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Stampa migrante. Giornali della diaspora italiana e dell’immigrazione. Intervista a Pantaleone Sergi

Dagli anni Settanta in avanti i giornali italiani all’estero, più che costituire un oggetto di studio in sé, sono stati utilizzati dagli studiosi dell’emigrazione come fonti per ricostruire la storia delle comunità italiane all’estero. Successivamente sono stati pubblicati molti lavori su singole testate o singoli paesi ma, a parte un breve saggio di Bénédicte Deschamps incluso quasi dieci anni fa nella Storia dell’emigrazione italiana edita da Donzelli, mancava a tutt’oggi una sintesi di ampio respiro sulla stampa dell’emigrazione dal Risorgimento ai giorni nostri. Che quadro è emerso dalla sua indagine?

Quello di un’Italia parallela, frammentata in mille luoghi al di fuori del territorio nazionale ma spesso percepiti come sua estensione, dove un giornalismo vivace, ricco di testate di periodicità e contenuti diversi, un giornalismo praticato da tanti uomini e poche donne che lo hanno animato in funzione di autodifesa sociale, autorappresentazione collettiva e conservazione identitaria, ha reso comprensibile – prendo in prestito parole di Alexandre Hecker sulla costruzione e sull’utilizzazione del mito di Garibaldi in Brasile – la relazione tra immigrazione e conservazione dell’italianità. Migliaia di periodici in tutto il mondo dove gli italiani sono arrivati per motivi di lavoro o perché esuli, come nel periodo risorgimentale, post-unitario e in altri periodi della nostra storia, come quello fascista, in cui le libertà erano molto ridotte, hanno accompagnato e sostenuto la presenza degli italiani nel mondo. L’utilizzo di questi giornali, “memoria collettiva”, come fonte primaria per ricostruire la storia di masse di emigrati, i loro sogni, le difficoltà ed i successi, è stato importante per la ricerca storica sui movimenti migratori di massa che da qualche anno a questa parte, giustamente, rivendica uno spazio autonomo. Per la storia del giornalismo, che un po’ è anche storia sociale, storia politica e delle idee, è ovvio che essi debbano costituire un oggetto di studio a sé: i giornali sono anche un fatto economico-imprenditoriale e tecnico, oltre che culturale-politico e, come abbiamo potuto verificare, diventano un’istituzione nel complesso di istituzioni comunitarie all’estero (banche, scuole, società di mutuo soccorso, sindacati e congregazioni religiose). Al tempo stesso, è ovvio, attraverso la storia degli stessi giornali, è possibile approfondire la più grande storia dei movimenti umani. Nello studio, recente, dei mezzi di comunicazione in sé si nota, inoltre, un risveglio interessante che contribuisce a una storia generale del giornalismo italiano all’estero, in cui il mio “Stampa migrante” si inserisce nel tentativo di spiegare anche il ruolo sociale e civico di quei fogli. Questo volume può essere considerato forse un primo approccio. Resto convinto, infatti, che alcune realtà meritano di essere investigate più in profondità. In ogni caso è un approccio utile, non solo a livello documentale ma soprattutto nella capacità di creare un parallelo (spero riuscito) tra ieri e oggi e tra stampa della diaspora italiana e stampa dell’immigrazione in Italia.

L’aspetto più originale e innovativo del volume è rappresentato proprio dalla sua struttura bipartita, che lei ben definisce “a specchio”: un terzo della ricerca è dedicato, infatti, alla stampa dell’immigrazione in Italia, un argomento del quale si sa pochissimo. Quante sono, orientativamente, queste testate oggi e quali sono le loro caratteristiche?

