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Amy Bernardy e il primo congresso di etnografia

Il Cinquantenario dell’Unità d’Italia (1911) e l’emigrazione

a cura di Giovanni Pizzorusso

Maddalena Tirabassi

 

Amy Bernardy e il primo congresso di etnografia

 

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Nel 1911, mentre tutti gli sforzi del giovane stato italiano erano concentrati sulle celebrazioni del primo cinquantennio della nazione per unificare anche culturalmente l’Italia – per portare a compimento cioè il progetto di “fare gli italiani” – un piccolo gruppo di intellettuali, radunati attorno alla scuola fiorentina di Lamberto Loria e Ferdinando Martini, introduceva in Italia l’etnografia1. La nuova disciplina si proponeva di studiare le molteplici tradizioni regionali e locali che costituivano i costumi popolari italiani. Un’operazione che, puntando l’attenzione più sulla diversità che sull’omogeneità italica, andava apparentemente controcorrente, ma che venne riassorbita nei decenni successivi nel discorso statuale. L’esame del ruolo di Amy Bernardy in questo processo consente di approfondire tale momento poco noto della storia italiana che tocca un nodo destinato a riproporsi fino ai giorni nostri.

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Il lavoro degli italiani all’estero nell’Esposizione internazionale di Torino del 1911

Il Cinquantenario dell’Unità d’Italia (1911) e l’emigrazione

a cura di Giovanni Pizzorusso

 

Patrizia Audenino

 

Il lavoro degli italiani all’estero nell’Esposizione internazionale di Torino del 1911

 

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1. – L’Italia in mostra

Per celebrare i cinquant’anni dell’unificazione del paese, vennero progettate nel 1911 tre esposizioni, rispettivamente a Torino a Firenze e a Roma, in modo da distribuire equamente fra le tre successive capitali del nuovo regno le occasioni di festeggiamento e, probabilmente, di richiamo turistico e di conseguente vivacizzazione economica. Ciascuna delle tre esposizioni venne dedicata a un tema dominante, che in qualche modo intendeva riflettere le vocazioni culturali e le caratteristiche economiche di ciascuna città: a Roma si sarebbero allestite una mostra archeologica, una artistica e un’altra etnografica, a Firenze una mostra del ritratto, corredata da mostra floreale e da un’esposizione internazionale di orticoltura. Mentre a Torino spettò di rappresentare i progressi dell’industria e del lavoro, che sancivano il nuovo ruolo di capitale industriale d’Italia, assunto dal capoluogo sabaudo1.

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L’Abruzzo migrante dall’Unità d’Italia alla Grande Guerra

Modelli Regionali di Emigrazione

 

Piero Berardi

 

L’Abruzzo migrante dall’Unità d’Italia alla Grande Guerra

 

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1. – Il territorio e la sua economia

Gli studi sul Mezzogiorno d’Italia da qualche decennio hanno rivalutato le forme più mature dei vari aspetti della storia locale inserendoli nel più ampio ambito della storia nazionale1. In tale contesto si inquadra la storia dell’emigrazione regionale, che contribuisce ad analizzare la realtà locale dal punto di vista economico, culturale e sociale2.

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Il centenario di un cinquantenario: un’introduzione


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Il Cinquantenario dell’Unità d’Italia (1911) e l’emigrazione

a cura di Giovanni Pizzorusso

 

Giovanni Pizzorusso

Il centenario di un cinquantenario: un’introduzione

 

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Oltre il loro aspetto celebrativo, gli anniversari hanno certamente l’effetto di far riflettere gli storici di professione e, auspicabilmente, i loro lettori e commentatori riguardo al passato del loro paese. In vista del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ci è venuta la curiosità di vedere come è stato considerato il fenomeno migratorio italiano nelle occasioni commemorative precedenti che, come è noto, seguono un ritmo cinquantennale. Il tema delle migrazioni da e in Italia, pur se attualmente risuona quasi quotidianamente nel bombardamento mediatico ed è senz’altro al centro del dibattito politico, non è di quelli che abbiano trovato nella storiografia patria una presenza costante, come è rivelato tuttora dai testi di storia per la scuola oppure dagli insegnamenti universitari. Un tema minore, si direbbe, ad onta della sua permanente centralità nella storia della società italiana. Inoltre la tradizionale, pur se ormai obsoleta, considerazione delle migrazioni come una fuga dalla povertà ne fa un tema poco attraente in un’occasione commemorativa, in un momento di esaltazione delle patrie glorie. Se però gli anniversari sono momenti di bilancio e di revisione storiografica, soprattutto nella prospettiva di valutare la diffusione di un tema nella coscienza storica collettiva, non ci pare allora inutile fare almeno un piccolo e limitato test per vedere se e quanto il tema migratorio sia stato presente nelle occasioni cinquantennali.

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“ … noi qua stiamo tutti bene”. Lettere di emigranti bergamaschi 1959-1972

“ … noi qua stiamo tutti bene”. Lettere di emigranti bergamaschi 1959-1972
di Ettore Janulardo

 

 

Forma di comunicazione storica, la lettera dell’emigrante si declina in una pluralità di momenti episodici sottesi da una comune logica: avvicinare i lontani, rendere presenti e tangibili gli assenti, o almeno la carta da loro vergata. Struttura mitopoietica del contatto – della negazione-riaffermazione della lontananza – le lettere dall’emigrazione mutano senza trasformarsi, inglobando in un procedere descrittivo immutabile orizzonti invisibili, non descritti né afferrati: viaggi di carta, ove è la carta – forse più ancora delle persone – a viaggiare.

