Note sulla federazione mondiale della stampa italiana all’estero dai prodromi al congresso costituente.

1. Premessa

 

Nel presentare i risultati dell’indagine conoscitiva sui “media della diaspora” condotta nel 1994 dall’Associazione delle camere di commercio all’estero in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri, il curatore, Niccolò D’Aquino, segnalava la persistente vitalità della carta stampata, inattesa e addirittura sorprendente in un’età in cui essa, oltre al maturo settore radiotelevisivo, doveva fronteggiare il fenomeno Internet e la conseguente ulteriore trasformazione dei sistemi di comunicazione1.
L’iniziativa del censimento proveniva da un ambito chiaramente “interessato’, cioè intenzionato a capire se e in che misura stampa, radio e televisione all’estero svolgessero ancora una funzione di tramite per raggiungere il mercato degli italiani nel mondo e se quindi esistesse un potenziale commerciale da sfruttare nella pubblicità “etnica’. Riguardo al mezzo più tradizionale D’Aquino si mostrava di questa opinione, notando, con lo sguardo presumibilmente rivolto alla committenza, che a fronte dell’esistenza di due soli quotidiani, “America Oggi” negli Stati Uniti, forte di una tiratura di 60-70.000 copie e il “piccolo ma combattivo “La voce del popolo di Fiume’” con 4.000 copie, in 32 paesi uscivano 213 tra giornali e riviste, per un totale di circa cento milioni di copie annue2.
Benché il monitoraggio avesse escluso dal computo bollettini di associazioni e fogli minori con pochi lettori, le cifre erano incoraggianti e facevano ritenere che lo stato di salute degli organi di informazione delle collettività italiane fosse nel complesso buono. Non solo: a un attento esame, erano da rivedere e sfumare anche certi giudizi negativi che associavano tali pubblicazioni ad un’immagine falsa di periodici antiquati, ripiegati su una formula immutabile, con al centro la descrizione provinciale del microcosmo della “colonia” o che alla cronaca autoreferenziale abbinavano al massimo la rievocazione nostalgica della patria lontana. Diversamente, quotidiani e riviste erano spesso prodotti giornalistici di buona fattura, che davano spazio in maniera equilibrata alle vicende politiche dei paesi di insediamento e seguivano da vicino gli accadimenti italiani.
A leggere tra le righe del commento di D’Aquino, la fotografia appariva però parziale e lontana da una realtà della stampa all’estero in cui non mancavano in verità le note allarmanti: testate che sopravvivevano grazie all’impegno e all’entusiasmo di direttori factotum, con redazioni di una o due persone integrate dal lavoro gratuito di saltuari collaboratori; budget insufficienti o precari; tirature in molti casi ridottissime e inferiori alle mille copie. Del resto, come con amarezza aveva constatato dieci anni innanzi, nel 1985, Elio Pasian, parlando del suo settimanale − l’“Eco d’Italia” di Buenos Aires − si aveva un bel lamentare dall’Italia i limiti organizzativi di questi fogli e gli standard dilettanteschi di chi ci scriveva. Non si teneva conto del fatto che i redattori dovevano senza mezzi gestire di persona e per intero la stesura e la composizione degli articoli ed erano spinti dai tempi stretti a sforbiciare e attingere in modo parassitario dai comunicati delle agenzie, senza margini per l’acquisizione autonoma e il controllo delle notizie locali e italiane. Le sedi dei giornali, poi, rimanevano veri e propri luoghi di incontro e socializzazione della comunità; e i direttori, interpellati e chiamati in causa dai lettori e dalle associazioni per i più svariati motivi, erano perciò costretti di continuo a interrompere la scrittura dei pezzi3.
Non era con ogni probabilità diverso nella sostanza il quadro che gli operatori del settore avevano in mente quando nel 1971 si riunirono a Roma per celebrare la fondazione della Federazione mondiale della stampa italiana all’estero (Fmsie)4, l’organismo concepito per dare voce in patria a quotidiani e periodici dell’emigrazione; ovvero, più prosaicamente, nato per salvarli dall’estinzione portando avanti la richiesta di un duplice, tangibile riconoscimento da parte delle istituzioni: economico (i finanziamenti diretti, la raccolta di pubblicità e gli abbonamenti) e, per così dire, corporativo-professionale (la riforma dell’Ordine e l’inclusione nell’albo dei giornalisti della carta stampata etnica). Al principio degli anni settanta erano ormai nette la percezione e la consapevolezza che si fosse prossimi al punto di non ritorno, e che soltanto interventi dall’”esterno” avrebbero arrestato o quantomeno arginato l’ineludibile decadenza delle testate italiane nel mondo, condannate a morte lenta dal progressivo venir meno delle esigenze che nell’epoca d’oro, a inizio secolo, avevano reso alcuni dei giornali delle “colonie” quotidiani di prima grandezza, per diffusione e qualità, nei paesi di insediamento5. Il cambiamento di mentalità e l’inserimento nelle società ospiti degli emigrati; l’assenza di prospettive di ritorno e l’invecchiamento, dovuto all’esaurirsi delle partenze, anche delle collettività raggiunte dai flussi postbellici, e specie di quelle extraeuropee, rendevano infatti residuale la funzione di questa stampa e impossibile l’autofinanziamento.

 

2. Prodromi: la Federazione della stampa italiana all’estero

 

