La “sezione lavoro ed emigrazione” del Museo Provinciale della Vita Contadina, Cavasso Nuovo (PN)

Inaugurata nel 2000, la “sezione lavoro ed emigrazione” si articola in dodici ripartizioni, nelle quali sono esposti circa quattrocento pezzi tra utensili da lavoro, oggetti personali, fotografie nonché documenti pubblici e privati. Agli oramai immancabili esemplari di passaporti, pagine di diario, corrispondenza epistolare (essenziale per illustrare i canali d’informazione attraverso vie parentali), immagini di gruppi di operai in posa di fronte all’obiettivo nei cantieri o sugli altri luoghi di lavoro e petizioni per l’acquisizione della cittadinanza statunitense, che accomunano un po’ tutti i musei di questo genere, si aggiungono alcune carte della Mosaic and Terrazzo Workers’ Association of New York and Vicinity, il più antico sindacato dei mosaicisti e dei terrazzieri, che sono fonte d’interesse non solo per il visitatore ma anche per il ricercatore. Né manca l’altrettanto irrinunciabile settore per celebrare le realizzazioni dei friulani all’estero, sebbene la ricostruzione denoti un intento meno agiografico del consueto che lascia spazio non soltanto agli imprenditori di successo ma anche alla scrittrice per l’infanzia Syria Poletti e al pedagogo Antonio Cassettini.
Nell’accompagnare il visitatore con una serie di pannelli che spiegano e contestualizzano quando viene mostrato, l’allestimento ripercorre le vicende del fenomeno migratorio della popolazione delle Prealpi Carniche, collocandolo nell’ambito della più vasta esperienza italiana, richiamata soprattutto da grafici e planisferi con i dati quantitativi sull’esodo e sulla presenza friulana e italiana all’estero. Il percorso espositivo
si dipana integrando l’ordine cronologico predominante con alcuni specifici approfondimenti tematici sincronici. La ricostruzione di questa vicenda plurisecolare attraverso i suoi grandi snodi storici è così affiancata dall’illustrazione di questioni trasversali nel tempo. Da un lato, viene definita una possibile periodizzazione delle fasi dell’esodo: la migrazione premoderna dei tessitori di panni di lana e degli ambulanti;
quella preindustriale di scalpellini, boscaioli, carpentieri e dei primi terrazzieri; le partenze definitive alla volta del Brasile e quelle stagionali verso l’Europa centrale e orientale nella seconda metà dell’Ottocento; gli espatri alla volta di Francia, Argentina e Stati Uniti nel primo dopoguerra a seguito dell’esaurirsi dei flussi verso le mete precedenti e il nuovo esodo dopo il secondo conflitto mondiale. Dall’altro, viene descritta la condizione femminile – le mogli degli emigranti rimaste al paese e le donne emigranti loro stesse come balie, venditrici ambulanti o braccianti – nonché la fondamentale funzione delle scuole professionali nell’offrire quella specifica formazione richiesta da particolari mercati della manodopera.
Attenzione viene prestata anche all’emigrazione di ritorno – dopo il pensionamento, per le destinazioni europee come la Svizzera, e in occasione di congiunture economiche sfavorevoli, nel caso sudamericano e soprattutto argentino – così come alla più recente trasformazione del Friuli da luogo di partenza dei suoi abitanti a meta di immigrazione proveniente da fuori d’Italia. L’accento posto su questi ultimi aspetti, nonostante l’insistenza sull’ampio ventaglio delle attività svolte dagli espatriati dalla pedemontana pordenonese (non solo i portatori delle vocazioni professionalizzanti della zona d’origine quali terrazzieri, mosaicisti e piastrellisti, ma anche scalpellini, tagliapietre, fabbri, carpentieri, squadratori di traversine oltre che braccianti generici), risulta proficuo per evitare il rischio di una lettura dell’emigrazione quale mero “lavoro italiano all’estero” che è stato a lungo insito in numerosi musei di questo tipo.
Più in ombra restano i fattori espulsivi. Il “gi pal mont”, cioè l’andare per il mondo, è presentato come il tentativo di realizzare in maniera un po’ generica un “desiderio di miglior fortuna” che si sofferma raramente a definire in dettaglio le condizioni economiche di partenza. Si può ragionevolmente cogliere in questa prospettiva l’eco di un certo orgoglio friulano. Del resto, le categorie di migranti che caratterizzarono l’area pedemontana – mosaicisti e terrazzieri – costituirono per la loro alta specializzazione una sorta di aristocrazia operaia che finisce ancora oggi per essere di per se stessa motivo di vanto per la loro terra d’origine.
Nell’allestimento non trova risalto, con molta probabilità per motivi di indisponibilità di fondi anziché per scelta museologica, quella componente di supporti audiovisivi che rappresenta oramai parte integrante di percorsi espositivi analoghi negli Stati Uniti – anche quando li si trova collocati in ambienti di estensioni modeste – per la capacità che tali strumenti rivelano nel coinvolgere il visitatore pure La “sezione lavoro ed emigrazione” del Museo Provinciale attraverso un rapporto di tipo interattivo. L’impostazione del museo denota anche quella dimensione locale che prevale ancora largamente in Italia. Nel caso specifico tale approccio deriva pure dal tentativo deliberato di valorizzare la microesperienza di una realtà geografica circoscritta e con una particolare formazione professionale nel settore del mosaico e del terrazzo che l’ha resa diversa da altre aree della stessa regione alle quale non la si è voluta omologare nella memoria collettiva.