Per una storia politica dell’Emigrazione

L’emigrazione fascista e neofascista nel secondo dopoguerra (1945-1985)

1. Premessa
Fino ad alcuni anni fa in una rassegna sull’emigrazione politica italiana l’inclusione di un saggio dedicato agli espatri dei fascisti dopo il 1945 e al ruolo da essi svolto all’estero, nelle comunità di connazionali, sarebbe probabilmente stata considerata una bizzarria.
Dei fascisti emigrati si erano infatti perse completamente le tracce già pochi anni dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, quando la vittoria democristiana del 18 aprile 1948 sancì la definitiva chiusura della resa dei conti con il fascismo in tutte le sue articolazioni legali e non (giustizia sommaria, processi per collaborazionismo, epurazione degli apparati dello stato). L’anticomunismo divenne la cifra dei nuovi governi centristi e l’antifascismo fu costretto sempre più sulla difensiva. Le responsabilità e le colpe individuali erano già state cancellate, in nome della pacificazione nazionale, dall’amnistia del giugno 1946; quelle collettive del paese durante il fascismo furono rimosse.
Negli anni cinquanta, le cronache della stampa italiana smisero di segnalare e denunciare la vera o più spesso presunta fuga di questo o quel gerarca verso uno dei paesi amici in Europa (Spagna e Portogallo) o in America (pour cause solo meridionale, dall’Argentina al Brasile). A destra, conclusa la breve stagione dell’autocommiserazione per le “persecuzioni”, giudiziarie e non, che costringevano molti camerati ad abbandonare loro malgrado la patria, fogli come “Il Tempo” o “Cronaca Italiana” potevano concedersi registri meno funerei, affidando magari a giornalisti a propria volta già epurati e poi prontamente reintegrati reportage tra il disincantato e il nostalgico sulla Repubblica di Salò trasferitasi in uno degli ospitali lidi sudamericani, la città di San Paolo in Brasile; oppure descrizioni giocate sul filo dell’ironia e del tragicomico della clandestinità dei repubblichini fuggiti a Roma dalle regioni settentrionali all’indomani della Liberazione1.
Storie come queste, di transfughi nostrani che avevano optato per un buen retiro all’ombra di regimi conniventi o intrapreso all’estero fortunate carriere imprenditoriali, erano poco adatte a solleticare l’interesse di un vasto pubblico. Assai meglio funzionavano le ricostruzioni più o meno fantasiose che romanzieri, scrittori di fantapolitica e giornalisti presero a dedicare, a partire dagli anni sessanta, alle misteriose trame dell’“Internazionale nera”, la rete di gruppi di estrema destra attivi in diversi paesi europei e sudamericani e teoricamente impegnati a fondare un Quarto Reich; o a quelle della mitica “Odessa”, l’organizzazione di ex SS creata per favorire la fuga in Sudamerica dei gerarchi di Hitler. In entrambi i casi i protagonisti indiscussi di quello che si rivelerà un filone fortunatissimo erano i criminali e i gerarchi nazisti, sfuggiti alla cattura, come Mengele e Eichmann; o presunti redivivi, come Bormann, e i fascisti vi figuravano come comparse o poco più2.
Questa produzione d’evasione e giornalistica, presentando la questione dell’esodo nazifascista esclusivamente in termini di fughe di criminali di guerra, ha in qualche modo condizionato e frenato la stessa ricerca storiografica sull’argomento. Ha infatti reso difficile annoverare tali espatri tra le migrazioni politiche, associate invariabilmente dagli studiosi all’immagine dell’esule e ai tratti democratici che ne hanno connotato la figura dall’Ottocento in avanti.
Nel caso italiano, dopo le partenze determinate, dagli anni venti del secolo XIX, dal fallimento dei moti risorgimentali, nella fase della “grande emigrazione” il grosso degli espatri politici fu formato da militanti socialisti e anarchici; negli anni venti e trenta a queste componenti si aggiunsero i comunisti e il resto dell’esilio provocato dal nazifascismo (cattolici, repubblicani, democratici di ogni tendenza, ebrei). I caratteri propri dei tre periodi sono stati trasferiti alla storia dell’emigrazione tout court, riconducendo necessariamente ad ideali e valori “progressisti”, se non rivoluzionari, la scelta di chi non va all’estero per sfuggire alla miseria o per cercare opportunità migliori.
Di conseguenza, le partenze dei fascisti, che si sentivano in pericolo o non in sintonia con istituzioni democratiche, furono ritenute una contingenza criminale, estranea alle migrazioni politiche. Essi sarebbero cioè fuggiti in gran fretta in Sudamerica perché condannati dai tribunali (e dunque latitanti); o per il timore di essere individuati e di dover pagare per i delitti commessi: all’origine della decisione ci sarebbe stata in ogni caso una colpa, accertata o da accertare.
Un ragionamento siffatto è oltremodo schematico e si fonda su una visione senza sfumature e gradazioni delle responsabilità, inapplicabile a regimi come quelli fascista e nazista, che fino all’ultimo godettero di ampi consensi. Esso interpone altresì una barriera insuperabile tra i criminali e chi si recava all’estero per lavoro: esclude cioè l’esistenza, nel frangente postbellico, di quei nessi tra motivazioni politiche ed economiche che si trovano sempre alla base delle migrazioni e diventano centrali nel Novecento, quando l’importanza numerica degli esuli cresce, rendendo ancora più arduo separare nettamente élite politicizzate e masse di lavoratori.
Sono state per prime alcune ricerche di nuova impostazione sull’emigrazione dei nazisti a mostrare come in realtà anche all’interno di questo gruppo le due categorie non siano sempre perfettamente distinguibili e gli espatri per motivi economici si confondano con quelli per motivi politici. Una serie di lavori condotti sia negli archivi tedeschi che in quelli della principale destinazione sudamericana, l’Argentina, ha permesso in primo luogo di arrivare ad una approssimazione quantitativa sul numero effettivo di criminali che si rifugiarono all’estero, specie in America latina, sgombrando il terreno dalle ipotesi inverosimili circolate in passato, che volevano quei paesi letteralmente invasi da migliaia di nazisti in fuga3.
Nello stesso tempo, studiando i meccanismi di espatrio ed in particolare il ruolo di figure come il vescovo Alois Hudal4, rettore del Collegio germanico di S. Maria dell’Anima a Roma e membro della Pontificia Commissione di Assistenza, che aiutò numerosi criminali a riparare oltreoceano fornendo loro documenti e visti, si è concluso che dalla Germania e dall’Austria non fuggivano solo coloro che temevano di essere catturati e processati. Tanti tedeschi e austriaci che si rivolsero a Hudal, infatti, non erano responsabili di crimini, pur essendo stati nazisti ed avendo magari anche combattuto nelle armate hitleriane: dalle lettere si deduce che erano obbligati a lasciare l’Europa per la mancanza di prospettive nei loro paesi, a causa delle distruzioni provocate dai bombardamenti ma anche delle misure introdotte dagli Alleati, che impedivano l’assunzione di chi era stato iscritto al partito di Hitler5.