Il processo era in atto da tempo e da almeno un quindicennio si percorreva la strada del coordinamento attraverso un soggetto unitario nella convinzione di poterlo bloccare. Alla costituzione della Fmsie si giunse dopo un lungo e travagliato percorso: i tentativi iniziali datavano dalla seconda metà degli anni cinquanta, quando fu fondata, su iniziativa di Giuseppe Caron6, senatore trevigiano della Democrazia cristiana, il quale ne divenne il presidente, la Federazione della stampa italiana all’estero (Fsie), che tenne l’assemblea costitutiva a Roma nel settembre del 1956. Promotori furono, lo ricorderà lo stesso Caron nel 1958, i direttori di undici fogli, anche se nell’occasione erano presenti solo in nove e precisamente: padre Domenico Valente, per la “Voce degli italiani” di Londra e la “Voce del Popolo” di Detroit; Gino Umberto Stefani, per il “Sole d’Italia” di Bruxelles; padre Giovanni Triacca per l’“Eco di Marsiglia”; Emanuele Cassuto per “La voce d’Italia” di Parigi e per il “Corriere canadese” di Toronto; Athos Catraro per “Cronaca” di Alessandria d’Egitto; don Pietro Tagliaferri per “La voce d’Italia” dell’Aja; Ernesto Biagi per “Ordine Nuovo” di Philadelphia; padre Anastasio Paoletti per “La Fiamma” di Sidney; Elia Finzi per “Il corriere di Tunisi”7.
Su 300 pubblicazioni di cui, esagerando8, si affermava l’esistenza, le adesioni dichiarate erano 65, quelle in via di definizione 55: una rappresentatività alta, che aveva suggerito di prendere subito contatto con i ministeri degli Affari Esteri e del Lavoro. Era stato già stilato, invece, l’accordo con l’Agenzia giornalistica Italia per l’invio ai giornali di un notiziario.
Considerato che se le agenzie di stampa giocano un ruolo non imparziale di filtro − e anzi, come sottolineò Vittorio Gorresio nel 1958, al convegno promosso dagli Amici del “Mondo” per discutere delle questioni relative alla libertà dell’informazione in Italia, si tratta di “uno degli strumenti coi quali meglio si manovra la stampa”9 −, chiamate come sono a fornire alle testate “la materia prima da lavorare”10, a maggior ragione ciò vale per i giornali all’estero, non stupisce che il titolare dell’agenzia “di riferimento” fosse un elemento fin dall’esordio non certo di secondo piano nella Federazione, quell’Umberto Ortolani11 che ne diverrà il presidente a partire dal 1971, quando essa, si vedrà, fu rifondata. Legato alla Dc e futuro braccio destro di Licio Gelli nella P2 della scalata al “Corriere della sera”12, il finanziere era a fianco di Caron sia nel direttivo (dove era vicepresidente) che nell’esecutivo, di cui faceva parte anche un altro democristiano che figurerà negli elenchi della loggia segreta, il giornalista e futuro direttore del Gr-2 e del “Gazzettino” di Venezia Gustavo Selva13.
È un gruppo, questo della dirigenza, su cui conviene soffermarsi per evidenziarne innanzitutto l’estraneità e la distanza − non solo geografica, dovuta alla collocazione romana della Fsie −, dagli ambienti dell’emigrazione, cui si rivolgeva ma dei quali aveva al massimo una conoscenza dall’esterno, per quanto lo stesso Caron tenesse a ricordare i suoi numerosi soggiorni all’estero e i contatti avuti con le comunità italiane. Alla testa della Federazione non ci sono i direttori di quotidiani e riviste ma uomini politici della Dc e personaggi come appunto l’avvocato Ortolani, coinvolto in prima persona e in affari nell’editoria in qualità di proprietario di un’agenzia di stampa.
Se un organigramma siffatto abbia costituito un’ipoteca forte e un fattore che incise sulle modalità di conduzione della Fsie, non necessariamente riducendone l’efficacia e la capacità d’intervento (tuttavia, anticipando i tempi, si può osservare che solo alla metà degli anni settanta la rinata Federazione mondiale della stampa italiana all’estero, peraltro guidata pressoché dalle stesse persone, otterrà l’atteso finanziamento dei periodici dell’emigrazione), ma forse orientandone e deviandone in parte gli scopi dalla salvaguardia della stampa etnica a fini altri, è ipotesi che sembra suggestivo vagliare, alla luce della natura di un’operazione in cui già al suo sorgere non era difficile intravedere il rischio di contaminazioni e sconfinamenti tra gli ambiti culturale, economico e politico.
Al di là del marchio democristiano nei profili del presidente e dei principali collaboratori, non sussistevano dubbi sulla matrice dell’iniziativa, rivelata dalla trasparente “qualifica” religiosa dei direttori di molti dei periodici fondatori e deducibile dal dettaglio di testate che quasi tutte erano espressione o emanazione più o meno diretta del circuito cattolico14, dalla londinese “Voce degli italiani”, allora dei paolini (al pari della “Voce del Popolo” di Detroit: padre Valente rappresentò infatti entrambe al congresso) e dal ’62 degli scalabriniani; alla “Voce d’Italia”, organo della missione cattolica in Olanda; dal settimanale delle Acli in Belgio, il “Sole d’Italia”, a quello dei cappuccini a Sidney, “La fiamma”15. La circostanza dell’imprimatur vaticano, sancito dall’udienza concessa da Pio XII ai convenuti a Roma in occasione del terzo appuntamento congressuale, ne fu la riprova, oltre che servire a conferma della presenza attiva della Chiesa nel campo dell’emigrazione e, in particolare, dell’attenzione con la quale ancora nel secondo dopoguerra le gerarchie ecclesiastiche si occupavano dei giornali, cui tradizionalmente e pour cause era stata attribuita importanza centrale per l’assistenza spirituale alle comunità italiane16.
Ciò nonostante, lo statuto della Federazione non tradiva la volontà programmatica di creare una “riserva” cattolica e anche chi analizzasse la relazione di Caron, chiamato nel 1958 a stendere, in veste di presidente uscente, un bilancio dopo un biennio di esercizio, faticherebbe a trovare riferimenti espliciti in tal senso e prese di posizione conseguenti. È anzi abbastanza arduo rintracciare indicazioni meno che vaghe di una linea editoriale che trasfonda l’appartenenza dei periodici fondatori in direttive precise per gli aderenti, per quanto non manchino indizi sulla visione di fondo che aveva ispirato l’azione dei primi anni.
Nell’opuscolo dato alle stampe dopo il III Congresso nazionale, nel 1959, gli intenti della Federazione erano ricondotti, in modo piuttosto generico, all’esigenza di coprire un vuoto, per mezzo di un “organo che si interessasse specificamente ed in modo coordinato della stampa in lingua italiana all’estero”17. Si precisava che l’associazione nasceva “libera da ogni vincolo politico ed ufficiale” e che avrebbe guidato le testate nella “difesa del buon nome e del prestigio dell’Italia all’Estero, vivificando il legame ideale degli emigrati con l’Italia”. Tra gli obiettivi erano enumerati sia l’auspicato potenziamento della rete degli organi di stampa, che facendosi mediatori nei rapporti coi paesi ospiti erano lo strumento migliore per proteggere i lavoratori all’estero e sostenerne le vertenze; sia la tutela dell’indipendenza dei giornali, indispensabile per evitare il loro coinvolgimento in una “politica di parte”. Concetto quest’ultimo che il senatore trevigiano chiariva richiamando i precedenti assetti della carta stampata italiana nel mondo e osservando che la solida “struttura giornalistica”18 messa in piedi dal fascismo, pur pensata per rispondere ad una vocazione “ipernazionalistica e imperialistica”, non era priva di lati positivi: se le limitazioni che aveva imposto alla libertà delle singole pubblicazioni non era pensabile si potessero riprodurre in democrazia, era indubbio che essa aveva assicurato più visibilità all’Italia e aumentato forza e influenza di quotidiani e riviste, con ricadute benefiche anche per gli emigrati.
In sostanza, nel solco della classica visione nazionalista che il regime mussoliniano era riuscito ad affermare in profondità, l’“italianità” doveva far aggio su opinioni e diversità politiche, in nome di un’immagine del paese che l’informazione “tendenziosa” minacciava di guastare. Secondo Caron infatti troppi periodici, soprattutto settimanali, erano contraddistinti dalla non meglio specificata “tara di una visione sfuocata della realtà in senso politico, umano, civile ed economico del nostro Paese”. La Fsie avrebbe sanato la “grave lacuna” indotta da questa distorsione, presumibilmente passando al vaglio le notizie da pubblicare, se non esercitando una vera e propria censura su di esse. A margine erano segnalati con preoccupazione i difetti strutturali su cui era opportuno intervenire: l’allora vicesegretario all’Aviazione civile sottolineò, in particolare, che la penuria di mezzi in cui si dibatteva la maggior parte dei giornali dipendeva dal loro numero eccessivo (egli stavolta arrivava a rilevarne 1000, con tutta evidenza includendo i fogli occasionali e di sicuro con una stima per eccesso più che altro simbolica e priva comunque di riscontri), non rispondente ad esigenze di pluralismo e dovuto invece ai limiti di sempre delle comunità italiane, la litigiosità e la tendenza a dividersi in gruppuscoli in perenne conflitto.
Pur non mancando però i cenni ai compiti che la Federazione avrebbe dovuto assumersi in futuro, in primis nella raccolta di pubblicità, per ovviare a tale scarsità di risorse, nel riferire sui risultati raggiunti, in specie dopo la nomina nel 1957 di Gustavo Selva alla direzione della sede a Roma, l’accento era posto su quanto era stato realizzato nei servizi informativi e quindi sull’invio di corrispondenze, di materiale fotografico e, soprattutto, delle “Lettere al Direttore in cui si faceva il punto sulla situazione politica, sociale ed economica del Paese”.
Da questo momento dell’associazione si perdono completamente le tracce. O meglio, essa passa “al sonno profondo e alla rapida agonia”19, stando almeno alla denuncia di un addetto ai lavori, Gaetano Benozzo20, titolare di un’“organizzazione giornalistica internazionale”, Stampa Italiana nel Mondo (Sim), che nel 1961 si era aggiunta alle varie agenzie specializzate che lavoravano per i periodici dell’emigrazione. Un sintomo delle difficoltà in cui versava la Fsie era stato la modifica di una norma nello statuto, nel 1958: nella versione aggiornata si stabiliva di celebrare l’assemblea generale non più annualmente ma ogni due anni. In seguito, gli impegni politici che tenevano il presidente per lunghi periodi lontano dall’Italia e il deficit impossibile da ripianare avevano costretto a licenziare i dipendenti a Roma e a chiudere la sede, azzerando di fatto l’attività.
3. Interludio: verso la costituzione della Federazione mondiale della stampa italiana all’estero

 

Anche da altri segnali si era percepito che non tutti erano soddisfatti della gestione Caron. Nel 1962 era comparsa a sorpresa a New York una federazione concorrente, l’Anasi (Associazione Nord Americana della Stampa Italiana), la quale ebbe però a propria volta vita travagliata e scarso impatto, al punto che l’anno seguente l’ennesimo foglio costretto a chiudere i battenti, l’“Italia”, storico settimanale di Chicago (usciva dal 1886)21, nell’editoriale di commiato accusava la neonata associazione americana di “omissione di soccorso’, constatando con amarezza che niente era stato fatto per salvare la testata, lì come a Roma. Il caso dell’“Italia” non era isolato. C’è una coincidenza cronologica tra le iniziative per collegare la stampa italiana nel mondo e una situazione che a cavallo tra la fine degli anni cinquanta e la prima metà degli anni sessanta è già di pesante crisi, con giornali senza più lettori costretti a sospendere le pubblicazioni uno dopo l’altro, sicché in appena un quinquennio il loro numero scende da 175 a 11722.
Nonostante varie esperienze negative − un vero pullulare di organizzazioni che si sarebbero rivelate scatole vuote, dalla Federazione dei giornali italiani in Europa (Federeuropa), sorta nel 1965, alla Confederazione internazionale per la stampa italiana all’estero (Cisie); dalla Stampa italiana Nord America (Sina), alla Federazione della stampa italiana in America Latina (Fsial)23 −, era palese che le mutate caratteristiche di pubblici fisiologicamente sempre più assottigliati per mancanza di ricambio e comunque sempre meno assimilabili alle collettività “organiche” del passato (che se tali non erano mai state, così si erano dipinte e riconosciute, anche attraverso i giornali), non lasciavano alternative alla ricerca di fondi in Italia, presso enti statali e governo e, dal momento che l’operazione non poteva riuscire alle singole testate, l’unione delle forze era la via obbligata. Per Benozzo, il già citato fondatore della Sim, la lezione da trarre dopo i ripetuti fallimenti era di metodo: era stata l’impostazione “romana e politicizzata” della Fsie a minarne alla base la strategia, facendo prevalere logiche di partito che nulla avevano da spartire con il “patriottismo di Patria”24; e rendendone lontana dalle esigenze reali l’azione e ben poco “ecumenica” la rappresentatività.
Emblematico, più che paradossale, era che egli reclamasse indipendenza e autonomia da Roma e lamentasse che i vincoli politici avessero soppiantato gli interessi della nazione nel mentre faceva coincidere tali interessi con la “salvezza dal comunismo”. E che la collocazione della Sim non fosse propriamente super partes si poteva dedurre dal convinto apprezzamento del suo schierarsi che venne da un sacerdote, direttore di un settimanale d’oltreoceano, il quale notificò:

 

pur continuando a servirmi di notizie di altre Agenzie, la maggior parte e le più significative le riprendo pari pari dalla Sim che io trovo ben fatta e perfettamente intonata con l’indirizzo politico del mio giornale, che è cattolico e anticomunista. Effettivamente, devo riconoscere che senza il vostro provvidenziale bollettino molto probabilmente ben pochi di noi sarebbero venuti a conoscenza dell’attuale stato di cose in Italia. Tutte le altre Agenzie, infatti, non fanno che lodare i governanti di turno e assicurare che tutto va bene […]25.

 

Perentorio attestato di merito che Benozzo non poteva che sottoscrivere, candidandosi senz’altro a fornire un “aiuto informativo” così sanamente connotato ai giornali. Tuttavia, se una concezione siffatta dei servizi che le testate dovevano rendere a chi viveva fuori dai confini era accolta con favore e recepita all’estero e non trovava ostacoli nel penetrare tra le maglie della rete capillare di periodici che facevano capo, attraverso missioni e ordini religiosi − è noto che le istituzioni cattoliche erano allora e restano a tutt’oggi il principale editore nel settore26 −, all’articolato apparato di una Chiesa cattolica in sintonia con proposizioni del genere, nell’ottica italiana essa si caricava di una valenza (o meglio di un’ambivalenza) ulteriore niente affatto secondaria.
Al di là dell’enfasi delle sempreverdi perorazioni nazionalistiche, immancabilmente riservate alla sfera economica − e quindi dell’insistenza sui vantaggi commerciali e sulle rimesse che una stampa viva avrebbe permesso di incrementare, tenendo saldi i legami delle collettività con la madre patria −, nella penisola la preoccupazione prima era lo stabilimento o il rafforzamento di rapporti di tipo politico con gli emigrati e, nella fattispecie, era l’utilizzo della carta stampata per influenzarne e orientarne il voto la prospettiva cui si guardava. In una chiave che, di nuovo, faceva implicito appello e rivendicava la vocazione “nazionale” dell’informazione etnica, semplicemente presentando l’anticomunismo come la declinazione aggiornata e corretta dell’amor patrio27, ambienti cattolici e di destra puntavano ad assumerne il controllo in vista di una capitalizzazione in termini di suffragi:

 

Già oggi il voto di mezzo milione di italiani che rimpatriano per le elezioni (quasi esclusivamente dai paesi europei più vicini) ha la sua brava incidenza percentuale ed assoluta sui risultati elettorali; domani il voto di 2 milioni di italiani all’estero (è una stima di aventi diritto errata caso mai per difetto, non per eccesso) potrebbe addirittura essere determinante per salvare l’Italia dal comunismo28.

