L’emigrazione italiana in Sudafrica 1870-1913. Alcune Note.

Con le sue poche migliaia di migranti, il caso sudafricano rappresenta un aspetto minore della storiografia delle migrazioni italiane svoltesi tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale. Proprio la scarsità dei numeri statistici e la poca abbondanza di fonti facilmente rintracciabili ha fatto sì che siano stati pochi gli studiosi ad affrontare questo tema. Fino ad ora, gli articoli e i saggi prodotti sull’emigrazione in Sudafrica hanno avuto come obbiettivo l’elaborazione di “casi studio” di gruppi provenienti da ambiti geografici ben delimitati1. Questo al fine di incorporare i risultati delle indagini all’interno di ricerche più ampie e dedicate alle caratteristiche espresse dal fenomeno migratorio in alcune aree particolari, come il Biellese2.
Al contrario, tentare di analizzare il fenomeno dal punto di vista dell’arrivo, ha significato prima di tutto, individuare i tratti salienti del contesto in cui gli italiani si sarebbero inseriti al proprio arrivo.
Per tutto il tempo necessario allo svolgimento di questa ricerca, più che con le vicende specifiche degli italiani, ho avuto a che fare con problematiche relative al mercato del lavoro sudafricano e ai rapporti interrazziali da esso scaturiti. Non ho potuto prescindere poi dalle questioni legate alla colonizzazione di queste regioni, dai dispositivi di legge sull’immigrazione attuati a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento e dal dramma della guerra anglo-boera. Una volta chiarite le questioni interne, è stato possibile spiegare l’esiguità numerica degli italiani in questo paese come pure le caratteristiche e le specificità espresse dai quei pochi che arrivarono fino lì.
Ne è emerso che la storia dell’emigrazione italiana in Sudafrica durante gli anni della così detta Grande Migrazione, è stata in molti casi una storia di speranze disilluse, di espulsioni, rimpatri, divieti.
Nonostante si debba aspettare il 1897 per il varo della prima legge a limitazione degli accessi, furono pochi quelli che poterono approfittare di un passaggio navale scontato o che furono reclutati direttamente da un agente per l’immigrazione al Capo. Questo genere di agevolazioni vennero per la maggior parte dei casi, riservati ai sudditi della Corona Britannica. I boeri preferivano assumere contadini e apprendisti tedeschi mentre i grandi progetti per il popolamento di ampie regioni andarono spesso a rotoli a causa della superficialità degli organizzatori o della magrezza delle risorse. L’immigrazione sovvenzionata di grandi masse di contadini non ebbe lo stesso slancio che in altre Colonie britanniche o nei vasti e fertili paesi del Sud America. Anzi, molti piccoli agricoltori, una volta giunti in Sudafrica abbandonarono i lotti a loro assegnati per riversarsi nelle città o tentare la fortuna nei distretti minerari. Data la natura povera dei terreni e gli alti tassi di abbandono dell’impresa agricola, ben presto si suggerì agli “aspiranti”coloni di provvedersi di almeno 20 sterline, necessarie a mantenersi in vita per i primi sei mesi dallo sbarco, in attesa del raccolto. Ma come riferì l’agente per l’immigrazione, 20 sterline erano una somma che se pur piccola, si era  dimostrata ben al di sopra delle possibilità dei contadini italiani3. Se ne accorsero presto gli amministratori della colonia del Capo, quando nel 1880 decisero di agevolare l’arrivo di solo 6 famiglie contadine dall’Alta Italia con il fine di far coltivare loro il baco da seta. Nonostante la moltitudine di candidati che si erano presentati, ci volle quasi un anno per trovare quelli che potessero mettere assieme una cifra simile.
Eppure in questo paese il dibattito sulla necessità di incrementare la popolazione bianca era molto acceso e la domanda di braccia da lavoro molto pressante. Nonostante tutto, nel settore agricolo i farmers avevano bisogno di braccianti da due scellini al giorno, non di contadini specializzati che avrebbero domandato almeno il doppio. Tanto meno, avevano bisogno di agricoltori con la velleità di diventare a loro volta proprietari, e che prima o poi, si sarebbero trasformati in concorrenti4.
Dal punto di vista industriale, l’unico vero motore economico era rappresentato dall’attività mineraria5. Anche in questo settore, foraggiato dai grandi cartelli finanziari inglesi, ben presto si cominciò a reclamare braccia da lavoro che coadiuvassero le macchine. Braccia che, per garantire alti dividendi di impresa, dovevano costare molto poco e pretendere ancora meno6.