2. L’emigrazione fascista
Nel caso italiano è stato proprio a partire dall’analisi del contesto postbellico, più che non dalla schedatura dei criminali di guerra (anche perché, per i motivi che si diranno, il contingente era nella fattispecie assai esiguo), che si è giunti ad un diverso approccio all’esodo dei fascisti: da un’ottica limitata alla ricostruzione delle singole vicende dei gerarchi costretti a fuggire perché latitanti, ad una prospettiva più ampia e attenta a rintracciare le componenti politiche nell’emigrazione dalla penisola che riprese subito dopo la guerra6.
In particolare, studi fondamentali realizzati soprattutto negli anni novanta sul periodo ’43-’48 in Italia hanno approfondito per un verso i tratti di guerra civile assunti dalla Resistenza; e per l’altro gli accadimenti successivi alla Liberazione nelle regioni centro-settentrionali dove l’occupazione tedesca e il regime di Salò erano stati particolarmente feroci: qui, dopo l’esplosione di violenza dell’aprile del 1945 che causò migliaia di vittime (stimate tra le 8000 e le 10000), si verificarono episodi di giustizia sommaria ai danni di ex fascisti almeno per tutto il 19467.
All’incirca per un triennio, fino alle elezioni dell’aprile del 1948, ci furono persone che per l’appoggio diretto che avevano dato al fascismo e, più spesso, al Mussolini repubblicano di Salò, o per la loro fede politica, continuarono a sentirsi in pericolo, subirono o temettero di subire vendette private, oppure semplicemente, lo si è visto per i nazisti, non riuscirono a trovare lavoro. Il contesto postbellico si configurò dunque, sia pure per un periodo circoscritto, come un contesto “di espulsione”, e come hanno confermato recentemente numerose testimonianze di emigrati (c’è chi per esempio ha ammesso di aver dormito fino alla partenza con la pistola sotto il cuscino) anche dall’Italia se ne andarono per motivi in tutto o in parte politici persone che non avevano commesso crimini o avevano responsabilità minime8.
Se neppure i fascisti sfuggirono alla regola che vuole la parte sconfitta di ogni guerra civile obbligata a lasciare il suo paese, fu per simili ragioni, essenzialmente extra-giudiziarie. A differenza di quanto accadde dopo il 1945 in Germania e in paesi dove erano sorti regimi collaborazionisti come la Francia, infatti, in Italia sia la punizione dei crimini fascisti nei tribunali che l’epurazione dell’amministrazione dello stato si conclusero rapidamente e si risolsero in un fallimento.
In parte quella che è stata definita un’anomalia nel quadro europeo derivò dal fatto che l’Italia al momento dell’armistizio aveva acquisito lo status di cobelligerante9: la nuova classe dirigente poté valersene per impedire una “Norimberga italiana”, ovvero per evitare i processi a carico dei responsabili dei crimini perpetrati dall’esercito italiano in Grecia e in Jugoslavia tra il 1940 e il 1943, continuando nello stesso tempo a reclamare la cattura dei nazisti autori degli eccidi e delle stragi contro i civili in Italia, ma non dei repubblichini che erano stati in molti casi loro complici10.
In parte essa fu dovuta al tanto discusso provvedimento di amnistia voluto da Togliatti per facilitare la riconciliazione nel paese e promulgato all’indomani del referendum che sancì la vittoria della Repubblica, nel giugno del 1946. Ad appena un anno e poco più dalla Liberazione, con largo anticipo rispetto alla Francia, l’Italia considerò liquidato il fascismo e fece uscire dalle carceri circa 10000 dei 12000 fascisti che vi erano detenuti, non esclusi i maggiori responsabili a livello politico e militare della guerra, e numerosi autori di crimini efferati11.
A queste tre circostanze – giustizia sommaria per effetto della guerra civile, mancata punizione dei crimini fascisti ed amnistia estremamente generosa e precoce – si legano in larga misura le caratteristiche e le modalità di svolgimento dell’esodo dei fascisti.
Per effetto dell’amnistia – che fu paradossalmente all’origine di numerose partenze, perché chi veniva scarcerato rischiava di incorrere in vendette private – esso fu infatti quasi esclusivamente legale, e si mescolò e confuse con l’emigrazione per lavoro, sfruttando gli stessi canali. Che erano poi molto spesso canali privati, dato il peso quantitativo che aveva avuto tradizionalmente, e in pratica fino all’entrata in guerra dell’Italia nel 1940, nonostante le restrizioni fasciste da un lato e quelle americane (in particolare statunitensi) dall’altro, l’emigrazione nella storia italiana. Furono cioè le reti di relazioni con parenti, conoscenti o compaesani installatisi all’estero in precedenza o rientrati dopo periodi trascorsi fuori d’Italia; e le informazioni sulle possibili destinazioni e gli aiuti concreti per soddisfare le richieste dei paesi di arrivo (atti di chiamata, contratti di lavoro) che costoro mettevano a disposizione, a permettere anche ai fascisti di partire.
Espatri autogestiti, dunque, con una quota assai ridotta di fughe di latitanti, visto che come detto tanti colpevoli di gravissimi reati erano stati scarcerati e tanti altri non erano stati neppure indagati e processati; e con un’incidenza relativa anche (o di conseguenza) delle reti politiche più o meno strutturate di appoggio alle fughe e della stessa chiesa cattolica, che è ben noto in figure come il citato vescovo Hudal non fu aliena da grosse responsabilità e consentì a numerosi criminali nazisti di raggiungere il Sudamerica.
Nel caso italiano la chiesa svolse un ruolo importante nel proteggere i repubblichini in patria nella fase più acuta delle vendette, nelle prime settimane dopo la Liberazione; assai minore per quanto riguarda invece l’aiuto fornito a chi doveva espatriare. Nell’uno e nell’altro ambito, non bisogna pensare ad una regia o ad un piano di interventi ideato dalle gerarchie vaticane e volto ad assicurare la salvezza dei fascisti. Ciò non toglie che singoli conventi o istituti religiosi ricoprirono una funzione chiave in tal senso, nascondendo criminali e latitanti per mesi e talvolta per anni, vuoi perché si trovavano in una posizione strategica dal punto di vista geografico, vuoi perché a dirigere le strutture erano figure di religiosi ben disposti. In qualche circostanza, non sempre, questo era sinonimo di schierati dalla parte dei fascisti e motivati sul piano ideologico. Se non mancarono preti e prelati che in nome dell’anticomunismo ritennero giustificati l’ospitalità offerta ai gerarchi e anche gli aiuti ai criminali, altri furono complici solo per malinteso spirito di carità cristiana: come traspare da diari e testimonianze scritte, alcuni rettori di conventi che, pur conoscendone se non le gesta la carriera, diedero rifugio a fascisti e repubblichini consideravano queste presenze assai poco gradite12.
Gerarchi come Cesare Maria De Vecchi e Luigi Federzoni espatriarono quando ancora erano ricercati dalla giustizia (l’amnistia avrebbe presto sanato le loro posizioni), grazie ai documenti falsi e alla protezione dei salesiani. Il primo si trasferì in Argentina, dopo una lunga serie di peripezie e dopo aver corso notevoli rischi in Italia; e il secondo in Brasile, anche se di lì a poco tempo, quando trapelò sulla stampa locale la notizia della sua venuta, ritenne più sicuro spostarsi a propria volta a Buenos Aires13.
Chi non godeva di appoggi analoghi nelle alte sfere di ordini e congregazioni religiose o dello stesso Vaticano, e dovette accontentarsi dell’aiuto del clero in cura d’anime, spesso incontrò difficoltà ben maggiori per fuggire all’estero. Così fu per Bruno Piva, un ex capitano della Guardia nazionale repubblicana condannato a trent’anni di carcere, che si nascose per due anni in un istituto religioso in provincia di Varese, e quindi scappò in Svizzera. Qui si vide presto costretto a cercare un’altra soluzione, dal momento che gli elvetici, se non estradavano né espellevano i fascisti latitanti, non erano affatto disposti a concedere loro asilo politico e anzi facevano in modo di allontanarli prima possibile dalla Confederazione. Piva fu aiutato a quel punto nuovamente dai cappuccini di Friburgo, la città dove era andato a risiedere, e tuttavia impiegò oltre un anno per procurarsi il passaporto, il visto di espatrio e i soldi necessari a pagare il biglietto suo e dei famigliari per la nave che nel 1951 lo porterà in Argentina; inoltre dovette rivolgersi anche ad ambienti extrareligiosi, e in particolare alle autorità svizzere, e a camerati già espatriati.
Nel suo caso non intervenne la principale organizzazione che operò nel dopoguerra a favore dei fascisti: il Movimento italiano femminile (Mif), fondato alla fine del 1946 a Roma dalla principessa Maria Pignatelli di Cerchiara. Simile non tanto alla fantomatica Odessa delle SS, quanto semmai ad associazioni per l’assistenza ai detenuti politici nate in Germania più tardi, perché fino al 1948 durò l’occupazione alleata, il Mif si occupò principalmente di soccorrere i fascisti ancora in carcere con aiuti materiali e fornendo loro avvocati che ne seguivano le cause nei tribunali. Legalmente costituito e dotato di statuto dopo una clandestinità di breve momento vissuta peraltro al riparo dei palazzi vaticani, diretto e gestito da donne appartenenti in maggioranza alla nobiltà nera romana e meridionale, il movimento si organizzò rapidamente ed aprì sedi un po’ in tutta Italia, destinando più risorse ed energie a quelle prossime ai penitenziari in cui erano concentrati i fascisti.
Si ramificò inoltre quasi subito all’estero, in Europa (Spagna) e in America latina (Brasile e poi Argentina soprattutto), in questo secondo caso anche perché sia la principessa che il marito, Valerio Pignatelli, avevano rapporti di amicizia con esponenti illustri delle collettività italiane in Sudamerica, come i membri della famiglia di imprenditori italobrasiliani Matarazzo, che al pari di altri notabili – a riprova di una consuetudine di relazioni che la breve parentesi bellica non aveva spezzato – si mobilitarono spontaneamente per finanziare un’associazione considerata una sorta di succedaneo della causa fascista in cui avevano creduto.
Ma la scelta di allargarsi fuori d’Italia fu legata anche alla necessità di reperire risorse per le attività di assistenza nella penisola e appoggi oltreoceano per i camerati che si rivolgevano all’organizzazione. Come emerge infatti dalle lettere conservate nell’archivio creato dalla stessa fondatrice del Mif, non pochi chiedevano aiuto per espatriare, essendo in difficoltà o senza lavoro per i loro trascorsi durante il ventennio o per aver combattuto nelle milizie di Salò14. La Pignatelli, pur riluttante – riteneva l’emigrazione dannosa per il paese, a maggior ragione se ad andar via erano esponenti della sua parte politica – si attivò per facilitare gli espatri e trovare sistemazioni e impieghi, dalla Spagna, dove era in contatto con il gruppo femminile della Falange, al Venezuela, dal Brasile all’Argentina. La meta più richiesta da chi voleva emigrare era di gran lunga quest’ultima, tanto che la segretaria del Mif pensò di rivolgersi addirittura al presidente argentino Juán Domingo Perón e approfittò di un viaggio in Italia nel 1947 della consorte Eva Perón per fargli pervenire un messaggio e raccomandargli i camerati in procinto di trasferirsi al Plata.