 

La questione del voto all’estero, pungolo ideale per spingere istituzioni e governo ad aprire i cordoni della borsa e finanziare riviste e periodici, affiora, in forma velata o esplicita, negli interventi a margine dei congressi della Federazione che, d’altro canto, quanto a struttura e organizzazione continuava a balbettare e forse non è azzardato ritenere fosse il perno dell’attivarsi, al solito di comodo, di molti in Italia per evitare la scomparsa delle pubblicazioni nelle collettività. Siamo in un periodo – intorno alla metà degli anni sessanta − in cui il Movimento sociale italiano è ancora in pratica l’unica forza politica che ufficialmente si impegni a far approvare una legge per consentire l’esercizio del diritto di voto agli italiani residenti in altri paesi29, risultato in vista del quale il partito di Almirante e Michelini si mobilitò al fine di conquistare spazio e voce tra gli emigrati. L’intraprendenza del Msi incrociò e si concretizzò in contemporanea con le vicende che condussero alla creazione della nuova Federazione mondiale della stampa all’estero (Fmsie). Nel 1971, anno del suo congresso costituente, furono fondati infatti anche i Comitati tricolori italiani nel mondo (Ctim)30, diramazioni estere del partito per il proselitismo e la raccolta di iscritti, che si dotarono subito di un organo di stampa destinato all’Europa, “Oltreconfine”, a dimostrazione del fatto che i giornali continuavano ad essere considerati, a torto o a ragione31, il veicolo più efficace di propaganda.
Il foglio, a periodicità al principio irregolare, era nato autonomamente due anni prima ed era diretto da Bruno Zoratto32. Si stampava, non a caso, a Stoccarda, in Germania: era l’area in cui i missini credevano di poter con più facilità incontrare consenso, visti i numeri − per un decennio, a partire dalla metà degli anni cinquanta, era stata la destinazione preferita degli italiani − e le caratteristiche dell’emigrazione che lì si era diretta, contraddistinta da turn-over elevatissimo e rientri frequenti33. Il che voleva dire ampia opportunità di votare in patria, in attesa per l’appunto di una legge per la quale il periodico si batterà fin dall’esordio e poi ininterrottamente negli anni a venire34. La causa era perfetta per avvalorare l’immagine di “partito-nazione”, al di sopra degli “interessi particolari”35, che il Msi era in grado di cucirsi addosso con notevole successo fuori d’Italia. “Oltreconfine”, esibendo con orgoglio la propria estraneità al sistema di potere, si rivolgeva al vasto bacino di insoddisfatti e scontenti tra i lavoratori in terra tedesca, in larghissima maggioranza meridionali e sensibili a parole d’ordine che, sull’onda del richiamo nostalgico alla “patria lontana”, avevano gioco facile nell’additare le autorità italiane da un lato, l’ambasciata e i consolati dall’altro come nemici, attribuendo alle prime tutta e intera la responsabilità della continua espulsione di manodopera dal paese; ai secondi, spesso non a torto, inefficienza e scarsa sensibilità. Il voto diventava così al contempo il riconoscimento del legame indissolubile − e mai tradito, da chi era “fuori” − con l’Italia e il toccasana per risolvere i problemi degli emigrati, da sempre ignorati o trascurati dai governi della Repubblica, indifferenti e capaci al più di politiche migratorie superficiali.
Di qui ad affermare che all’inizio degli anni settanta molta stampa etnica fosse nelle mani della destra, in qualche caso di matrice apertamente fascista; e che la Federazione mondiale della stampa italiana all’estero, ricostituita nell’orbita dell’ala più conservatrice della Dc e con alla testa Umberto Ortolani e Gaetano Benozzo36, si muovesse su questa falsariga e con intenti simili37, giusta la denuncia di alcune riviste democratiche e di sinistra (come la svizzera “Realtà Nuova”, dei comunisti), il passo non è breve. L’episodio riferito a sostegno di tale tesi e relativo proprio all’assise di fondazione della Fmsie, occasione nella quale il direttore di un giornale venne pesantemente insultato e irriso dagli altri delegati per aver tentato di far inserire nello statuto la dichiarazione secondo cui essa si ispirava “alla Costituzione italiana nata dalla Resistenza”38, è certo emblematico (o lo era a quella data) e pare concedere minimi margini di dubbio sul fatto che, quantomeno, un momento di coagulo e una prevalenza marcata la destra li abbia avuti nella circostanza.

 

4. Il Congresso mondiale della stampa italiana all’estero e la costituzione della Fmsie

 

Tuttavia, quando nel luglio del 1971 si giunse al primo Congresso mondiale della stampa italiana all’estero che sancì la rinascita della Fmsie, il panorama dei partecipanti era assolutamente variegato da un punto di vista politico e anzi scorrendone l’elenco fa non poco effetto ritrovare accanto testate agli antipodi sul piano ideologico, come la zurighese “Emigrazione italiana”, diretta da Gianfranco Bresadola e organo della storica Federazione delle colonie libere italiane in Svizzera, nata dall’unione delle “Colonie libere” su iniziativa degli esuli antifascisti39, e “Italia d’Oltremare”, diretta a Buenos Aires da Davide Fossa, giornalista e pubblicista con passato fascista e repubblichino40.
Quest’ultimo, emigrato in Argentina dopo la seconda guerra mondiale, stampava un periodico41 che nel sottotitolo si qualificava “informativo politico e letterario” e nel quale, tra un anatema per la condizione della Chiesa nei paesi comunisti e le partecipazioni a nascite e lutti “di famiglia” (ad esempio, rispettivamente, per il nipote di Vittorio Mussolini e per il figlio di Giovanni Host Venturi, ministro delle Comunicazioni tra il 1939 e il 1943, entrambi a loro volta esuli sulla sponda argentina del Plata), si potevano leggere articoli del tenore di quello pubblicato nel 1968 a sostegno della causa “nazionale” vietcong, usurpata da “luridi e stolti rivoluzionari da burla che invadono le aule universitarie”42.
È probabile che anche l’ex prefetto della Rsi avesse oramai diluito e stemperato il proprio “nazional-fascismo” in una sorta di “nazional-clericalismo” che a partire dagli anni cinquanta contraddistinse varia stampa di destra43. Non soltanto in Argentina, dove risulta analogo iter avesse compiuto un “fuoriuscito” ben più illustre, l’ultimo segretario del Partito nazionale fascista Carlo Scorza, con la sua rivista “Dinámica social”, che dal 1950 diventò “l’organo dei nazionalisti argentini di matrice cattolica”44; ma pure, ad esempio, in Australia. Con queste formule Richard Bosworth ha sunteggiato infatti l’evoluzione del “Corriere d’Australia” (pubblicato tra il 1953 e il 1961), nato come “organo dei nostalgici” e legato, secondo le autorità italiane, al Msi e sulle cui colonne “fascism had by then generally been renounced
in favour of popular religiosity, sport and consumerism”. Secondo Bosworth in tal senso il foglio rifletterebbe

 

the way in which a leadership of (Fascist) pioneers was transformed into blander beings who would readily service a Cold War and capitalist world and yet would never quite create an uncontested hegemony over all Italian migrants in Australia45.

 