Nonostante gli industriali, i proprietari terrieri e gli ingegneri addetti ai lavori pubblici si contendessero i lavoratori di colore, i salari di questi ultimi rimasero sempre drammaticamente compressi. Questo perché si cominciò ad importare manodopera migrante e vincolata a contratti rigidissimi da altri paesi africani, dalla Cina o dall’India7. L’avvio della così detta Rivoluzione Mineraria scandì l’inizio della spartizione delle mansioni lavorative secondo un criterio “economico” tutto particolare: quello del colore della pelle8. In presenza di un bacino di manodopera di riserva tanto vasto e soprattutto così facile da abusare, gli italiani senza qualifica e senza mestiere vennero tagliati fuori da tutti quei settori in cui erano soliti inserirsi.
I primi (e assai rari) italiani arrivarono in Sudafrica probabilmente al seguito delle truppe napoleoniche e di quelle inglesi. Si sposarono con le figlie dei coloni e della loro origine rimane qualche debole traccia nel suono del loro cognome o nel luogo di nascita appuntato nel registro dei morti della Colonia del Capo9.
Anche i marinai imbarcati sui bastimenti di lungo corso devono aver fatto sosta al Capo di Buona Speranza sulla via delle Indie, oppure facendo la spola tra Buenos Aires e Cape Town. Al contrario però dell’Argentina, la regione del Capo non aveva molto da offrire né dal punto di vista agricolo, né dal punto di vista delle opportunità nel settore manifatturiero. A metà Ottocento, Cape Town doveva apparire poco più di un villaggio senza grandi attrattive10.
Le cose cominciarono a cambiare in modo dirompente dopo la scoperta del primo diamante, nel 1867. Da questo momento in poi la Colonia del Capo si avviò verso uno sviluppo tumultuoso. La ricchezza inaspettata sopraggiunta con la scoperta del minerale avviò un’intensa stagione di lavori pubblici e un ambizioso programma per la costruzione di una fitta rete ferroviaria, mentre le miniere reclamavano artigiani e operai specializzati nella costruzione di ponteggi, gallerie e armature sotterranee.
I marinai cominciarono a saltare dalle navi per raggiungere i campi diamantiferi mentre molti altri arrivarono con il biglietto di sola andata dalle Americhe. Alla febbre dei diamanti si aggiunse la febbre dell’oro e chi era arrivato a Kimberley cominciò a spostarsi verso Johannesburg dove la città aveva preso a crescere a ritmi rapidissimi. Da questo momento in poi, il Sudafrica entrò a far parte della mappa mentale di molti migranti italiani11.
La maggior concentrazione di italiani documentata si ebbe proprio nel Transvaal, tra il 1896 e il 1900. In questi anni, le «diverse migliaia» dovevano ammontare a circa 5000 unità dislocate tra Johannesburg, Pretoria e altri centri di importanza minore12. A differenza delle colonie inglesi del Capo e del Natal, nella repubblica Boera non si facevano distinzioni tra immigrati di nazionalità diversa, tanto meno si privilegiavano quelli di origine britannica. Il Transvaal era un paese cosmopolita e in tumultuosa espansione e gli italiani erano tenuti in buona considerazione. Proprio su questi ultimi porrò maggiore attenzione in questa sede.
Man mano che l’industria estrattiva e il suo indotto diventarono sempre più sofisticati, agli arrivi casuali e agli avventurieri si andarono sostituendo migranti con uno specifico profilo professionale. Dal dinamitificio Nobel di Avigliana (Piemonte), arrivarono gli esperti degli esplosivi e le giovani cartucciere per la preparazione dei candelotti. Dal circondario di Biella e dell’Aquila arrivarono molti sub-appaltatori che si impegnarono nelle ferrovie e nella costruzione dei palazzi. Si unirono a loro, diverse centinaia di muratori, scalpellini, falegnami, ebanisti, terrazzieri che giunsero da ogni parte della penisola italiana, dalle Cinque Terre in Liguria fino al Bitonto in Puglia. Le grandi opportunità del Transvaal vennero colte non solo dagli artigiani muniti di certificazione professionale, ma anche da chi per pochi soldi si faceva spiegare il mestiere; poi, grazie proprio a quella linea del colore, si sarebbero inseriti con profitto nel mercato del lavoro partendo da una posizione di privilegio.
Come in moli altri casi, furono le relazioni interpersonali, i contatti tra i familiari e i compaesani ad agevolare gli arrivi e ad informare gli altri delle opportunità che si stavano sviluppando. Lo si faceva attraverso le lettere ai parenti o quelle ai giornali in cui si davano consigli ma anche ammonizioni13. Le paghe del Rand erano le più alte al mondo. In Italia un muratore poteva aspirare a guadagnare al massimo 3 lire e mezzo al giorno; in Svizzera se ne potevano mettere in tasca 4, mentre negli Stati Uniti i più fortunati potevano ricavarne al massimo 18. A Johannesburg gli stipendi nel settore delle costruzioni e delle miniere si aggiravano intorno alle 25 lire al giorno, esclusi gli straordinari. Certo è che il viaggio costava il doppio che per arrivare in Argentina, che  la vita in miniera era assai rischiosa e la domanda di braccia qualificate altalenante14.