3. I fascisti italiani in Argentina
Il favore con cui la destra neofascista e il suo partito di riferimento, il Movimento sociale italiano, guardavano al regime peronista e le speranze che riponevano nel suo progetto politico di “terza via” tra il capitalismo americano e il comunismo sovietico furono in realtà solo uno dei motivi per cui l’emigrazione fascista nel dopoguerra privilegiò l’Argentina; e probabilmente non il principale. Più importanti furono infatti due diversi ordini di fattori, legati gli uni all’attrazione che il paese sudamericano esercitava in generale agli occhi degli italiani; e gli altri ai vantaggi specifici che offriva rispetto alle destinazioni alternative per nostalgici e repubblichini.
Tra i primi si possono indicare la florida situazione economica della Repubblica del Plata all’indomani della fine del conflitto, in cui era entrata solo a cose fatte e controvoglia, dichiarando guerra alla Germania nel marzo del 1945; l’apertura di una politica immigratoria che, pur tra contraddizioni dovute alla presenza di tendenze divergenti all’interno del governo, puntava ad attirare manodopera qualificata e imprese con operai al seguito e collocava tra l’altro gli italiani al primo posto tra i gruppi nazionali preferiti (gradimento che trovò pronta traduzione nell’accordo di emigrazione tra i due paesi firmato nel febbraio del 1947); la tradizione, infine, che vedeva l’Argentina seconda solo agli Stati Uniti nelle Americhe per numero di arrivi complessivo dalla penisola: il che significava non solo immagine positiva dello stato sudamericano, ma anche reti di relazioni che gli italiani mantenevano con famigliari e compaesani emigrati in passato e che fu facile riattivare e sfruttare al termine della guerra. Il risultato fu che metà degli emigrati tra il 1947 e il 1951 scelse il Plata.
A tutto ciò bisogna aggiungere per i fascisti innanzitutto il problema del momento dell’espatrio. È chiaro che più di altri essi avevano urgenza di allontanarsi dall’Italia, perché non si sentivano al sicuro o addirittura vivevano in clandestinità e non potevano lavorare. Nello stesso tempo però le opzioni a loro disposizione non erano tante. In Europa, la vicina Svizzera adottava da sempre una politica immigratoria restrittiva, e inoltre, come detto, cercava di impedire in tutti i modi ai rifugiati fascisti di stabilirsi nel paese. In effetti nella Confederazione, che aveva accolto un flusso eterogeneo ma consistente di industriali compromessi col regime e gerarchi dopo il 25 luglio e soprattutto dopo l’8 settembre, al momento della Liberazione i nuovi ingressi furono pochissimi15. In stati come il Belgio e la Francia, con cui l’Italia aveva stipulato accordi di emigrazione rispettivamente nel 1946 e nel 1947, c’era il motivato timore di non essere accolti bene, in particolare nella Francia che Mussolini aveva aggredito nel giugno del 1940. In Spagna simili rischi non c’erano, però anche le attrattive erano scarse, vista la situazione economica certamente non florida del paese, che infatti rimase per i successivi trent’anni e oltre un paese essenzialmente di emigrazione. Restavano le Americhe. Tuttavia in quella del Nord Canada e Stati Uniti non solo mantennero in vigore le restrizioni introdotte a partire dagli anni venti, che riservavano agli italiani una quota assai ridotta di ingressi, ma selezionavano gli immigrati anche sulla base dei loro trascorsi politici, scartando gli ex fascisti almeno fino alla metà degli anni cinquanta, quando la discriminante cadde.
Inoltre, per i latitanti che non volessero tentare l’avventura dell’emigrazione illegale erano oggettivamente impraticabili pure altre soluzioni sudamericane, come il Brasile: l’Argentina era infatti l’unico stato che accettava i passaporti per apolidi della Croce rossa internazionale, gli unici che costoro potevano procurarsi. Ad agevolare l’arrivo al Plata di chi era ricercato dalla giustizia fu pure il fatto che, al di là delle contraddizioni della politica immigratoria del primo peronismo, la gestione concreta fu caotica, anche a causa dei carichi di lavoro imposti agli uffici; inoltre fu lasciata una ampia discrezionalità ai funzionari; e non mancarono arbitri ed episodi di corruzione: pratiche tutte che chiaramente davano margini di manovra a quanti, fascisti o meno, non avevano la documentazione in regola e quindi dovevano ricorrere a conoscenze, a pressioni o al denaro16.
Premesso che sarebbe stato molto difficile evitare gli ingressi di ex nazisti e fascisti in ogni caso, ovvero anche in presenza di una forte volontà politica in tal senso, perché i soli immigrati italiani dal 1947 diventarono decine di migliaia, va detto che il regime peronista si premurò di bloccare esclusivamente le cosiddette infiltrazioni dei sovversivi, gli affiliati dei vari partiti comunisti, e cercò dunque di individuarli pure tra gli italiani in partenza attraverso indagini informali dei funzionari consolari presso partiti come la Dc e il Msi, per impedire che si imbarcassero per l’Argentina.
A preoccuparsi assai dell’arrivo oltreoceano dei fascisti erano invece gli esuli antifascisti, che protestavano sui loro fogli per una scelta considerata suicida da parte dei governi della neonata democrazia, ma anche i funzionari delle ambasciate italiane, che dall’Argentina e soprattutto dal Brasile – dove si stabilirono in buon numero gerarchi amnistiati o entrati con documenti falsi, concentrandosi soprattutto a San Paolo – telegrafavano a Roma le proprie perplessità al riguardo. A loro avviso i vari Mussolini (Vittorio, figlio del duce) e Parini, Grandi e Federzoni rischiavano di compromettere la faticosa opera di pacificazione e riassorbimento delle divisioni tra fascisti ed antifascisti che i diplomatici stavano conducendo nelle collettività. In Italia questi timori non furono recepiti o comunque non si provvide a bloccare gli espatri dei gerarchi, che del resto in alcuni dei casi segnalati erano avvenuti in forma illegale: Vittorio Mussolini aveva viaggiato travestito da prete, ed era entrato in Argentina con un passaporto falso.
In realtà l’effetto paventato non si produsse o fu limitato, anche perché i nuovi arrivati si dedicarono poco o punto all’attività politica, per scelta – come nel caso del citato Bruno Piva, che visse in Argentina dal 1951 all’inizio degli anni ottanta e non volle più avere nulla a che fare con gli ex camerati –; o perché si trovarono costretti a guadagnarsi da vivere, a conferma ulteriore della contiguità tra emigrazione politica e da lavoro, sia in partenza che a destinazione.
L’ex capo provincia di Milano durante la Rsi Piero Parini, scrivendo probabilmente nel 1947 da Buenos Aires alla segretaria del Mif, che lo aveva contattato per chiedergli di collaborare con l’associazione, le spiegava di essere tutto assorbito dal lavoro nella sua azienda metallurgica: l’urgenza dell’inserimento nel nuovo paese gli impediva di impegnarsi più attivamente per la raccolta di fondi e poi, faceva capire, c’erano incomprensioni e dissidi con i notabili della colonia che in passato avevano appoggiato il fascismo; e non andava meglio con gli esuli arrivati come lui da poco.
Lamentavano difficoltà analoghe anche altri corrispondenti della principessa, e in particolare Francesco Di Giglio, direttore a Buenos Aires del foglio fascista “Risorgimento”, che attraverso il giornale promosse una colletta cercando di coinvolgere anche i camerati in Brasile per aiutare i detenuti nella penisola, ma si scontrò a propria volta con il disinteresse di quasi tutti i fascisti più forniti di mezzi delle due collettività; i quali a suo giudizio pensavano solo agli affari o, nel caso dei gerarchi giunti dopo la guerra, a godersi i soldi portati dall’Italia.