In effetti lo stimolo per questa ricerca nasce da un elaborato di Elida Sergi, che è diventato un capitolo del volume, sulle testate degli immigrati in Italia, un mondo poco o niente conosciuto. A ben vedere, però, è una realtà che ha visto negli anni una fioritura di giornali stampati, oggi accompagnati da radio, tv e periodici via web. Le testate censite nel 2004 dalla Fusie, la Federazione unitaria stampa italiana all’estero, erano 109 tra giornali prodotti da immigrati e a loro destinati ma già non rappresentavano l’intero universo editoriale. Oggi sono ancora di più, a conferma di un dinamismo del settore apparso subito chiaro. In “Stampa migrante”, con un’indagine appunto “a specchio”, ho cercato di capire non solo cosa abbiano rappresentato e rappresentino i giornali etnici per gli italiani all’estero ma anche a cosa servono i giornali degli immigrati oggi in Italia, dopo avere visto quanti sono, da dove arrivano, dove si insediano, considerato inoltre che, per alcune etnie, si ha a che fare con seconde generazioni. E mi sono accorto che tali giornali hanno funzione e motivazioni identiche. Questi nuovi immigrati che arrivano in Italia (ho tracciato, per grandi linee, anche una storia dell’immigrazione nel nostro paese), insomma, utilizzano i giornali allo stesso modo dei nostri emigrati: strumenti utili per favorire l’assimilazione culturale e quindi l’assimilazione nella struttura sociale. Mi piace ricordare, qui, che in bel libro dal titolo La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, il sociologo algerino Abdelmalek Sayad, che ha studiato le periferie parigine dove si concentrano gli emigrati, sostiene che il migrante, è sempre “fuori luogo”, spesso stritolato nel paradosso di una “doppia assenza”, dalla propria patria e nelle nuove realtà dove nello stesso tempo è “incorporato ed escluso”, in una condizione definita di sdoppiamento della personalità, perché si sente in bilico tra due realtà e non sa più a quale realmente appartiene. Ecco: la stampa etnica, come era stato per gli italiani della diaspora, costituisce un ponte tra quelle due realtà: la nuova che spesso tende a escluderli e l’altra che si sono lasciati alle spalle.

Tornando allora agli italiani all’estero, al di là della dovuta attenzione per le maggiori testate pubblicate nelle Americhe, e in particolare negli Stati Uniti, in Argentina e in Brasile, all’epoca della “grande emigrazione” tra Ottocento e Novecento, lei dedica ampio spazio anche alla stampa di paesi del bacino del Mediterraneo. Quali sono le specificità delle realtà editoriali italiane in quest’area? Penso per esempio a casi come quello dell’Egitto o della Tunisia.

L’attenzione di cui lei parla, intanto, spiega il fatto che ovunque nel mondo gli italiani si sono insediati – cito i casi del Transvaal e della Cina per le distanze, ma pure la Svizzera nel ’600 e Brasile e Francia nel ’700 – lì hanno fondato periodici di comunità di ogni tipo, da una parte per mantenere il legame con la madrepatria, dall’altra per stabilirne uno col paese di accoglienza. Nel mio lavoro ho cercato di fare una ricognizione su realtà che, ad eccezione degli addetti ai lavori, erano in gran pare sconosciute. La stampa italiana nei paesi del Mediterraneo come Egitto, Tunisia, Grecia, Malta, se è possibile un giudizio così generale, è stata culturalmente più elevata che altrove, oltre che direttamente impegnata nella politica italiana soprattutto dell’Ottocento. L’emigrazione italiana nei paesi del bacino mediterraneo è stata tipicamente politica. Si è sviluppata in epoca pre risorgimentale e risorgimentale ma anche in periodo fascista, sebbene, come in Tunisia, abbia subito spinte economiche più o meno equivalenti alle motivazioni politiche e in Egitto sia stata attratta da un governo che aveva bisogno di classe dirigente e utilizzava l’italiano come lingua diplomatica. La stampa italiana in Egitto, infatti, era espressione di una élite e si rivolgeva a una emigrazione privilegiata, ben inserita nel sistema di governance del paese; quella fiorita a Malta (e in Grecia) era espressione di spiriti romantico-rivoluzionari che in quei paesi trovarono rifugio in seguito ai moti risorgimentali e che, dai luoghi di esilio, intervenivano nel dibattito per la costruzione dell’Unità d’Italia. In Tunisia (considerata inizialmente una naturale quarta sponda coloniale dell’Italia) esuli politici, come l’anarchico Niccolò Converti già nell’Ottocento, ed emigrati per bisogno hanno dato vita a una stampa attenta ai problemi del paese di origine e a quello di accoglienza.