Ad ogni modo quelli che si presentarono come minatori furono una minoranza. Uno dei lavori più ambiti, per la paga e per le agevolazioni che se ne ricavavano era quello alle dipendenze della compagnia olandese che aveva in esercizio le ferrovie del Transvaal. Bisognava assicurare la manutenzione della tratta ferroviaria, segnalare i treni, spesso dirigere squadre di manovali di colore. Il mensile variava dalle 15 alle 22 sterline (tra le 375 e le 550 lire al mese). Il contratto prevedeva inoltre l’inclusione di una casa con tanto di orto, più una buona pensione finale. Alla vigilia dello scoppio della guerra anglo-boera, gli italiani addetti alle mansioni di cantoniere ferroviario o di artigiano nelle officine della “Nederlandese” erano un centinaio15.
Non mancarono neppure quelli che riuscirono a sviluppare brillantemente il settore agricolo. Ancora nel 1893 il terreno intorno a Johannesburg e Pretoria si presentava «come natura lo aveva creato»16. Nel giro di pochi anni, circa 150 italiani cominciarono a lavorare con successo queste terre. Si organizzarono per la conduzione o l’acquisto di una decina di  farms e avviarono una vasta produzione di ortaggi, legumi e frutta che arricchirono notevolmente la monotona dieta degli abitanti delle città del Rand. In questo settore furono predominanti i toscani della regione di Lucca anche se non mancarono contadini liguri, trentini o di altre parti d’Italia17.
Senza dubbio però il settore che rappresentò l’occasione più propizia fu quello delle costruzioni e dei subappalti delle opere pubbliche. Anche qui, come già sperimentato altrove e con successo, furono soprattutto i Biellesi a mettere in atto un meccanismo di organizzazione estremamente efficace, quello delle piccole società in compartecipazione18. Una volta trovati i contatti e gli agganci necessari, a piccoli gruppi, amici e parenti mettevano assieme il denaro e le competenze necessarie per partecipare alle gare di appalto. Ognuno dei soci svolgeva il suo ruolo, dall’ artigiano, all’impresario, al capomastro mentre il grosso del lavoro veniva svolto dagli operai di colore reclutati direttamente sul cantiere19.
Sfortunatamente l’instabilità politica del Transvaal e le continue scaramucce con le colonie limitrofe influirono negativamente sulle vicende economiche della piccola Repubblica Boera creando crisi cicliche dirompenti. Nel 1897, proprio per arginare il problema della disoccupazione la Colonia del Natal si dotò di una normativa che tenesse lontano dai suoi confini qualsiasi immigrato che non rientrasse nella categoria di “desiderabile”. Dopo qualche anno, lo scoppio della guerra anglo-boera, la legge marziale e le difficoltà di ripresa successive alla guerra convinsero anche le altre colonie a fare altrettanto.
Gli “aspiranti immigranti” nelle colonie sudafricane di Sua Maestà britannica dovevano saper leggere e scrivere fluentemente in una lingua europea, dimostrare di essere in possesso di un capitale liquido di almeno 20£ (circa 500 lire italiane) o in alternativa, di un contratto di assunzione firmato da un datore di lavoro con tanto di garanzie e referenze. Queste leggi erano state pensate per rispondere a due esigenze specifiche. La prima: tenere lontano dal Sudafrica gli indiani che cercavano di sbarcare in Natal, (nonostante fossero sudditi britannici). La seconda: contenere il numero di avventurieri e di sbandati in cerca di fortuna in un momento in cui la crisi economica e la guerra anglo-boera avevano creato un gran numero di disoccupati. Sotto la seconda categoria ricaddero un gran numero di italiani che, nonostante avessero pagato salatamene il loro viaggio, si trovarono più volte respinti senza neppure la possibilità di sbarcare dal vapore che li aveva portati tanto lontano20. Da questo momento in poi e più di prima, divenne indispensabile avere amici e parenti al di là della frontiera sudafricana che potessero fornire contatti e adeguate garanzie.
Per giunta non aiutò gli immigrati, meno che mai gli italiani, che la guerra si fosse rivolta a favore degli inglesi. In questi anni successivi al conflitto si assistette al tentativo di trasformare le colonie a maggioranza boera in fedeli avamposti della civiltà coloniale britannica. Molti posti nei lavori pubblici, nei trasporti e nelle miniere vennero riservati agli ex combattenti inglesi, ai nuovi immigrati o a chi aveva dimostrato di esser stato solidale con la causa imperiale21.
Nel 1903 così scrisse un ufficiale addetto all’Ufficio Immigrazione della Colonia del Natal:

Nei mesi scorsi sono stato spiacevolmente colpito dall’ampio numero di artigiani italiani e austriaci arrivati qui. Non ho nessun pregiudizio nei confronti degli stranieri, ma penso che, ad eccezione di pochi, ne stiamo accogliendo troppi, e ho paura che un flusso costante di immigrazione straniera come quella che abbiamo affrontato possa risolversi in una ragione di abbassamento del livello dei nostri standard di vita.
Ho ampie testimonianze del fatto che questi uomini possono lavorare per delle mercedi più basse di quelle correnti e anche se ho poca simpatia per richieste arbitrarie fatte dai lavoratori britannici (..) considero che l’incoraggiamento di lavoro straniero a basso costo non sia saggio né tanto meno patriottico22.

L’anno successivo a questa dichiarazione la Colonia del Capo varò una nuova disposizione per cui le grandi imprese pubbliche avrebbero assunto alle loro strette dipendenze  soltanto sudditi britannici. Questa nuova legge limitò ancora di più la capacità di movimento degli italiani. In molti risposero a questo problema facendo domanda di naturalizzazione23.
La storia degli italiani in Sudafrica non è certamente completa né bastano questi pochi accenni per poter costruire un quadro teorico che, in via generale, ne riassuma le caratteristiche.
Tuttavia sono elementi che vale la pena sottolineare.
Molte delle persone giunte in Sudafrica ci arrivarono con un certo bagaglio di esperienza lavorativa e migratoria accumulata nei Balcani e in Europa, o più lontano negli Stati Uniti o in Argentina. Essendo la maggior parte impiegati nel settore delle costruzioni, il lavoro implicava contratti a scadenza e la necessità di seguire il lavoro dove questo si proponeva. Molti di loro dimostrarono un’enorme disponibilità agli spostamenti e una grande capacità di coprire ampie distanze solo al fine di esercitare il proprio mestiere, tanto che un muratore di Piedicavallo, ad un’inchiesta rispose che era stabilito ove si trovava con lavoro24.
Nessuno, neppure tra i cantonieri, dimostrò mai l’intenzione di rimanere stabilmente in Sudafrica, un paese che andava sfruttato per le impareggiabili opportunità di accrescimento economico che però si sarebbero spese a casa o per finanziare un nuovo viaggio. Proprio il viaggio, assai costoso, era stato in molti casi pianificato dall’intera famiglia che vi aveva contribuito ipotecando i beni di proprietà. Molte delle aree geografiche che hanno maggiormente contribuito all’emigrazione in Sudafrica sono proprio quelle montane e appenniniche dove la micro-proprietà contadina era più diffusa e dove, allo stesso tempo, era impossibile sopravvivere senza integrare il reddito della terra con attività extra agricole.
La scaltrezza e l’esperienza permisero a molti di loro di cambiare rapidamente mestiere, di trasformarsi in contadini, artigiani e imprenditori a seconda delle opportunità e di sapersi infilare nelle strette maglie di questo particolarissimo mercato del lavoro.
Qualche anno fa Paolo Cresci si espresse in questo modo:

Ho sempre rifiutato di ritenere l’emigrazione appartenente ad una classe subalterna in quanto penso che l’uomo, specialmente durante la sua esperienza all’estero, sia stato subalterno soltanto al proprio “io”, o tutt’al più alla sua famiglia, spesso molto numerosa25

Credo che anche per chi abbia intrapreso la via del Sudafrica possano valere le sue parole.

Note

1 L’unica monografia esistente sugli italiani in Sudafrica è quella di Sani, Gabriele, Storia degli Italiani in Sudafrica, 1489-1989, Edizioni Zonderwater Block, Emendale 1989. Sebbene voluminoso e ricco di dettagli interessanti, lo studio si presenta di carattere descrittivo e inaccurato dal punto di vista critico e bibliografico.

2 Mi riferisco soprattutto a Chiara Ottaviano, la quale nell’ambito della realizzazione delle ricerche sui biellesi del mondo, ha contribuito notevolmente ad indagare il caso specifico sudafricano. Si veda Ottaviano, C., Fortune, travagli e privilegi dei biellesi in Sudafrica, in L’emigrazione biellese nel ‘900, vol. II, Electa Milano 1988. Mentre diverse interviste ad alcuni protagonisti sono state pubblicate in Albera, D., (a cura di) , Memorie d’altrove. Testimonianze e storie di vita dell’emigrazione biellese, raccolte da  N. Parolai, M.R. Ostuni, C. Ottaviano, D. Albera, P. Audenino, in Biellesi nel Mondo. Documenti, vol. III, Electa Milano 2000.

3 Cape Colony Papers (da qui a seguire CCP), G.19 -’81, Report on Emigration for the year 1880.

4 Sull’argomento non vi sono monografie a stampa. Per una buona illustrazione della tematica rimando a CCP, G.39 -’93, Labour Commission, 1893.

5 Feinstein, Charles H., An Economic History of South Africa. Conquest, Discrimination and Development, Cambridge University Press, Cambridge 2005.

6 Worgen, W. H., South Africa’s City of Diamonds. Mine Workers and Monopoly Capitalism in Kimberley, 1867-1895, Yale University Press, New Haven and London, 1987.

7 Turrel, R., Kimberley: Labour and Compounds, in Marks, Shula, Rathbone, Richard, (a cura di), Industrialisation and Social Change in South Africa. African Class Formation, Culture, and Consciusness, 1870-1930, Longman 1982.

8 Tra le tante analisi storiografiche si vedano di Davies, Robert H., Capital, State and White Labour in South Africa. 1900-1960. An Historical Materialistic Analysis of Class Formation and Class Relations, The Harvester Press, Brighton 1979, e di Bickford Smith, Vivian, Ethnic Pride and Racial Prejudice in Victorian Cape Town. Group Identity and Social Practice,1875-1902, Cambridge University Press, Cambridge 1995,  p. 66.

9 Cape Town Repository Archives (KAB), Magistrate Court (MOOC), Cape Death Notices, 1832-1916.

10 Per la storia dello sviluppo urbano della città di Cape Town rimando a Worden, N., Van Heyningen, E., Bickford-Smith, E., Cape Town. The Making of a City. An Illustrated Social History,  David Philip, Kenilworth 1998 e a Bickford Smith, Vivian, Ethnic Pride and Racial Prejudice in Victorian Cape Town. Group Identity and Social Practice,1875-1902, Cambridge University Press, Cambridge 1995.