In realtà il quadro non era così fosco. Di Giglio raccolse alla fine una discreta somma, che inviò in parti uguali al Mif e al Msi e il fatto che numerosi documenti di polizia italiani parlino di finanziamenti al partito della destra neofascista provenienti dall’Argentina negli anni cinquanta indica che oltreoceano qualcuno che sosteneva la causa ancora c’era17. Inoltre lo stesso direttore del “Risorgimento” ammetteva che in Cile resisteva un gruppo di camerati ben attivo, che tra l’altro distribuiva un suo giornale. Anche il citato Parini continuava, quantomeno, a intervenire sui fogli dei nostalgici in Argentina e, come provano i carteggi tra i membri del Mif e i riferimenti contenuti nelle lettere che i fascisti rimasti in patria scambiavano con quelli residenti al Plata18, le varie testate pubblicate in Cile, Argentina e Brasile erano lette in Italia e tenevano vivo un minimo di dibattito e confronto tra le due sponde dell’oceano. Proprio la stampa fu uno dei terreni in cui la presenza dei gerarchi e dei repubblichini arrivati dopo il 1945 fu più significativa, sia a Buenos Aires che a San Paolo, anche perché parecchi di loro non mancavano di esperienza nel settore. Alcuni si inserirono nelle redazioni dei giornali già editi, altri ne crearono di nuovi: così l’ultimo segretario del Partito nazionale fascista, Carlo Scorza, che nel 1950 fondò nella capitale argentina un periodico per cui lavorarono anche collaborazionisti belgi e francesi, “Dinámica social”.
Semmai la situazione dei fascisti appariva meno florida nell’altro settore fondamentale della collettività italiana, il mondo delle associazioni. Da oltre due decenni il movimento fascista in Argentina ruotava attorno alla figura di Vittorio Valdani, ingegnere ed ex manager della Pirelli, quindi imprenditore di grande successo, il quale aveva rifondato il Fascio di Buenos Aires nel momento della crisi peggiore, dopo l’assassinio di Matteotti nel 1924, e poi sostenuto generosamente durante il ventennio e fino alla Rsi giornali e associazioni19. Ma il crollo del regime aveva messo in crisi dopo il 25 luglio tutte le sezioni dei Fasci e del Dopolavoro, nonché le altre istituzioni che il fascismo aveva creato o di cui si era impadronito, peraltro faticosamente e mai completamente per quanto riguarda alcune delle più importanti, tanto che Mussolini si sentì sempre poco amato dagli italiani d’Argentina.
Anche gli antifascisti e i democratici in genere, a cominciare da quello che fu forse il loro leader più rappresentativo nel secondo dopoguerra, l’esponente dell’associazione Italia libera Ettore Rossi, erano persuasi che, date queste premesse, fosse sufficiente un’opera paziente di convincimento per indurre i pochi estremisti della parte avversa a lasciare le cariche, far rinsavire i molti che avevano creduto in buona fede che il fascismo avesse guadagnato all’Italia prestigio e potenza e riconquistare così un’istituzione chiave come la Federazione delle società italiane in Argentina, per far ripartire di lì l’intera macchina dell’associazionismo, che si auspicava sarebbe tornato ai fasti del passato anche perché era sicuro che dall’Italia sarebbe presto ricominciata l’emigrazione verso il Plata.
In realtà l’unica previsione che si rivelerà esatta sarà proprio quest’ultima: in Argentina giungeranno infatti fino alla fine degli anni cinquanta oltre 400.000 italiani, estrema ondata di un flusso iniziato negli anni venti dell’Ottocento20. Per il resto, Rossi si sbagliava sulla rinascita delle società italiane, perché – come spesso accade a chi vive all’estero per decenni e congela nel ricordo il paese di partenza – non immaginava che gli italiani che presero a sbarcare in massa dal 1947 fossero per molti aspetti diversi dai connazionali residenti al Plata da quindici, venti o più anni. I nuovi immigrati avrebbero creato loro associazioni, invece di aderire a quelle storiche della collettività; e puntato in prevalenza su società a base regionale, più che nazionale, o su sodalizi che non avevano finalità mutualistiche (rese obsolete dall’impianto dei sistemi sanitario e previdenziale pubblici) ma ricreative e sportive.
Questa distanza tra gli italiani arrivati dopo il 1945 e la collettività di connazionali in Argentina finì paradossalmente per andare a vantaggio della sua componente democratica, dal momento che in realtà, anche in questo caso contro le attese e le speranze di Rossi, i fascisti conservarono il controllo delle vecchie istituzioni. In particolare rimasero alla testa della Federazione delle società italiane in Argentina, ribattezzata Feditalia nel 1954, e nella prima metà degli anni cinquanta le conquistarono, se non più adesioni, dato che i sodalizi in mano agli antifascisti continuarono a rimanere fuori, quantomeno una notevole visibilità, grazie all’abbraccio con Perón.
Un primo avvicinamento si ebbe nel 1951, per intercessione del presidente della Federazione, quel Luis Giusti che durante la guerra Valdani aveva messo alla guida dei Fasci e delle sezioni del Dopolavoro di Buenos Aires e che secondo l’ambasciata italiana lavorava alle dipendenze ed accedeva a fondi del governo peronista. Ma la manovra prese corpo decisamente solo nel 1954, quando la dirigenza della Federazione era ormai tutta formata da repubblichini e fascisti giunti dopo la guerra, con l’ex ministro del Lavoro della Rsi Giuseppe Spinelli alla presidenza. In occasione del nuovo congresso delle società italiane, Perón pronunciò un discorso nella giornata inaugurale, sottolineando l’importanza del contributo degli italiani in Argentina e facendo riferimento alla “latinità” come minimo comun denominatore tra argentini e italiani. Il richiamo si inseriva in una strategia ben precisa del governo, che anche perché in crisi di consensi stava cercando di recuperare terreno inglobando nel partito peronista le comunità straniere (e in primis quella italiana, con la spagnola la più importante) e aveva da poco creato a tale scopo il Movimiento peronista de los extranjeros. Per guadagnare alla causa peronista gli immigrati, era necessario però prima farli diventare cittadini argentini e infatti negli stessi mesi era in discussione il regolamento attuativo della nuova legge sulla nazionalizzazione “semiautomatica” (cioè con diritto di rinunciarvi su richiesta) degli stranieri dopo 5 anni di residenza in Argentina.
La destituzione di Perón nel 1955 vanificò l’intera operazione, che per i repubblichini costituì ad ogni modo una sorta di investitura e legittimazione a rappresentare la collettività italiana, di cui anche l’ambasciata prese atto. In parte il ruolo che i fascisti si ritagliarono – consacrato nel 1961 dalla presenza di Carlo Scorza nel comitato per le accoglienze al presidente della Repubblica Giovanni Gronchi in visita a Buenos Aires21 – derivò dalla loro rinuncia alle posizioni intransigenti, a favore di una più neutra difesa dell’“italianità”; in parte fu il segno dell’arretramento del fronte democratico nella comunità. È probabile peraltro che, come accennato, la massa dei nuovi immigrati fosse lontana da questo tipo di contese. Lo stesso Ettore Rossi se ne era accorto per tempo e nel 1949 aveva fondato un settimanale, “Il Corriere degli italiani”, che fu trasformato nel 1954 in un quotidiano letto e apprezzato anche fuori dall’Argentina e che fino alla morte prematura del direttore nel 1960 affrontò sulle sue pagine questioni che stavano assai più a cuore agli emigrati dell’ondata postbellica, dal costo degli affitti e delle case, alle rimesse e ai ricongiungimenti famigliari.