Nel secondo dopoguerra, con l’esaurirsi dei cicli migratori verso le Americhe e poi dagli anni settanta anche verso l’Europa, la stampa italiana all’estero è entrata in crisi. Eppure ancor oggi sono centinaia le testate che vengono pubblicate nel mondo e resistono persino alcuni quotidiani, come “America Oggi” negli Stati Uniti. Quali funzioni svolgono oggi questi fogli in comunità italiane che non sono più neppure definibili come tali, essendo formate quasi ovunque in larga maggioranza non da emigranti ma da loro discendenti di seconda o terza generazione?

Il processo migratorio, ovviamente, ha caratteristiche legate ai tempi. E di conseguenza anche la stampa d’emigrazione. Nel secondo dopoguerra essa ha come istantanea rappresentativa quella di un’Italietta che con grande fatica usciva dai disastri provocati dal fascismo e della guerra e in preda all’ira dei disoccupati. Il riscatto economico è ancora soltanto una utopia. Lo stesso presidente del Consiglio Alcide De Gasperi incentivava i giovani a imparare una lingua e andare all’estero. In tanti partirono. Ma le comunità italiane nel mondo erano ormai un’altra cosa rispetto a quelle fiorite al tempo del grande esodo, trasformatesi sempre più per fatto biologico. I nati in Italia con gli anni diventavano sempre di meno. La comunità dei figli e dei nipoti è un’altra cosa e ha altre esigenze informative. Bisogna fare i conti con la lingua italiana che sempre meno persone parlano. I periodici etnici assumono, allora, una funzione di collegamento – spesso nostalgica – con  la madre patria e tra i gruppi regionali che ormai caratterizzano le collettività italiane all’estero. In circolazione restano, tuttavia, centinaia di testate etniche. Scomparsi i grandi quotidiani (oggi di “veri” se ne pubblicano due negli Usa, uno dei quali con una edizione per l’Uruguay, due “gemelli” in Australia, uno in Canada, uno in Venezuela e uno in Lussemburgo), i giornali degli emigranti italiani, dopo mille vicissitudini, oggi sono tuttavia presenti in 60 Paesi e diffondono oltre 100 milioni di copie all’anno. Cifre interessanti e significative che meriterebbero ben altra attenzione e considerazione da parte delle autorità di governo (che ha invece tagliato i contributi), se si considera il fatto che tra queste testate ce ne sono alcune che addirittura sono risultate determinanti nella raccolta di consenso politico nel 2006 (e poi nel 2008), quando per la prima volta alla Camera e al Senato sono stati eletti italiani all’estero. Questi giornali svolgono un ruolo culturale molto delicato, che andrebbe sostenuto, e non abbandonato, come invece avviene.

La rivoluzione digitale ha costituito un fattore di ulteriore indebolimento per la carta stampata italiana all’estero o al contrario ha portato vantaggi, consentendo risparmi e maggiore diffusione delle testate?

Mi piace ricordare la metafora dell’auto e della bicicletta raccontata da Umberto Eco. È nata l’auto, ma la bicicletta non è scomparsa. Così è per la stampa. L’informazione digitale non cancella la carta stampata, semmai le assegna nuovi compiti e funzioni. In ogni caso, in maniera complementare, la potenzia. È vero che sul web si trova di tutto e di più. Ma internet è una selva oscura in cui è difficile districarsi. Un giornalismo multimediale, così, può valorizzare “old” e “new media” anche nel settore della stampa etnica, con effetto moltiplicatore del messaggio. Nel futuro dei media della diaspora, personalmente intravedo una fruttuosa convivenza. È importante innovare. Ma tale innovazione non può fermarsi al medium. Bisognerà lavorare e non poco sui contenuti e su chi li propone. Bisognerà lavorare sulla preparazione dai giornalisti, migliorare la loro professionalità per puntare a una informazione qualificata, equilibrata e puntuale.