In maniera equivalente, la parabola del settimanale “Settegiorni”, nato a Sydney nel 1963, due anni dopo la cessazione del “Corriere”, e presente a Roma nel 1971, confermerebbe che un “establishment generally with ties back to the Fascist period, […] gradually abandoned its Fascism”. Fossa stesso aveva esordito a Buenos Aires lavorando al “Risorgimento”, il periodico su posizioni di estremismo neofascista fondato da Francesco Di Giglio46, un giornalista che negli anni trenta era stato redattore dell’importante quotidiano fascista “Il Mattino d’Italia”. Di Giglio nel dopoguerra era divenuto l’organizzatore nella capitale argentina del Msi47 − di cui Fossa a propria volta sarà rappresentante per Córdoba48 − e a partire dal 1961, conclusasi l’esperienza del “Risorgimento”, era entrato nella redazione del più prestigioso giornale porteño, “La Nación”, di cui fu anche inviato speciale in Brasile e in Cile.
Va detto che sui rapporti del Msi con gli esuli fascisti, in generale e, in particolare, con il folto contingente approdato in America meridionale, non si è indagato a sufficienza. Se all’epoca erano noti (la stampa in Italia ne aveva riferito) i contatti avutisi alla fine degli anni quaranta, quando il partito che aveva raccolto l’eredità di Mussolini ricevette finanziamenti dall’Argentina49, in una fase in cui ancora molti dei simpatizzanti che non si erano rifugiati all’estero preferivano non esporsi, assai meno si sa delle relazioni stabilizzatesi nel lungo periodo. Un caso come quello di Gaio Gradenigo, torturatore della polizia politica fascista scappato dall’Italia dopo la guerra, direttore dal 1974 del quindicinale “Risorgimento” di Buenos Aires e intervenuto nel 1975 alla prima Conferenza nazionale sull’emigrazione in rappresentanza dei Comitati tricolori argentini, solleva interrogativi di non poco conto, che evidentemente solo una ricerca puntuale potrebbe contribuire a sciogliere, sul senso di percorsi individuali “sempre e per sempre dalla stessa parte” dagli svolgimenti nient’affatto sotterranei oltreoceano e sulla valenza in essi, forse non solo archeologica, del rifarsi al fascismo50.
Certo è che periodici e riviste neofascisti o, per usare la definizione del Ministero degli Affari Esteri, “accentuatamente di destra” − così fu etichettato “Il Corriere di Caracas”51, che si pubblicava in Venezuela sotto la direzione di Franco Pattarino52 ed era tra i soci effettivi della Federazione −, erano presenti in forze nel 1971 a Roma: dal citato “Oltreconfine”; a “La settimana”53, edita a São Paolo da Alessandro Del Moro e Marianna Dellarole Del Moro; da “L’eco dei calabresi”54 di Pasquale Caligiuri, mensile del Centro Calabrese di Buenos Aires a “Vita italiana”55 di Toronto. A essi si affiancavano gli altri fondati direttamente, oppure − come per Fossa − presi in mano all’arrivo56, dalla pattuglia abbastanza nutrita di giornalisti fascisti che, lasciata l’Italia, avevano ricominciato senza ostacoli il mestiere, specie nelle destinazioni sudamericane, dove le loro penne e le idee professate avevano concorso in misura cospicua ad agitare le acque già poco tranquille delle collettività italiane. Oltre a “Italia d’Oltremare”, alla categoria è da ascrivere la “Tribuna italiana” di São Paolo, creatura del trevigiano Pietro Pedrazza. Giornalista anche in patria non incline a toni da moderato57, una volta sbarcato in Brasile l’ex redattore capo del “Resto del Carlino” era stato accolto a braccia aperte dagli industriali italo-brasiliani, Matarazzo in testa, che sponsorizzarono l’impresa del settimanale, di cui Pedrazza fu dal 1948 al 1972 innegabilmente il “dinamico elemento direttivo”58, ma dalla prospettiva alquanto bellicosa del fascismo intransigente59.
Le condizioni economiche di tutti questi fogli quasi di sicuro non erano, alla volta degli anni settanta, più floride di quelle descritte da uno dei finanziatori della “Settimana” paulista, l’industriale Breda, il quale lamentò nel 1972, durante una seduta del Comitato consultivo degli italiani all’estero, che il periodico, punto di riferimento della comunità con le sue 14 pagine, versasse in grosse difficoltà, pur essendo sovvenzionato da un “gruppo di italiani di San Paolo”60 (probabilmente si trattava degli stessi che avevano fatto nascere e sostenuto fino alla sua cessazione nel 1972 la “Tribuna” di Pedrazza). Nel 1975, ad esempio, terminò le pubblicazioni “Italia d’Oltremare”. Nondimeno la forza della stampa di destra, che in Italia fu, all’indomani della Liberazione, uno dei fattori che favorirono la riorganizzazione dei fascisti − secondo qualcuno la fioritura di tali organi fu anzi all’origine della “presa di coscienza” che avrebbe condotto il neofascismo alla svolta della fondazione del Movimento sociale italiano61 −, aveva costituito un problema di non piccolo conto in America latina.
Qui nei primi anni del dopoguerra il proliferare di pubblicazioni neofasciste, potendo i nostalgici anche sfruttare la rendita di posizione che la strategia di acquisizione delle testate “coloniali” messa in atto dal regime62 garantiva in termini di titoli di proprietà dei giornali, destò preoccupazione al punto da costringere la diplomazia a muoversi, per ottenere la sospensione di fogli i quali, a parte la gravità degli attacchi di cui erano fatti oggetto consoli ed ambasciatori dell’Italia democratica − in molti casi di nomina politica e non di carriera −, erano motivo di spaccature tra i connazionali e causa di conflitti o “complicazioni” con le autorità dei paesi ospiti. Se la “Tribuna” di Pedrazza fu criticata pesantemente dalla stampa brasiliana per il suo oltranzismo fascista63, in Cile “Le campane di San Giusto”, un quindicinale sorto a Valparaíso nel maggio 1947 e diretto da Rodolfo Carnio Perich, attorno al quale si erano raccolti gli intransigenti, pronti ad impiantare in loco il Msi e a farsene portavoce, godeva di protezioni negli ambienti governativi locali, cui non dispiacevano gli insulti nei confronti delle istituzioni democratiche italiane e le offese rivolte al console antifascista Aurelio Natoli64. Questi, inviato dal ministro degli Esteri Carlo Sforza per sanare la situazione, al suo arrivo ebbe a giudicarla la più “agitata” di tutta l’America meridionale: per contrastare la propaganda fascista con gli stessi mezzi richiese perciò al ministero “l’invio di pubblicazioni sullo sforzo ricostruttivo compiuto dall’Italia; l’invio di un notiziario che si potrebbe far pubblicare sulla stampa locale; l’invio di giornali specialmente liguri”65.
Non è a dire che a distanza di quasi un quarto di secolo, al momento del congresso costituente della Fmsie, il quadro fosse in qualche modo paragonabile; e proprio l’elenco degli aderenti, che reca si diceva affiancati i nomi di direttori ex fascisti e di illustri antifascisti, lo dimostra. La presenza in simultanea a Roma di Dionisio Petriella − a lungo una delle figure guida del versante democratico della collettività italiana in Argentina, Petriella era alla testa fin dal 1945 della “Dante Alighieri” di Buenos Aires e dal 1966 anche della federazione che riuniva i sodalizi italiani, “Feditalia”, e dell’omonimo mensile66 − e del citato Fossa e il fatto che li si trovi a dialogare nelle giornate del congresso (entrambi erano inseriti nella prima commissione, incaricata di discutere della Carta della stampa all’estero)67, attestano che nelle comunità, o almeno ai vertici di esse, si era verificato un processo di completo riassorbimento delle contrapposizioni ideologiche che le avevano segnate fortemente in passato.
In esso la stampa etnica svolse un ruolo non secondario. A ricostruirne la genesi e il percorso, laddove ciò sia possibile, si scopre che non fu una deriva naturale, esito spontaneo dell’allontanarsi nel tempo e dello spegnersi delle contese che in Italia avevano condotto alla guerra civile: in Argentina fu il frutto di un progetto consapevole e di contrattazione in un contesto che non era stato immune nella fase postbellica dalla polarizzazione, come altrove anche più aspra rispetto al ventennio, tra fascisti e antifascisti. Se la ricomposizione in Cile fu mediata e possibile solo grazie a un intervento dall’esterno − l’input venne, s’è visto, dal corpo diplomatico, che si prodigò per isolare gli accoliti di Rodolfo Carnio Perich e far tacere il loro giornale −, di qua della cordigliera essa fu considerata prioritaria dall’establishment della collettività e quindi perseguita e raggiunta da una leadership interna col duplice vantaggio di controllare organizzazioni chiave, come la “Dante”; e di essere al di sopra di ogni sospetto quanto a credenziali antifasciste. Al fianco di Petriella si schierarono infatti i Torcuato Di Tella e gli Ettore Rossi, in precedenza direttore, quest’ultimo, dell’“Italia Libera”, foglio dell’omonima associazione che all’estero aveva raccolto il fronte composito degli oppositori non comunisti di Mussolini. Cruciale per la buona riuscita dell’impresa fu la decisione di coinvolgere e aggregare i capofila della parte avversa: non solo Vittorio Valdani, l’industriale sostenitore e “uomo immagine” del regime fascista e poi della repubblica di Salò ma anche un immigrato dell’ondata post 1945 non esattamente qualunque, ovvero Agostino Rocca, il più noto tra i dirigenti d’azienda partiti dall’Italia alla fine della guerra perché compromessi col fascismo e implicati nei procedimenti di epurazione68, e il fondatore in Argentina della Techint, destinata a divenire il maggiore gruppo economico del paese.
Fu ancora una volta la creazione di un periodico, “Il Corriere degli italiani”, nel 1949, che tradusse il proposito di pacificazione e il direttore, Ettore Rossi, lo scrisse esplicitamente nell’editoriale programmatico69. Una riprova di come il disegno poté concretizzarsi è invece in una testimonianza successiva di Petriella: molti anni dopo, tratteggiando nel suo fondamentale dizionario biografico italo-argentino la figura di Fossa, egli ricordò infatti le discussioni tra questi e lo stesso Rossi, il quale, dalla colonne del “Corriere”, sovente polemizzava con le opinioni espresse dal collega di “Italia d’Oltremare” in una rubrica di analisi politica intitolata “Il filo conduttore”. Petriella precisò essersi trattato di scambi di idee tra due giornalisti che si stimavano e che avevano il medesimo intento: anche le reiterate professioni di fede fascista di Fossa erano da inquadrare nell’ottica della funzione che egli ricopriva, ovvero del suo contributo “a ricostruire l’unità nella collettività locale”70.
L’esempio argentino, forse non paradigmatico, di una stampa che continua a essere utilizzata nel secondo dopoguerra allo scopo di agglutinare e conservare nel tempo la “comunità immaginata”71 e di rendere omogenee vecchia e recente immigrazione, puntando per forza di cose non sull’antifascismo ma sull’affermazione dell’italianità, offre lo spunto per un’altra lettura: se ne deve inferire che, almeno oltreoceano, la costituzione della Fmsie fosse concepita alla stregua di un’operazione “lobbistica’, cioè tesa a ottenere finanziamenti, piuttosto che direttamente o indirettamente politica. Laddove delle antiche dispute e fazioni poco o nulla rimaneva, non aveva senso guardare sotto l’aspetto ideologico ai rapporti di forza all’interno della comunità italiana, descritta da Enrico Calamai, con formula evocativa e pregnante, come un “sottoinsieme a intensità variabile”. Una nebulosa insomma, in cui al principio degli anni settanta il comune denominatore rappresentato dal “forte legame con la madrepatria” permetteva a malapena di distinguere le correnti sotterranee: quella storica, di “destra neanche tanto sommersa” (i nostalgici di un ventennio compendiato nell’immagine cristallizzata dell’Italia finalmente grande e rispettata); il nucleo, concentrato negli strati alti, di chi dalla penisola era partito o fuggito in tutta fretta alla fine della guerra, per motivi politici o a causa di una condotta non proprio limpida; il ceto emergente dei commercianti con “ben chiaro il rapporto tra affari e politica”; e finalmente i progressisti, in numero “decisamente inferiore”72.
Pur tuttavia, un’interpretazione che anche per i paesi europei e, soprattutto, per gli iniziatori estranei al mondo dell’emigrazione, limitasse e restringesse ad una logica commerciale la “ragione sociale” della Fmsie parrebbe semplificatoria: è fuorviante pensare che quindici anni di tentativi avessero il solo obiettivo di costruire uno strumento di pressione per strappare abbonamenti e pubblicità e risolvere i problemi economici dell’editoria all’estero, o da cui magari cavare (ed è plausibile parzialmente così fosse nel caso di personaggi alla Ortolani) un tornaconto e benefit privati.
In ultima analisi, era la circostanza stessa di attribuire alla carta stampata il potere di raggiungere e dar forma a “colonie” viste come entità reali73 a far sì che, tramite la Fmsie, anche sui contenuti e sulle finalità dell’offerta informativa delle testate si ritenesse di poter avere un’influenza. C’era su questo una omogeneità di vedute che andava oltre il recinto della Federazione: sindacati e associazioni più o meno istituzionalmente in contatto con gli emigrati erano in eguale misura persuasi che non fosse una pura faccenda di denaro e temevano che proprio nelle questioni inerenti l’indirizzo dei giornali la Fmsie avrebbe esercitato un condizionamento pesante, mettendone a rischio l’indipendenza. Sui modi in cui il nuovo organismo avrebbe dovuto agire si scontrarono dunque posizioni politiche e interessi diversi.
Impossibile che ciò avvenisse durante il Congresso (in un certo senso la prova di forza davanti alle istituzioni, quindi il momento e il luogo meno adatti per mostrare divisioni) ma, esaminando ad esempio i resoconti del dibattito dietro le quinte e a latere, nei lavori preliminari e nelle sessioni annuali del Comitato consultivo degli italiani all’estero (Ccie), attivato dal 1967 presso il ministero degli Affari Esteri per consentire ad enti e associazioni operanti presso le collettività di incontrarsi e confrontarsi, ci si avvede di come un accordo esistesse soltanto nel riconoscimento unanime della funzione cardine delle pubblicazioni italiane. Le opinioni divergevano invece profondamente sul come tali compiti erano e avrebbero dovuto essere assolti, nel mentre si domandava al governo uno sforzo economico, con grosso modo da un lato il presidente in pectore e poi effettivo della Federazione, Ortolani; gli esponenti di sindacati (Cgil e Uil in particolare), patronati (l’Inca) e associazioni cattoliche (le Acli), dall’altro. La Direzione generale dell’emigrazione, pur mediando, fiancheggiava in maniera discreta il primo, essendo a favore di una Fmsie autorevole (si intuisce che per il ministero era preferibile avere davanti un interlocutore unico per tutta la carta stampata etnica), ma si può dire si preoccupasse solo del merito degli aspetti tecnici del finanziamento.
Era del resto questo il punto di innesco della discussione. Sin lì si era proceduto all’assegnazione di stanziamenti minimi ed erano stati seguiti criteri − tiratura e durata in vita dei giornali − di tipo quantitativo. Delle circa 120 pubblicazioni esistenti, la metà riceveva sovvenzioni: erano esclusi i bollettini a diffusione limitata di piccole associazioni o gruppi. Tuttavia, al di là delle obiezioni, pur non trascurabili, motivate dal fatto che copie stampate e vendute non coincidevano e che comunque non sempre i numeri erano indice di vitalità e dicevano il significato di un periodico in una comunità, i contrasti erano forti sui parametri di “qualificazione” della spesa, vale a dire sui requisiti da soddisfare per chi avrebbe usufruito dei contributi e sul vincolo tra questi e quelli.
Secondo la Cgil, i lavoratori residenti in Europa, emigranti più o meno a breve termine ma nella stragrande maggioranza dei casi temporanei e quindi destinati a rientrare in patria, non ricevevano una informazione adeguata e non erano perciò messi nella condizione di inserirsi con cognizione di causa nelle organizzazioni sindacali locali per difendere i propri diritti durante la permanenza all’estero. Totale si rivelava in tal senso l’impotenza della stampa italiana, che sceglieva sempre e comunque il quieto vivere rispetto alle autorità dei paesi ospiti: omologata e assolutamente disarmata, essa non era in grado di proteggere i connazionali non solo nei conflitti di lavoro ma nel complesso dei rapporti con la società d’arrivo. Nella seduta del Ccie del novembre 1972, il rappresentante dell’Inca, Aloisio, sollecitò Ortolani a riflettere su un episodio clamoroso e doloroso che lo riguardava di persona in qualità di proprietario del “Corriere degli italiani” di Buenos Aires, ricordandogli che