4. Stefano Delle Chiaie e gli altri: eversione nera ed emigrazione negli anni settanta
Mentre per gli espatri dei terroristi rossi italiani dagli anni settanta fino ai giorni nostri (ultimo il caso dell’ex membro dei Proletari armati per il comunismo Cesare Battisti) un paese – la Francia – e una città – Parigi – sono chiaramente identificati come luogo di destinazione e rifugio, con poche eccezioni, tanto che la capitale francese, al tempo della “dottrina Mitterand”, diventò sede di una vera e propria colonia22, per i militanti dell’eversione nera che all’incirca negli stessi anni fuggirono dalla penisola ci troviamo di fronte ad una geografia molto più complessa, con una varietà di percorsi, e con soluzioni individuali in qualche caso del tutto anomale anche rispetto alle rotte dell’emigrazione italiana in generale. L’esponente di Ordine nuovo Delfo Zorzi, che sarà successivamente coinvolto nelle indagini sulle stragi di Piazza Fontana (1969) e Peteano (1972), si trasferì per esempio in Giappone nel 1974. Mete principali furono comunque la Spagna in Europa; e un gran numero di paesi in America centrale e meridionale, dal Costarica a Santo Domingo, dal Brasile al Paraguay, dalla Bolivia all’Argentina e al Cile23.
A ben vedere però anche qui al caleidoscopio di approdi corrispondono un paio di direttrici fondamentali, che forse si possono addirittura ridurre ad una sola, perché dopo una prima fase o tappa in Europa, dove intorno alla metà degli anni settanta la Spagna diede rifugio a decine di militanti, dalla seconda metà del decennio in poi il grosso dei rifugiati si spostò o emigrò direttamente oltreoceano e in pratica l’intera America latina divenne l’area di destinazione preferita. Si assistette cioè ad una sorta di cambio della guardia, dovuto all’evoluzione del quadro politico di qua e di là dell’Atlantico.
Se si osserva da vicino la cronologia degli espatri, peraltro, l’impressione è di nuovo di una fuga alla spicciolata, conseguenza del coinvolgimento individuale in inchieste giudiziarie e processi per le stragi. Così i due esponenti di Ordine nuovo Franco Freda e Giovanni Ventura fecero perdere le loro tracce a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, rispettivamente nell’ottobre del 1978 e nel gennaio del 1979, mentre era in corso a Catanzaro il quarto processo per la strage di Piazza Fontana che li vedeva imputati assieme a Guido Giannettini, a propria volta già fuggito a Parigi nel 1973, al momento della prima incriminazione, e a due uomini del Sid, il Servizio informazioni difesa, Gian Adelio Maletti e Antonio Labruna. Sia Freda che Ventura furono poi arrestati nell’agosto del 1979, il primo in Costarica (sarà estradato) e il secondo in Argentina, per possesso e uso di documenti falsi (rimarrà in carcere a Buenos Aires fino all’agosto del 1985)24.
È sicuro comunque che un flusso consistente di militanti e anche dirigenti dei gruppi responsabili della prima fase dello stragismo – Ordine nuovo e Avanguardia nazionale – si produce in corrispondenza dello scioglimento dello stesso Ordine nuovo (1973) e con l’avvio dei primi processi per le stragi di Milano, Peteano, Brescia, e dell’espresso Italicus, che tra 1969 e 1974 provocarono decine di morti. È il momento, la seconda metà degli anni settanta, in cui in Italia è in atto una radicalizzazione delle formazioni armate sia dell’estrema destra che dell’estrema sinistra, che sfocia in uno stillicidio di episodi di violenza e anzi, secondo qualcuno, in una “guerra civile strisciante”25.
Sui meccanismi di espatrio non sussistono in molti casi dubbi. In sede giudiziaria e storica è ormai acquisito che uomini appartenenti a strutture “deviate” dei servizi segreti non ostacolarono e anzi utilizzarono e protessero gruppi della destra eversiva, dopo averli del resto abbondantemente infiltrati, depistando le indagini sulle stragi e favorendo la fuga degli indiziati in procinto di essere arrestati o in attesa di giudizio26. Regia unica ma percorsi individuali, dunque, in cui certamente a destinazione giocò un ruolo la rete di rapporti personali con i membri di vari gruppi e gruppuscoli di neofascisti europei e non27 o l’appoggio di agenti di altri paesi (come quelli della Dina – Dirección de inteligencia nacional –, la polizia segreta cilena che coprì la latitanza in Spagna dell’ex deputato missino e collaboratore dei servizi Sandro Saccucci); al momento della partenza tuttavia furono quasi sempre decisivi i servizi di sicurezza italiani, che fornirono soldi e documenti falsi e talvolta organizzarono direttamente la fuga. Furono messi in salvo in questo modo ex confidenti o personaggi che avevano operato come infiltrati alle dirette dipendenze delle strutture deviate, come il già citato Guido Giannettini e Marco Pozzan, fatti espatriare dal Sid in gran fretta perché raggiunti dalle indagini sulle stragi. Sono modalità di intervento non inedite, basti pensare al salvataggio nel dopoguerra di fascisti che potevano tornare utili nella lotta al comunismo, come Junio Valerio Borghese; e alle analoghe procedure dei servizi americani per far fuggire attraverso la “via dei topi” i criminali nazisti utilizzati allo stesso scopo. Il principale regista di queste operazioni nell’Italia degli anni settanta, il capo del controspionaggio del Sid Gian Adelio Maletti, dopo essere stato arrestato nel 1976 nell’ambito delle indagini sui depistaggi e il ruolo dei servizi nella strage di Piazza Fontana, si rifugiò a propria volta in Sudafrica28.
Una peculiarità di questa emigrazione nera è senza dubbio costituita dal fatto che se molti una volta all’estero si dedicarono ad altre attività, per alcuni la fuga non significò abbandono della lotta armata perché entrarono a far parte di gruppi di estrema destra (Spagna) o si misero direttamente al servizio delle dittature militari latinoamericane (Cile, Argentina e Bolivia).
In Spagna, tra il 1974 e il 1976-77, nella fase convulsa della transizione postfranchista, ripararono decine di militanti di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale implicati nelle inchieste sulle trame nere. Li aveva preceduti il leader di quest’ultima formazione, Stefano Delle Chiaie, latitante all’estero da quattro anni, sempre a quanto pare grazie al Sid, che lo avrebbe ospitato a Roma, procurandogli poi documenti falsi e biglietto aereo per il viaggio. Non pochi italiani furono attivi nella controguerriglia ai danni della resistenza basca, ma anche protagonisti di azioni condotte per conto dei servizi spagnoli in altri paesi (per esempio in Francia, contro militanti dell’Eta). Il 9 maggio 1976 numerosi rifugiati, tra cui lo stesso Delle Chiaie, Giuseppe Calzona, Augusto Cauchi e Mario Ricci, parteciparono agli scontri di Montejurra in Navarra, dove centinaia di neofascisti armati assaltarono un gruppo di Carlisti, la componente democratica dei legittimisti spagnoli, provocando due morti e decine di feriti29.
Alcuni dei responsabili italiani, soprattutto ordinovisti, furono successivamente espulsi dalla Spagna (per esempio il citato Marco Pozzan, che si era rifugiato lì nel 1972, mentre era in libertà vigilata, grazie al Sid); altri, come Cauchi e Delle Chiaie, emigrarono in America latina (Cauchi sarà arrestato nel 1993 in Argentina; le autorità negheranno il visto per l’estradizione e dopo due anni lo rimetteranno in libertà). Scelta quest’ultima dettata dal fatto che proprio mentre in Europa si chiudevano le esperienze dei regimi autoritari nella penisola iberica e in Grecia, oltreoceano, in particolare nei paesi del Cono Sur, iniziava la stagione sanguinosa delle dittature militari, che in un breve arco di anni conquistarono il potere in Brasile, Cile, Argentina, Uruguay, Bolivia e Perù avviando una spietata politica di repressione degli oppositori sul fronte interno, e coordinandosi anche a livello internazionale in un piano, voluto e diretto dalla Cia, conosciuto come “Operazione Condor”, che mirava a destabilizzare gli stati in cui erano al governo o in procinto di arrivarci partiti di sinistra, forniva appoggio a militari golpisti e attuava il terrorismo di stato anche fuori dai confini dei singoli paesi, combinando intelligence e azioni di commando volte alla cattura e uccisione di ambasciatori, politici ed esiliati considerati pericolosi per i regimi al potere.