11 Per un’accurata descrizione degli italiani in Africa del Sud agli inizi degli anni ’90 dell’Ottocento rimando a Carpani A., Rapporto del Regio Console avv. Agostino Carpani, Cape Town, 7 settembre 1891, in MAE, Emigrazione e Colonie, Rapporti dei RR. Agenti Diplomatici e Consolari pubblicati dal R. Ministero degli Affari Esteri, Roma 1893.

12 Il dato è stato pubblicato su «L’Eco dell’Industria» del 6 gennaio 1897 ed è citato in Ottaviano, C., Fortune, travagli e privilegi dei biellesi in Sudafrica, cit., p. 250.

13 Si veda ad esempio Ottaviano C., L’immagine e le vicende dell’emigrante biellese nella stampa dell’epoca, in Ramella, F., Ottaviano, C., Neiretti, M., L’emigrazione Biellese fra Ottocento e Novecento, Electa, Milano 1896.

14 Le ricorrenti crisi economiche e le ripercussioni sull’instabile mercato del lavoro nel Transvaal sono ben documentate dalla regolarità con cui venivano pubblicati i rapporti informativi delle autorità consolari italiane che sconsigliavano vivamente l’emigrazione verso queste regioni. Per questo rirmando a MAE, «Bollettino del Ministero degli Affari Esteri», 1895-1910 e al Regio Commissariato per l’Emigrazione, «Bollettino dell’Emigrazione», 1903-1910.

15 Nederlandsche Zuid Afrikaansche Spoorwegen Maatschappy (NZASM), Report of the Netherlands South African Railway Company for the year 1899, p. 10.

16 Battisti P., Corrispondenze dall’Africa, in «L’Esplorazione Commerciale», 1894, p.12.

17 Oltre alla numerosa corrispondenza inviata dal Barone Morpurgo, reggente il Consolato italiano di Pretoria sui così detti Farmieri e contenuta nell’ Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri (ASMAE), Affari Politici, Serie Politica P, buste 608-609, rimando anche alla dettagliata descrizione lasciata dal Commissario per l’Emigrazione Adolfo Rossi in Rossi, A., Le questioni del Lavoro nell’Africa del Sud, in «Bollettino Emigrazione», 1903.

18 Sull’organizzazione delle piccole società d’appalto che affondano le loro radici sin dalla fine del Settecento si veda di Audenino P., Emigrazone e Mestiere: il caso di un gruppo di edili piemontesi, in «Studi Emigrazione», 87, 1987.

19 Sono moltissime le testimonianze raccolte in ASMAE, sia in Affari Politici, Serie Politica P, pos. 559, Transvaal, sia nel Fondo Serie Z del Contenzioso, pos. 559 bis, Transvaal.

20 Si vedano ad esempio in Natal Archives Repository (NAB), Natal Coloy Papers (NCP), Immigration Restriction Department Annual Report, per gli anni 1905-1907, oppure l’interrogazione parlamentare presentata alla Camera dei Deputati, Discussioni, Legislatura XXI del 23 marzo 1904, p. 12032a.

21 Streak, M.,  Lord Milner Immigration Policy for the Transvaal, 1897-1905, MA in History, Faculty of Arts, Rand Afrikaans University, 1969 e Cammack, D., The Rand at War, 1899-1902. The Witwatersrand & the Anglo-Boer war, University of Natal Press, James Currey, Pietermaritzburg and London, 1990.

22 NAB, Immigration Restriction Department (IRD), vol. 17, ref. 391/1903, Memorandum by Immigration Restriction Officer, Port Natal, to accompany the Colonial Secretary’s letter to the Agent-General of the 30th May 1903.

23 KAB, Colonial Office (CO), Naturalisation Papers, 1883-1910.

24 ASMAE, Fondo serie Z del Contenzioso, Busta 150, fascicolo 1770, Posizione Individuale, Lettera B, SF 32, Bullio Angelo.

25 Cresci, P., Viva l’America che si mangia se si vanga.. La Garfagnana e l’Emigrazione, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 1991.