 

gli stessi giornali devono stare attenti a come trattare certi argomenti per non trovarsi poi nei guai. Si pensi che “Il Corriere degli italiani” non ha scritto una parola sulla detenzione e deportazione del fratello del segretario di redazione del giornale. Se un giornale come “Il Corriere degli italiani” è così pesantemente condizionato, quale sarà mai la situazione di un semplice lavoratore?74

 

Chiamato in causa e costretto a replicare, Ortolani respinse con forza l’accusa di colpevole silenzio. Di fronte ai “drammatici avvenimenti argentini”, disse, non c’era stata da parte sua “viltà o paura”. Per quanto la polemica fosse spenta sul nascere dal sottosegretario agli Esteri, il quale sostenne lapidario che “un giornale che voglia mantenersi in vita non può scoprirsi a tal punto da rischiare di essere perseguitato e messo a tacere”, dalla Cgil veniva un severo richiamo affinché per accedere agli aiuti le testate dovessero dare determinate garanzie di “impegno’:

 

condizione indispensabile è che la stampa edita all’estero e aiutata sia obiettiva, democratica ed imparziale nell’informazione, senza bandire la politica, come avveniva al tempo del fascismo e come si verifica in alcuni Paesi, dove si limitano i diritti sociali, politici e sindacali degli emigrati e si perseguitano quanti li esercitano […] In nessun modo debbono essere sovvenzionati quei giornali che fanno propaganda anticostituzionale, di marca più o meno fascista, o che comunque non assumono posizioni chiare di denuncia o di difesa, allorquando […] si tratta di salvaguardare i diritti dei lavoratori emigrati, di difenderli dalle persecuzioni, com’è avvenuto per i sindacalisti ed emigrati perseguitati in Argentina75.

 

Richieste cui si unì anche la Uil ma che erano destinate a cadere nel vuoto, se era vero che per il ministero era prassi convogliare i sussidi sulle pubblicazioni “con tendenze di centro e di destra”76, i medesimi cui le aziende italiane riservavano le inserzioni pubblicitarie77. Esse dovettero apparire vieppiù velleitarie (ma non è detto lo fossero: basti pensare alle coraggiose denuncie durante la dittatura dei militari del corrispondente del “Corriere della sera”, Gian Giacomo Foà, che fu costretto a riparare in Brasile) a Ortolani, che non solo ben conosceva le condizioni politiche dell’Argentina di quegli anni ma vi si muoveva senza intralci, realizzando lauti guadagni.
Il presidente della Fmsie non aveva motivo alcuno per mutare la formula senza rischi dei giornali “bandiere di italianità” in terra straniera, rinunciando al comodo rifugio di una retorica vuota, che teneva sì le testate a stretto contatto con gli umori degli emigrati ma su un piano liscio di astratta salvaguardia del sentimento nazionale, a distanza di sicurezza da un qualsivoglia coinvolgimento negli “affari interni” dei paesi di accoglienza. La sua era peraltro una opzione condivisa da altri all’interno della Federazione: a nome della piccola colonia in Perù gli faceva eco per esempio il consultore Giurato, secondo il quale era opportuno per i periodici italiani “mantenersi lontani dalla vita politica locale, ad evitare elementi di disordine e di discordia che ci comprometterebbero di fronte all’opinione pubblica”78.
La tragedia argentina poneva dunque al massimo grado un problema generale, riscontrabile con i necessari distinguo ovunque − si pensi ad esempio ai paesi europei dove i diritti dei lavoratori erano violati −, che era, in sintesi, l’assoluta debolezza di una stampa ormai inadatta a fungere da medium tra gli immigrati e la società ospite e ridotta a tribuna innocua delle associazioni ed espressione di conventicole di notabili.

 

5. Considerazioni conclusive

 

Sperare che la Fmsie di Ortolani e Benozzo arrivasse a invertire la tendenza era niente più che un’illusione. Anche ammesso che la cura fosse adeguata − e i “drastici mutamenti” delle collettività che pur qualcuno menzionava facevano presagire il contrario79 −, il rilancio era oggettivamente ostacolato e impedito dalla mancanza di risorse, che rimaneva pressoché completa, come si capì anche dal sostanziale fallimento del tentativo ambizioso di acquistare visibilità dotandosi di un bollettino: dopo i primi anni “Presenza italiana nel mondo”, trimestrale nato nel 1972 e articolato in un foglio di “Informazioni” e in un “Notiziario”, fu ridimensionato e dal 1976 si limitò a poche pagine ciclostilate a causa delle ristrettezze economiche.
L’anno precedente, mentre anche in Italia i giornali attraversavano una grave emergenza che determinò numerosi cambi di proprietà nelle grandi testate e spinse il governo a varare nel 1976 “una leggina che [diede] alle imprese editrici di quotidiani per due anni una boccata di ossigeno”80, fu finalmente approvata una legge sulla stampa che prevedeva l’assegnazione dei finanziamenti per le pubblicazioni italiane all’estero ma l’esiguità dello stanziamento suscitò immediate proteste, dato che i “1000 milioni” complessivi una volta ripartiti si riducevano ad una somma irrisoria, per non dire irridente81.
L’attuazione del provvedimento, che stabiliva una distribuzione a pioggia dei fondi, fu oggetto di polemiche e motivo di ulteriori fratture. Su come si dovessero altrimenti impiegare gli scarsi mezzi a disposizione e scegliere le pubblicazioni da premiare, i pareri erano discordi. In alcune zone, in particolare in Sud America, si chiese per esempio che invece di legare la somma alla tiratura, si distinguesse in primis in base ai contesti, tenendo conto del potere d’acquisto nei vari paesi: le continue svalutazioni della moneta e l’impoverimento generale causato da crisi economiche e politiche rendevano infatti i periodici nell’area latinoamericana particolarmente esposti. Altrove fu proposta una selezione “qualitativa’, che verificasse cioè il livello dell’informazione e non una diffusione del resto impossibile da accertare, dato che non c’era modo di controllare la rispondenza tra copie dichiarate e copie fatte circolare.
Che il 1975 della promulgazione della legge, varata in concomitanza con i lavori della prima Conferenza nazionale dell’emigrazione italiana, sia anche l’anno col quale simbolicamente si fa coincidere la conclusione del fenomeno emigratorio dalla penisola, con il saldo dei rientri positivo sulle partenze, non è forse del tutto casuale. È probabile si sia trattato del primo di una serie di risarcimenti ex post culminati, è stato con acutezza notato, nella recente concessione del voto agli italiani all’estero82: dettati, questo al pari di quella, dal senso di colpa delle classi dirigenti del paese, non sono stati che forme di compensazione tardiva di un misconoscimento e di una disattenzione storici. Nel caso qui esaminato della stampa etnica, hanno concorso comunque a mascherare ancora per un po’ un declino e una perdita di peso, di cui dovette invece aver sentore Umberto Ortolani, spregiudicato e abile a disfarsi per tempo, negli anni settanta, dei giornali che possedeva in America latina, ricavando dalla vendita una somma tanto spropositata quanto rivelatrice di un perdurante abbaglio collettivo, al di là del fatto che esso fosse nella fattispecie targato Rizzoli83 e quindi intrecciato − e il dettaglio è abbastanza indicativo − alle manovre che sulla sponda italiana vedevano la P2 di Licio Gelli insediarsi a via Solferino.