Transnazionale la lotta condotta in nome dell’anticomunismo dai paesi latinoamericani e transnazionale anche l’azione della manovalanza neofascista italiana, che dopo la Spagna passò al servizio in particolare del dittatore cileno Augusto Pinochet e prestò i suoi uomini per compiere attentati politici. Il 6 ottobre 1975 a Roma fu ferito gravemente assieme alla moglie Bernardo Leighton, fondatore della Democrazia cristiana cilena e oppositore tra i più temuti di Pinochet. La regia era della Dina, la polizia segreta cilena che sarà sciolta nel 1977; a sparare e curare l’organizzazione logistica furono uomini di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale. Il cui leader, Stefano delle Chiaie, che era stato in Cile già nel 1974, a meno di un anno dal golpe contro Salvador Allende, al seguito di Junio Valerio Borghese, l’ex comandante della X Mas a propria volta autore nel 1970 di un tentativo golpista in Italia, ammetterà di aver collaborato come “consulente” con Pinochet, svolgendo per circa un anno e mezzo un lavoro politico di propaganda e controinformazione. Il suo fu senza dubbio il nucleo di italiani più attivo fuori dai confini, prima in Spagna, come detto, e poi appunto in Cile, dove operarono tra gli altri Maurizio Giorni, Roberto Graniti e l’autore della strage di Peteano, Vincenzo Vinciguerra; ma anche in Argentina, dove nel 1979 soggiornarono Delle Chiaie, ancora, e Pierluigi Pagliai; e in Bolivia, dove quest’ultimo, indagato in Italia per la strage di Brescia, sarà ferito a morte dai carabineros locali in uno scontro a fuoco a La Paz nell’ottobre del 1982 e portato in Italia da agenti del Sisde (il Servizio informazioni per la sicurezza democratica nato nel 1977 dallo sdoppiamento dei servizi italiani) giunti nel paese per arrestarlo30.
Erano anni in cui anche sul piano ideologico l’estrema destra italiana guardava all’America latina, come aveva fatto del resto quella neofascista dopo il 1945, e si assistette al tentativo di ispirarsi ad esperienze politiche come la terza via “giustizialista” di Perón da parte di formazioni intenzionate a stabilire rapporti con gli ambienti dei militari argentini, o al contrario a combatterli31. Relazioni personali e collaborazione tra i diversi gruppi, italiani e non, in vari stati non sono sinonimo comunque di “Internazionale nera”, se con questa formula si fa riferimento ad una organizzazione centralizzata e strutturata: come è stato giustamente osservato, si deve parlare “semplicemente di un insieme di soggetti politici autonomi che condividono alcune regole fondamentali di base e si coordinano tra loro”32.
È difficile altresì intravedere le linee di una qualsivoglia continuità tra questa emigrazione e l’emigrazione fascista del secondo dopoguerra ed è probabile che, al di là delle comuni destinazioni ibero-americane, i nostalgici della vecchia guardia abbiamo avuto pochi contatti con gli ultimi arrivati, troppo distanti da loro anche sul piano delle matrici ideologiche. Nessuno dei gruppi della destra estrema degli anni sessanta e settanta (e fino ad oggi l’unica eccezione in tal senso è Forza nuova, fondata nel 1997) si è mai richiamato al fascismo storico, che è invece stato sempre il riferimento ideale dei primi.
A Buenos Aires, capitale dell’esodo successivo alla Liberazione, negli anni settanta non c’erano pressoché più tracce di attività politica da parte dei fascisti rimasti (tanti erano rientrati in Italia, in qualche caso perché amnistiati), che mantenevano solo un paio di fogli a periodicità irregolare e tiratura limitata, probabilmente opera quasi per intero dei loro stessi direttori. Uno dei quali, Gaio Gradenigo, un ex ufficiale della Gnr ricercato dagli Alleati come criminale di guerra33, era forse la figura, se non di maggiore caratura, di maggiore visibilità all’epoca tra i nostalgici, per quel poco che ancora questo poteva significare a vent’anni dalla conclusione dell’emigrazione italiana in Argentina e dunque in un quadro di generale indebolimento e rarefazione delle istituzioni della comunità. Dopo aver ricoperto cariche non di seconda fila dalla metà degli anni cinquanta nell’associazionismo etnico e combattentistico, a distanza di due decenni Gradenigo non aveva rinunciato all’impegno politico all’interno della collettività tra le fila del Movimento sociale italiano, o quantomeno, nel 1975 rappresentò i “Comitati tricolore italiani nel mondo” d’Argentina, le locali sezioni del partito, alla Conferenza nazionale dell’emigrazione che si svolse a Roma.
In contatto forse con Delle Chiaie al tempo del soggiorno di questi a Buenos Aires34, i suoi rapporti con la giunta militare salita al potere nel 1976, se rapporti vi furono, furono invece a quanto pare esclusivamente d’affari: finì infatti coinvolto in un’inchiesta condotta in Italia su un traffico di armi con l’Argentina, perché una sua lettera risalente al 1983, che conteneva riferimenti sospetti a trattative per commesse di elicotteri Agusta al regime ormai al tramonto, fu ritrovata a Milano nella casa di un indagato.
Benché non mancassero tra i fascisti italiani sbarcati al Plata nel dopoguerra elementi che come lo stesso Gradenigo avevano trascorsi da seviziatori durante la Rsi, non risulta che qualcuno di loro sia tornato ad operare in questa veste durante la dittatura del Proceso, come fecero invece alcuni nazisti in Cile, dove la Colonia Dignidad, fondata nel 1961 da un ex militare della Wehrmacht, Paul Schäfer, e già rifugio di criminali di guerra del Reich, fu usata come campo di detenzione e luogo di tortura per i prigionieri politici da Pinochet, che poté evidentemente valersi della manovalanza esperta trovata sul posto35.
Per quanto concerne invece l’emigrazione nera degli anni settanta, i suoi legami con i regimi militari e i destini successivi dei singoli, le vicende di Stefano Delle Chiaie e Giovanni Ventura possono essere considerate emblematiche e riassuntive dei percorsi seguiti dai più36. In Cile, Argentina e Bolivia Stefano Delle Chiaie e il suo gruppo scelsero di mettersi al servizio in varie forme del terrorismo di stato di Pinochet e delle giunte militari. Arrestato nel 1987 a Caracas, in Venezuela, dopo aver evitato di un soffio la cattura anni prima durante il citato blitz a La Paz del Sisde, il leader di Avanguardia nazionale fu immediatamente estradato in Italia. Due anni dopo fu assolto nell’ennesimo processo per la strage di Piazza Fontana e scarcerato. In Argentina Giovanni Ventura, arrestato nel 1979 poco dopo l’arrivo, uscì di prigione nel 1985, quando si concluse con la definitiva assoluzione sua e di Freda il quinto processo per la strage di Piazza Fontana, celebrato a Bari, e l’Italia ritirò la richiesta di estradizione. La dittatura militare era finita da due anni e Ventura si fermò nel paese. Da molto tempo nel settore della ristorazione, attualmente gestisce tra l’altro il ristorante di quello che è stato storicamente il salotto buono della collettività italiana ed oggi è uno dei luoghi d’incontro della comunità d’affari: il Circolo italiano di Buenos Aires.

