[5]           Emigranti respinti, “Bollettino quindicinale dell’emigrazione”, 25 settembre 1949, pp. 333-336.

 

[6]           Camera di commercio industria e agricoltura di Bologna, Congresso nazionale per l’emigrazione, 18, 19, 20 marzo 1949, Atti ufficiali, Anonima arti grafiche, Bologna 1949.

 

[7]           R. B., Egidio Reale, in “Bollettino quindicinale dell’emigrazione”, 10 marzo 1955, p. 65.