Note

1 Per la stesura di queste pagine sono state assai utili le informazioni e le testimonianze personali che gli amici Francesca Ambrogetti e Oscar Piovesan mi hanno fornito a Buenos Aires. Desidero inoltre ringraziare Emilio Franzina per i generosi suggerimenti che mi ha offerto nel corso della ricerca e per le critiche e i commenti al testo.
2 Niccolò D’Aquino, Se 100 milioni (di copie) vi sembran pochi…, in I media della diaspora. Giornali radio e televisioni dell’Italia fuori d’Italia, Roma, Istituto poligrafico e zecca dello stato, 1995, pp. 11-12. Non ho potuto tenere conto dei due annuari Mass Media Italici nel Mondo (anagrafe di 679 tra pubblicazione cartacee, testate on line, radio, televisioni e newsletter) e Comunicatori Italici nel Mondo (1442 nominativi di giornalisti, editori, pubblicitari, ecc.) pubblicati nel 2004 dalla Media Press di Torino.
3 Federazione unitaria stampa italiana all’estero, La stampa italiana in America Latina, Atti del convegno di Buenos Aires, 19 dicembre 1985, Roma, Fusie, 1985, pp. 72-74.
4 Ricostituita nel 1982 come Federazione unitaria della stampa italiana all’estero (Fusie), è presieduta attualmente da Domenico De Sossi.
5 Ottima sintesi, dalle origini alla crisi del secondo dopoguerra (con una visione, anche di quest’ultima fase, non negativa), è quella di Bénédicte Deschamps, Echi d’Italia. La stampa dell’emigrazione, in Storia dell’emigrazione italiana, II, Arrivi, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2002, pp. 313-334.
6 Giuseppe Caron, trevigiano, fu segretario del Cln nella sua città. Maurizio Reberschak lo colloca comunque tra gli antifascisti tiepidi della “seconda ora” e lo ascrive al gruppo emergente della Dc veneta (Rumor, Gatto, Gui). La citazione di Reberschak (da I cattolici veneti tra fascismo e antifascismo, in Emilio Franzina, Silvio Lanaro [et al.] Movimento cattolico e sviluppo capitalistico, Padova, Marsilio, 1974, p. 167) è in Ernesto Brunetta, Dalla grande guerra alla Repubblica, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino, Einaudi, 1984, p. 1028.
7 Cfr. l’opuscolo stampato in occasione del secondo congresso, II Assemblea generale della Federazione della stampa italiana all’estero. Roma 8-9-10-11 gennaio 1958, Roma, s.e., 1958.
8 Anche a voler includere bollettini e numeri unici, è un dato privo di fondamento, stando ai censimenti del ministero degli Affari Esteri. La Direzione generale dell’emigrazione, infatti, registrava sul finire degli anni cinquanta 175 periodici italiani nel mondo. Cfr. Ministero degli Affari Esteri (Mae), Direzione Generale Emigrazione (Dge), Elenco quotidiani e periodici italiani editi all’estero, Roma, Ministero Affari Esteri, s.d. [1960?].
9 Gorresio a proposito dei comunicati delle agenzie aggiungeva: “sono dei foglietti tirati al ciclostile che alla sera vengono a coprire i nostri tavoli di redazione e affermano determinate cose, influenzano, manovrano. E non a caso ciascuno dei potentati della Dc ha una propria agenzia”. Cfr. Vittorio Gorresio, Stampa e democrazia, in Stampa in allarme, a cura di Achille Battaglia, Bari, Laterza, 1958, p. 8, citato in Paolo Murialdi, La stampa italiana dalla liberazione alla crisi di fine secolo, Roma-Bari, Laterza, 2003 [1995], p. 124.
10 L’espressione è di Ernesto Rossi, Presupposti economici di una stampa libera, in Stampa in allarme, a cura di A. Battaglia, cit., p. 132, il quale subito a presso significativamente asseriva: “la democrazia cristiana sta gettando centinaia di milioni nell’agenzia di informazioni “Italia’, con l’evidente scopo di sostituirla a poco a poco all’Ansa”.
11 Umberto Ortolani, durante la guerra appartenente al Sim (Servizio informazioni militari), fece il suo ingresso nell’editoria rilevando alla fine del conflitto l’Agenzia Stefani. Fondò in seguito l’Agenzia Italia e si legò alla Dc, in particolare a Fanfani e Andreotti. Insignito dei titoli di Cavaliere dell’Ordine di Malta e Gentiluomo di Camera del Papa, Ortolani avviò negli anni sessanta una serie di attività in Sud America, acquisendo istituti bancari in Uruguay e Argentina e assumendo il controllo di tre giornali italiani. La sua affiliazione alla loggia di Gelli è del 1973 (tutte le notizie in Sergio Flamigni, Trame atlantiche. Storia della Loggia massonica segreta P2, Milano, Kaos, 1996, pp. 199-200 e passim; e in Andrea Barberi, Pino Buongiorno [et al.], L’Italia della P2, introduzione di Carlo Rognoni, Milano, Mondadori, 1981, pp. 122-125 e passim.
12 Per le vicende del “Corriere della Sera” e dell’“incontro fatale” Rizzoli-P2 negli anni settanta, che ebbe Ortolani tra i protagonisti, cfr. Gianpaolo Pansa, Belfagor a via Solferino, in A. Barberi, P. Buongiorno [et al.], L’Italia della P2, cit., pp. 155-193; valide sintesi sono in P. Murialdi, La stampa italiana, cit., pp. 205-210 e Id. e Nicola Tranfaglia, I quotidiani negli ultimi vent’anni. Crisi, sviluppo e concentrazioni, in La stampa italiana nell’età della TV 1975-1994, a cura di Valerio Castronovo e Nicola Tranfaglia, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 10-16.
13 Gustavo Selva è attualmente parlamentare di Alleanza nazionale.
14 Faceva eccezione il “Corriere di Tunisi”, studiato qui da Lucia Capuzzi e Giuseppe Maria Continiello.
15 Cenni su questi periodici si trovano nel lavoro di Vittorio Briani, La stampa italiana all’estero dalle origini ai giorni nostri, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1977.
16 Per un esempio di inizio secolo cfr. Matteo Sanfilippo, L’affermazione del cattolicesimo nel Nord America. Élite, emigranti e chiesa cattolica negli Stati Uniti e in Canada, 1750-1920, Viterbo, Sette Città, 2003, pp. 222-223.
17 Giuseppe Caron, La Federazione della stampa italiana all’estero. III Congresso nazionale Roma 28-29 novembre 1959, Roma, s.e., 1959, p. 1; qui anche le citazioni a seguire nel testo.
18 Cfr. II Assemblea generale, cit., p. 9 e sgg. Da qui le successive citazioni, passim.
19 Gaetano Benozzo, Un futuro per i giornali italiani all’estero, Roma, Stampa italiana nel mondo, 1965, p. 11.
20 Gaetano Benozzo, pubblicista dal 1934, era stato direttore dell’“Italia che scrive” di Formiggini e redattore capo de “Il Pubblico” di Orano, quindi editore del settimanale di Ernesto Bonaiuti “1945”.
21 Nell’indagine del ministero degli Affari Esteri cui ci siamo sopra riferiti, pochi anni prima della sua cessazione l’“Italia” era qualificato come “filogovernativo” e “anticomunista”. Cfr. Mae, Dge, Elenco quotidiani, cit., p. 13.
22 Per il primo dato, presumibilmente del 1960, cfr. Mae, Dge, Elenco quotidiani, cit.; il secondo, relativo al 1964 è riportato in Benozzo, Un futuro, cit., p. 4.
23 La Fsial era presieduta dal solito Ortolani, nel frattempo diventato proprietario-editore di tre periodici italiani in America meridionale: “Il Corriere degli italiani” in Argentina; “L’Ora d’Italia” in Uruguay; il “Giornale d’Italia” in Brasile, che venderà in blocco alla Rizzoli negli anni settanta. Cfr. infra.
24 G. Benozzo, Un futuro, cit., p. 12.
25 Ibidem, pp. 7-8.
26 È una supremazia che, considerando il più rapido indebolimento della stampa laica e la scomparsa di numerosi fogli, si può ritenere abbia raggiunto proporzioni schiaccianti ai nostri giorni. Si prendano ad esempio i dati relativi alla Germania, dove vive la collettività italiana nel mondo più folta e di più recente formazione: qui, come ricordava tre anni fa Mauro Montanari, direttore del “Corriere d’Italia” di Francoforte, “esiste un circuito di stampa cattolica calcolato nel numero di 350 mila contatti l’anno, il che vuol dire che una famiglia su tre […] viene toccata da uno di questi giornali (5-6 in tutto) da una a sei volte l’anno”. Cfr. Prima conferenza degli italiani nel mondo, Italiani nel mondo: una risorsa per l’informazione, Atti del convegno di Roma, mercoledì 13 dicembre 2000, Soveria Mannelli (CZ), AdnKronos, 2001, p. 81.
27 Su questa linea erano alcuni settori del Movimento sociale italiano; cfr. Roberto Chiarini, “Sacro egoismo” e “missione civilizzatrice”. La politica estera del MSI dalla fondazione alla metà degli anni cinquanta, “Storia contemporanea”, 21, 3 (1990), pp. 547-548.
28 G. Benozzo, Un futuro, cit., p. 5. Il corsivo è nel testo.