Note

1 Ermanno Amicucci, Sopravvive a San Paolo la Repubblica di Salò, “Il Tempo”, 1 settembre 1951; Enrico De Boccard, Il passo dei repubblichini, Firenze, Le Lettere, 2006. Ringrazio Alicia Bernasconi, Emilio Franzina e Matteo Sanfilippo per aver letto il testo fornendomi utili suggerimenti e commenti.

2 Matteo Sanfilippo, Ratlines and Unholy Trinities: a Review-Essay on (Recent) Literature Concerning Nazi and Collaborators Smuggling Operations out of Italy (2003), http://vaticanfiles.net/sanfilippo_ratlines.htm.

3 Holger M. Meding, La ruta de los nazis en tiempos de Perón, Buenos Aires, Emecé, 1999 (ed. or. 1992); Carlota Jackish e Daniel Mastromauro, Identificación de criminales de guerra llegados a la Argentina según fuentes locales, “Ciclos”, 19 (2000), pp. 217-235.

4 Matteo Sanfilippo, Los papeles de Hudal como fuente para la historia de la migración de alemanes y nazis después de la Segunda Guerra Mundial, “Estudios migratorios latinoamericanos”, 43 (1999), pp. 185-209.

5 Cfr. Federica Bertagna e Matteo Sanfilippo, Per una prospettiva comparata dell’emigrazione nazifascista dopo la seconda guerra mondiale, “Studi emigrazione”, 41, 155 (2004), pp. 527-553 e la bibliografia qui citata.

6 Salvo diversa indicazione, per quanto segue si rinvia a Federica Bertagna, La patria di riserva. L’emigrazione fascista in Argentina, Roma, Donzelli, 2006.

7 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1990; Guido Crainz, La giustizia sommaria in Italia dopo la seconda guerra mondiale, in Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, a cura di Marcello Flores, Milano, Bruno Mondadori 2001, pp. 162-170. Diversi studi su casi provinciali e regionali hanno da molti anni spazzato via (almeno agli occhi di chi fa ricerca storica) le esagerazioni di parte fascista sui morti ammazzati dopo il 25 aprile, in particolare in Emilia Romagna: cfr. per esempio il lavoro da poco riedito di Nazario Sauro Onofri, Il triangolo rosso. La guerra di liberazione e la sconfitta del fascismo (1943-1947), Roma, Sapere2000, 2007 (1994).

8 Lia Sezzi e Nora Sigman, “Pionieri del progresso”: l’impresa Borsari in Terra del Fuoco, “Storia e problemi contemporanei”, 16, 34 (2003), p. 124; Mónica Bartolucci e Elisa Pastoriza, Me iré con ellos a buscar el mar: familias migrantes marchigianas a la ciudad de Mar del Plata (1886-1962), “Altreitalie”, 15, 27 (2003), p. 89.

9 Enzo Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Bologna, il Mulino, 2007, p. 124.

10 Michele Battini, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Roma-Bari, Laterza, 2003.

11 Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946: colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano, Mondadori, 2006.

12 Si veda Giovanni Preziosi, Sulle tracce dei fascisti in fuga. La vera storia degli uomini del duce durante i loro anni di clandestinità, Atripalda (AV), Walter Pellecchia Editore, 2006, assai disorganico, ma utile per il contributo a livello di fonti inedite e di difficile reperimento, in particolare appunto alcuni diari dei rettori di conventi che ospitarono gerarchi e criminali fascisti.

13 Francesco Motto, Dal Piemonte alla Valle d’Aosta. La clandestinità del quadrunviro Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon in una memoria di don Francesco Làconi, “Ricerche storiche salesiane”, 20, 2 (2001), pp. 309-348; Albertina Vittoria, I diari di Luigi Federzoni. Appunti per una biografia, “Studi Storici”, 35, 3 (1995), pp. 729-760.

14 Federica Bertagna, Il Movimento italiano femminile “Fede e famiglia” e la fuga dei fascisti italiani in Sudamerica dopo la seconda guerra mondiale, “Novecento”, 8-9 (2003), pp. 47-61.

15 Luc Van Dongen, Un purgatoire très discret. La transition “helvétique” d’une cohorte d’anciens nazis, fascistes, collaborateurs et autres vaincus de la Libération, 1943-1955 (env.), Université de Genève, Thèse de doctorat, 2006.

16 Fernando J. Devoto, El revés de la trama: políticas migratorias y prácticas administrativas en la Argentina (1919-1949), “Desarrollo económico”, 41, 162 (2001), pp. 294-301.

17 Sui canali di finanziamento del Msi cfr. Giuseppe Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, Bologna, il Mulino, 2006.

18 Si vedano le lettere inviate nel 1951 a Buenos Aires a Mauro Marchetti da Bruno Spampanato, il giornalista e avvocato autore del Contromemoriale. Ringrazio Hernán Capizzano, che le ha recuperate nella capitale argentina, per avermi permesso di consultarle.

19 Eugenia Scarzanella, Il fascismo italiano in Argentina: al servizio degli affari, in Fascisti in Sud America, a cura di Eugenia Scarzanella, Firenze, Le Lettere, 2005, pp. 111-174.

20 Fernando J. Devoto, Storia degli italiani in Argentina, Roma, Donzelli, 2007.

21 Ludovico Incisa di Camerana, L’Argentina, gli italiani, l’Italia. Un altro destino, Tavernerio (CO), Spai, 1998, pp. 619-620.

22 A partire dal 1985, con la cosiddetta “dottrina Mitterand” (in realtà una prassi che faceva riferimento a dichiarazioni del presidente francese) la Francia garantì il diritto d’asilo ai rifugiati politici stranieri, soprattutto italiani, ricercati nei loro paesi per atti di natura violenta ma d’ispirazione politica, purché non diretti contro lo stato francese e purché i responsabili avessero rinunciato alla violenza politica. Erano esclusi i reati più efferati, come l’omicidio e la strage.

23 Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, L’Italia delle stragi, Milano, Il Minotauro, 1997-1998; Ugo Maria Tassinari, Fascisteria. I protagonisti, i movimenti e i misteri dell’eversione nera in Italia (1945-2000), Roma, Castelvecchi, 2001.

24 Giorgio Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta, Torino, Einaudi, 1999 (1993). Sulla fuga di Franco Freda si veda anche Mario Caprara e Gianluca Semprini, Destra estrema e criminale. Da Stefano Delle Chiaie a Mario Tuti, dai fratelli Fioravanti a Massimo Carminati: storia, avvenimenti, protagonisti e testimonianze inedite della destra eversiva italiana, Prefazione di Giovanni Pellegrino, Roma, Newton Compton, 2007, p. 38.

25 Ugo Maria Tassinari, Guerrieri 1975/1982 storie di una generazione in nero, Pozzuoli (NA), Immaginapoli, 2005.

26 Franco Ferraresi, Minacce alla democrazia. La destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Milano, Feltrinelli, 1995.

27 Cfr. le dichiarazioni di Stefano delle Chiaie riportate in Patricia Mayorga, Il condor nero. L’internazionale fascista e i rapporti segreti con il regime di Pinochet, Prefazione di Italo Moretti, Introduzione di Gianni Cipriani, Milano, Sperling & Kupfer, 2003, pp. 73 e sgg.

28 Gianni Flamini, Il partito del golpe: le strategie della tensione e del terrore dal primo centrosinistra organico al sequestro Moro, Ferrara, Bovolenta, 1981-1983.

29 U. M. Tassinari, Guerrieri 1975/1982, cit., p. 44.

30 P. Mayorga, Il condor nero, cit.; Jorge Camarasa, Organizzazione Odessa. Dossier sui nazisti rifugiati in Argentina, Milano, Mursia, 1998 (ed. or. 1995); U. M. Tassinari, Fascisteria, cit., tutti ad nomina.

31 Rispettivamente U. M. Tassinari, Guerrieri 1975/1982, cit., pp. 39-40; e Nicola Rao, La fiamma e la celtica. Sessant’anni di neofascismo da Salò ai centri sociali di destra, Milano, Sperling & Kupfer, 2006, pp. 266-273.

32 Cfr. Gianni Cipriani, Introduzione, in P. Mayorga, Il condor nero, cit., p. XXI.

33 Giuseppe Casarrubea e Mario J. Careghino, Tango connection. L’oro nazifascista, l’America Latina e la guerra al comunismo in Italia 1943-1947, Milano, Bompiani, 2007, p. 28.

34 J. Camarasa, Organizzazione Odessa, cit., p. 245.

35 Friedrich Paul Heller, Pantalones de cuero, moños y metralletas: el trasfondo de Colonia Dignidad, Santiago de Chile, ChileAmérica Cesoc, 2006.

36 U. M. Tassinari, Fascisteria, cit.; testimonianza di Giovanni Ventura all’autrice, Buenos Aires.