29 Nel dopoguerra, dopo il dibattito all’Assemblea Costituente, una proposta in materia venne presentata dal senatore del Msi Lando Ferretti nel 1955: saranno alla fine 23 i disegni di legge di esponenti del Msi e poi di An prima dell’approvazione definitiva della legge sul voto all’estero nel 2001, cifra dell’impegno politico dell’attuale ministro per gli Italiani nel Mondo, Mirko Tremaglia. Sul complicato iter del provvedimento e sul suo significato si vedano le osservazioni puntuali di Michele Colucci, Il voto degli italiani all’estero, in Storia dell’emigrazione italiana, II, cit., pp. 597-609 e quelle critiche, pienamente condivisibili, di Marina Montacutelli, Smagliature del Paradiso. Il voto degli italiani all’estero tra etnia, nazione e cittadinanza, “Novecento”, 8-9 (2003), pp. 99-04.
30 Sui Comitati tricolori non si è andati oltre le notazioni pionieristiche di Giuseppe Baiocchi, Scheda sui fascisti nell’emigrazione europea, in Emigrazione. Cento anni 26 milioni, “Il Ponte”, 30, 11-12 (1974), pp. 1596-1600.
31 Si può discutere l’esattezza dell’equazione stabilita tra controllo della stampa “etnica” − la quale, va ribadito, aveva funzioni e rilievo assai diversi dal passato − e ricadute in termini di adesioni e suffragi: discorso assai complesso, per affrontare il quale si dovrebbe prendere in esame una serie di elementi, primo fra tutti ovviamente l’estrema difformità dei contesti, che − per limitarsi ad una classificazione sommaria − faceva dell’Europa l’unica area “critica” nell’immediato, stante l’impossibilità per chi viveva oltreoceano di tornare in Italia in occasione degli appuntamenti elettorali (per gli effetti dell’emigrazione sul voto cfr. Stefano Passigli, Emigrazione e comportamento politico, Bologna, Il Mulino, 1969).
32 Bruno Zoratto (1946-2004), nato a Sedegliano (UD) ed emigrato nel 1964 in Germania, è stato per trent’anni il braccio destro di Mirko Tremaglia nei Comitati tricolori. Al momento della scomparsa ricopriva la carica di presidente della commissione informazione del Consiglio generale degli italiani all’estero.
33 Per i dati sui rimpatri, che hanno riguardato una percentuale altissima (quasi il 90%) dei partiti, cfr. Enrico Pugliese, In Germania, in Storia dell’emigrazione italiana, II, cit., p. 124.
34 Il numero d’esordio si apre con un articolo dal titolo inequivocabile, Il diritto di voto all’estero è un imperativo incancellabile (“Oltreconfine”, 1, 1, settembre-ottobre 1969, p. 1); ma per avere un’idea della continuità e centralità della campagna a favore del voto all’estero, si veda l’intera collezione del periodico, fino alla nuova serie uscita a partire dal settembre 1990.
35 R. Chiarini, “Sacro egoismo” e “missione civilizzatrice”, cit., p. 548.
36 Benozzo fu nominato segretario, dopo essere stato tra i membri del comitato promotore del Congresso di Roma, presieduto dallo stesso Ortolani.
37 Ci sembra valida e applicabile anche qui un’osservazione di Piero Ignazi, secondo il quale i veri rapporti tra Msi e Dc “sfuggono ancora alla nostra conoscenza” (cfr. Piero Ignazi, Il polo escluso. Profilo storico del Movimento sociale italiano, Bologna, Il Mulino, 1998 [1989], p. 11). Per ciò che attiene alla carta stampata Pier Giuseppe Murgia ebbe a rilevare che la Democrazia cristiana non aveva mancato nel dopoguerra di “metter le mani su una buona parte [della] stampa filofascista destinata ai reduci e ai repubblichini”. Cfr. Pier Giuseppe Murgia, Il vento del nord. Storia e cronaca del fascismo dopo la Resistenza (1945-1950), Milano, Sugarco, 1975, p. 329.
38 G. Baiocchi, Scheda sui fascisti cit., p. 1599.
39 Vi accenna Giovanna Meyer Sabino, In Svizzera, in Storia dell’emigrazione italiana, II, Arrivi, cit., p. 149; più diffusamente lo stesso Gianfranco Bresadola, Le Colonie Libere, “Il Ponte”, n. cit., pp. 1490-1499.
40 Davide Fossa, sindacalista e giornalista fascista della prima ora, durante il ventennio era stato direttore di diversi periodici. Consigliere nazionale, volontario in Etiopia, fu capo provincia a Piacenza e a Modena con la repubblica di Salò (cfr. Mario Missori, Gerarchie e statuti del PNF. Gran consiglio, Direttorio nazionale, Federazioni provinciali: quadri e biografie, Roma, Bonacci, 1986).
41 Settimanale e in seguito mensile, usciva irregolarmente.
42 Piero Buscaroli, La bandiera dei vietcong e la nostra, “Italia d’Oltremare”, 43, nuova serie, 257, 2-9-16 marzo 1968, p. 1. Nel censimento del Mae più volte richiamato (Mae, Dge, Elenco quotidiani, cit., p. 17) “Italia d’Oltremare” è indicato come settimanale politico di orientamento − pare un ossimoro − “neofascista moderato”. Nel 1965, quando di nuovo su iniziativa di Benozzo era in cantiere un Consorzio dei giornali italiani all’estero, rivolgendosi a Feditalia la Sim chiese ragione della mancata adesione della stampa in Argentina e in particolare di quella, giudicata “incomprensibile”, del foglio di Fossa (la lettera è conservata nell’archivio non inventariato di Feditalia a Buenos Aires).
43 È significativo che esponenti del Msi si muovessero in Italia nella stessa direzione: Vanni Teodorani diresse dal 1954 la “Rivista romana” rifacendosi ad esperienze come l’alleanza tra cattolici e nazionalisti a Roma in età giolittiana, mentre a Verona nel 1955 Primo Siena, che pure proveniva dalla corrente “spiritualista” evoliana, e Gaetano Rasi, studioso di scuola gentiliana, fondarono il mensile “Carattere”, organo dal 1956 dell’“Alleanza cattolica tradizionalista” costituitasi in città. Il periodico veronese guardò con interesse a “movimenti e riviste di destra e di ispirazione cattolica antiprogressista” oltre confine, rispecchiando in ciò secondo Giovanni Tassani la “visione internazionale già propria alla nuova generazione missina, in relazione operativa con Spagna, Portogallo e l’Argentina peronista”. Cfr. Giovanni Tassani, Le culture della destra italiana tra dopoguerra e centrosinistra. Gentilianesimo, cattolicesimo ed evolismo a confronto e in concorrenza, “Nuova storia contemporanea”, 7, 2 (2003), pp. 135-148 (le citazioni sono a p. 143) e Ugo Maria Tassinari, Fascisteria. I protagonisti, i movimenti e i misteri dell’eversione nera in Italia (1945-2000), Roma, Castelvecchi, 2001, p. 329.
44 Ludovico Incisa di Camerana, L’Argentina, gli italiani, l’Italia. Un altro destino, Tavernario (CO), Spai, 1998, p. 567. A giudizio di Noemi Girbal Blacha il mensile di Scorza era espressione del “nacionalismo católico y de perfil profascista a ultranza”. Cfr. Noemi M. Girbal Blacha, Armonía y contrapunto intelectual: Dinámica social (1950-1965), in Cuando opinar es actuar. Revistas Argentinas en el siglo XX, a cura di Ead. e Diana Quattrocchi Woisson, Buenos Aires, Academia Nacional de la Historia, 1999, pp. 399-442 (la citazione è a p. 441).
45 Richard J.B. Bosworth, Reading the Italo-Australian Press in the Era of Post-1945 Mass Migration, in L’emigrazione italiana 1870-1970. Atti dei colloqui di Roma 19-20 settembre 1989; 29-31 ottobre 1990; 28-30 ottobre 1991; 28-30 ottobre 1993, II, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali. Direzione generale per gli archivi, 2002, pp. 760-761 e pp. 757-758.
46 Francesco Di Giglio, nato in Italia, aveva lavorato al “Giornale d’Italia” di Buenos Aires per passare poi al “Mattino”. Cfr. Dionisio Petriella e Sara Sosa Miatello, Diccionario biográfico italo-argentino, Buenos Aires, Asociación Dante Alighieri, 1976, ad nomen.
47 Cfr. la relazione del console Natoli da Valparaíso, in Mae, Affari Politici 1946-1950, Argentina, b. 6, fasc. 4 “neofascismo in Argentina”.
48 Lo segnala Nora Sigman, Emigrazione emiliana in Argentina (1943-1956). Rapporti e legami col neofascismo, in Gli emiliano romagnoli e l’emigrazione italiana in America Latina. Il caso modenese, Atti del convegno tenutosi a Modena e Concordia sulla Secchia, 26 e 27 ottobre 2001, Modena, Grafica e stampa Provincia di Modena, 2003, p. 207.
49 Federica Bertagna, Fascisti e collaborazionisti verso l’America (1945-1948), in Storia dell’emigrazione italiana, I, Partenze, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2001, p. 353; un esempio, eccentrico forse solo per la sua collocazione geografica, dell’impegno politico dei “fuoriusciti” è il tentativo di Lazzaro Spallanzani, un fascista originario di Reggio Emilia emigrato nel 1948 a Ushuaia, nell’estremo sud dell’Argentina, di raccogliere fondi a favore del Movimento sociale e di creare lì una sezione. Cfr. Lia Sezzi e Nora Sigman, “Pionieri del progresso”: l’impresa Borsari in Terra del Fuoco, “Storia e problemi contemporanei”, 16, 34 (2003), p. 125.
50 Cfr. Conferenza Nazionale dell’Emigrazione, “Affari Sociali Internazionali”, 3, 1-2 (1975). Secondo Jorge Camarasa, Gradenigo pubblicava ancora nel 1996 un foglio intitolato “Risorgimento” (si veda Organizzazione Odessa. Dossier sui nazisti rifugiati in Argentina, Milano, Mursia, 1998, p. 245).
51 Nel notiziario della Fmsie, in occasione dei 25 anni della testata, la sua linea era invece definita “totalmente indipendente e non influenzata in alcun modo da partiti o da tendenze politiche”. Cfr. I 25 anni de “Il Corriere di Caracas” Caracas 1949/1973, “Presenza italiana nel mondo. Informazioni”, 2, 1 (1973), p. 4.
52 Franco Pattarino proveniva dal giornalismo “coloniale’: dopo essere stato direttore del “Quotidiano Eritreo” di Asmara e del “Corriere di Asmara”, alla conclusione della guerra aveva raggiunto il Sud America come inviato del “Giornale d’Italia”. Fondò il “Corriere di Caracas” nel 1949.
53 G. Baiocchi, Scheda sui fascisti, cit., p. 1600.
54 Erede della “Voce dei calabresi”, il periodico, creato nel 1967, era secondo Vittorio Briani “informativo di destra” (cfr. V. Briani, La stampa italiana all’estero, cit., p. 87): non a caso il direttore, Caligiuri, divenne membro dei Comitati tricolori.
55 Nel ’77 sempre Briani ne dà questa descrizione: “giornale di costume e critica politico-sociale-economica, che si definisce Libera voce dell’emigrazione italiana in Canada, e che dopo aver assunto un atteggiamento piuttosto “nostalgico” nei confronti del regime fascista […] ha successivamente ammorbidito parecchio le sue posizioni”. Cfr. V. Briani, La stampa italiana all’estero, cit., p. 147.
56 “Italia d’Oltremare” era nato nel 1925.
57 Per la sua carriera in patria cfr. Luigi Urettini, Giuseppe Mazzotti e l’invenzione della “Piccola Atene”, “Venetica”, 16, terza serie, 5 (2002), pp. 109-110. Sull’attività di Pedrazza in Brasile si veda la trasposizione narrativa della figlia, Elena Pedrazza, La casa dei gelsi, Firenze, L’autore libri, 2002, specie le pp. 31-32.
58 Il ritratto simpatetico è dell’organo della Fmsie, che salutò così i 50 anni di giornalismo di Pedrazza (cfr. “Presenza italiana nel mondo. Informazioni”, n. cit.).
59 A. Trento, L’emigrazione italiana in Brasile, in Storia dell’emigrazione italiana, II, cit., pp. 404-405 e 410 e V. Briani, La stampa italiana all’estero cit., p. 105.
60 Cfr. Dge, Documentazione sui problemi dell’informazione italiana all’estero, Roma, s.e., 1973, p. 151.
61 Umberto Di Meglio, Il ruolo della stampa nella nascita del MSI, “Rivista di studi corporativi”, 11, 5-6 (1981), pp. 219-236.
62 In Cile era stato il caso del giornale “Italia”. Il fascismo peraltro si limitò ad estendere una pratica di controllo diretto diffusa già in età liberale: cfr. B. Deschamps, Echi d’Italia cit., p. 321.
63 A. Trento, L’emigrazione italiana in Brasile, cit., p. 410.
64 Aurelio Natoli, repubblicano, esule in Francia e, dal 1940, negli Stati Uniti, era stato membro della Mazzini Society e collaboratore regolare dell’organo dell’associazione antifascista, “Nazioni Unite”, pubblicato a New York dal 1942 al 1946 (su cui cfr. Charles Killinger, Nazioni Unite and the Anti-Fascist Exiles in New York City 1940-1946, “The Italian American Review”, 8, 1 (2001), pp. 157-195).
65 Sulla vicenda e sulla comunità italiana nel principale porto del Cile, cfr. l’articolato rapporto di Natoli da Valparaíso, datato 25 ottobre 1947, in Archivio Centrale dello Stato (Acs), Ministero dell’Interno (Mi), Pubblica Sicurezza (Ps) 1947-1948, b. 59, fasc. “neofascismo all’estero” (da qui le citazioni); e inoltre P. Salvetti, L’emigrazione italiana in Cile: le fonti in Italia, in Luigi Favero, Maria Rosaria Stabili [et al.], Il contributo italiano allo sviluppo del Cile, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1993, pp. 408-410.
66 Nato negli Stati Uniti nel 1904, dopo aver vissuto a Napoli Petriella raggiunse nel 1924 il padre, esiliato politico in Argentina. Avvocato e pubblicista, nel 1961 fu nominato segretario generale del Comitato della collettività italiana per l’accoglienza al presidente della Repubblica Gronchi, quattro anni dopo presiedette quello analogo per Saragat. Fu presidente di “Feditalia” tra il 1966 e il 1970.
67 Fmsie, Atti del congresso mondiale della stampa italiana all’estero, Roma, Fmsie, 1975, p. 156.
68 Cfr. Fernando J. Devoto, Historia de la inmigración en la Argentina. Con un apéndice sobre la inmigración limítrofe por Roberto Benencia, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 2003, p. 412, e, dal punto di vista di uno dei protagonisti, Dionisio Petriella, Agustín Rocca en treinta años de recuerdos, Buenos Aires, Asociación Dante Alighieri, 1976, pp. 7-12.
69 Amoreno Martellini, L’emigrazione transoceanica tra gli anni quaranta e sessanta, in Storia dell’emigrazione italiana, I, cit., p. 369.
70 D. Petriella e S. Sosa Miatello, Diccionario Biográfico, cit., ad vocem (la traduzione è mia). Per le informazioni sul “Corriere degli italiani”, il rimando è naturalmente anche alla voce su Ettore Rossi, che lo diresse fino alla morte, nel 1960. In quell’anno il periodico passò nelle mani di Ortolani; direttore fu nominato Mario Basti (ringrazio il figlio Marco per le notizie che mi ha fornito sul “Corriere” e sulla stampa italiana in Argentina nel secondo dopoguerra).
71 La nota espressione di Anderson è stata applicata alla collettività italiana nella capitale argentina da Ema Cibotti, Giornalismo politico e politica giornalistica. La formazione pubblica di una opinione italiana nella Buenos Aires di fine secolo, “Ventesimo secolo”, 4, 11-12 (1994), pp. 351-376 (citata in B. Deschamps, Echi d’Italia cit., p. 319).
72 Enrico Calamai, Niente asilo politico. Diario di un console italiano nell’Argentina dei desaparecidos, Roma, Editori Riuniti, 2003, pp. 63-64. Calamai fu console a Buenos Aires dal ’72 al ’77 e, unico tra i diplomatici, si prodigò e rischiò personalmente per aiutare gli italiani perseguitati dai militari.
73 La notazione di un consultore il quale, sulla base della propria esperienza in Francia, argomentò che era indispensabile informare con cadenza settimanale gli emigrati, dato che i mensili “è difficile che plasmino una coscienza comunitaria; possono chiudere o aprire un gruppo su determinati problemi ma non coscientizzarlo [sic] sull’universale”, può dar l’idea del livello di astrazione che raggiungeva, negli stessi addetti ai lavori, il pervicace convincimento della capacità di condizionamento dei giornali, se non anche quello di un’assoluta equivalenza tra orientamenti della stampa e delle collettività all’estero. Cfr. Fmsie, Documentazione sui problemi cit., p. 165.
74 Fmsie, Documentazione sui problemi, cit., p. 140. Qui anche le citazioni successive.
75 Ibidem, p. 162.
76 Ibidem, p. 176.
77 La questione dei finanziamenti diretti e indiretti dello stato alla stampa italiana all’estero era annosa e già nella prima metà degli anni sessanta c’era chi all’interno del mondo dell’emigrazione stigmatizzava l’intromissione del governo, che “turba[va] la pace degli emigranti per perseguire i fini della sua politica economica”: Constantino Ianni, figlio di italiani radicatisi a São Paolo, commentando la notizia relativa ai 30 milioni spesi nel 1955 dall’Iri nel “tentativo di non far crollare il quotidiano in lingua italiana (sc. il Fanfulla) che si stampa in Brasile”, osservò che la presenza di questi fogli “coloniali” era in realtà dannosa, in quanto ostacolava l’integrazione. Cfr. Constantino Ianni, Il sangue degli emigranti, Salerno, Galzerano, 1996 [1965], p. 329 (per l’operazione dell’Iri cfr. Gian Passeri, Come vive un brasiliano?, “Cinema nuovo”, 9, 1 (1956), p. 10).
78 Fmsie, Documentazione sui problemi, cit., p. 154.
79 Nel 1971 a Roma lo riconobbe Arnold Orsatti, editore e direttore de “Il Popolo italiano” di Atlantic City, il quale però diede mostra di credere che una ripresa e un recupero fossero negli Stati Uniti in qualche misura ancora possibili, sostenendo che “se gli italiani riuscissero di nuovo a portare ad una tiratura alta almeno mezza dozzina delle loro pubblicazioni, avrebbero in Usa la stessa autorità, la stessa influenza e lo stesso potere degli irlandesi, dei tedeschi e degli ebrei”. Cfr. Fmsie, Atti del congresso mondiale, cit., p. 508.
80 P. Murialdi e N. Tranfaglia, I quotidiani negli ultimi vent’anni, cit., pp. 5-6.
81 Sui giornali associati alla Federazione comparvero note e articoli critici anche di una certa asprezza − “Oltreconfine” parlò ad esempio di “misere e indigeste briciole” −: se ne veda una rassegna in Fmsie, 1000 milioni ai giornali di lingua italiana all’estero. Note e commenti della stampa, Roma, s.e., 1976.
82 M. Colucci, Il voto degli italiani, cit., p. 609.
83 Sulle acquisizioni della Rizzoli in Argentina e sulle attività di Gelli e Ortolani in Sud America, cfr. Pino Buongiorno, La multinazionale del venerabile Licio in A. Barberi, P. Buongiorno [et al.], L’Italia della P2, cit., rispettivamente p. 119 e pp. 111-126.