Le lettere che qui si presentano sono scritti di emigranti bergamaschi residenti in diverse aree europee ed extra-europee, negli anni tra il 1959 e il 1972[1]. Di diverso tono e spessore, talvolta lunghe e accorate, a volte brevi e improntate a un forte spirito attivo – disbrigo di pratiche burocratiche, richiesta di favori o di oggetti da ricevere nella nuova terra di soggiorno – costituiscono nel loro insieme una geografia socio-economica, ma anche storica e linguistica, dell’emigrazione italiana recente, spesso proveniente da aree che, in tempi a noi vicini, sono diventate terra d’immigrazione e di difficile convivenza con l’“altro”.

All’interno di questo territorio lombardo, aree di difficile accessibilità – come ad esempio la Valle di Scalve situata all’estremità nord-orientale della provincia di Bergamo, di cui rappresenta oltre il 5% del territorio, racchiusa tra monti che superano i 2.000 metri – si servono per secoli dell’apporto fondamentale di donne e bambini nell’ambito di un precario equilibrio economico tra attività agricola, silvo-pastorale e mineraria, usufruendo, nel corso della loro storia anche recente, della valvola di sfogo costituita dall’emigrazione: si ricordano, per la prima metà del XIX secolo, movimenti migratori di minatori e di operai locali diretti verso il Regno di Sardegna, in una dinamica in cui gli “spostamenti a medio raggio s’innestano su una realtà fatta di migrazioni periodiche a breve raggio”[2], essenzialmente per le attività estive delle aziende agricole della pianura. Nell’ambito internazionale, Svizzera, Francia, Belgio, nonché Africa, America (meridionale e settentrionale) e Australia, rappresentano mete tipiche dell’emigrazione bergamasca.

 

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Migrazioni in area ticinese, tra pratiche transnazionali e geometrie identitarie (XVI – inizio XX secolo)

Migrazioni in area ticinese, tra pratiche transnazionali e geometrie identitarie (XVI – inizio XX secolo)

 

Luigi Lorenzetti, Università della Svizzera italiana, Mendrisio

 

 

 

1. Emigrazioni e transnazionalismo: le prospettive della storia alpina

 

Negli ultimi anni, un innumerevole numero di studi ha individuato nel transnazionalismo il tratto distintivo delle migrazioni contemporanee[1]. Connesse al processo di globalizzazione e alla diffusione dei moderni mezzi di comunicazione, esse avrebbero acquisito forme e contenuti inediti rispetto alle migrazioni del passato e in grado di esprimere forme identitarie fondate sulla bifocalità e sullo sviluppo di campi sociali che collegano in modo sempre più diretto i paesi di partenza e quelli di arrivo.

La prospettiva transnazionale, ampiamente seguita dai sociologi delle migrazioni, non ha mancato di suscitare riserve e critiche. Tra gli storici, in particolare, è stata più volte messa in dubbio la portata euristica del concetto, come pure la pretesa originalità storica del transnazionalismo di molte migrazioni contemporanee. In particolare, oltre ad evidenziare la difficoltà a definire i contorni e i contenuti delle identità transnazionali[2], sono stati evidenziati i rischi di “de-storicizzazione” della sociologia del transnazionalismo e la necessità di una più marcata attenzione alle somiglianze e alle differenze che caratterizzano i vari periodi storici[3]. D’altra parte, è stato sottolineato che nelle realtà migratorie non esistono (e non sono mai esistiti) soggetti definibili come transnazionali; il “transnazionalismo” si definisce e di esplica infatti attraverso “pratiche” espresse e messe in atto dal basso, dai comportamenti individuali, familiari e comunitari.

In breve, più che illustrare i contenuti storicamente inediti delle migrazioni contemporanee, il transnazionalismo, costituisce una chiave di lettura utile a mettere in risalto rotture e scarti nella storia delle pratiche migratorie[4] analizzando le diverse forme di relazione che collegano gli spazi di emigrazione e di immigrazione. In tale ottica, la lettura transnazionale può costituire un utile strumento per mettere in rilievo i fenomeni di lunga durata che costellano le migrazioni umane. Lo dimostrano gli svariati contributi che negli ultimi anni hanno portato nuova linfa agli studi sull’emigrazione alpina e al suo evolvere tra la prima età moderna e il XX secolo. Proprio dalle Alpi – area a cui appartiene il territorio ticinese oggetto di questa analisi – sono d’altronde scaturiti, in anni recenti, alcuni importanti impulsi alla storia delle migrazioni europee; impulsi che hanno alimentato il dibattito attorno alle connessioni – a volte esplicite, a volte più sottili e impalpabili – tra emigrazione e demografia[5], o a quelle tra emigrazione e organizzazione sociale[6], ma soprattutto attorno alla natura delle migrazioni che il ben noto assunto braudeliano aveva qualificato quali espressione della povertà e del sovrappopolamento.

Questi impulsi hanno inoltre permesso di mettere in rilievo molti aspetti inerenti i contenuti transnazionali di numerose esperienze migratorie alpine. Basti pensare all’intima relazione che lega i luoghi di approdo e di lavoro alle comunità di partenza dei migranti e, più specificatamente, alla stretta connessione economica e affettiva che sottende la divisione dei compiti fra gli uomini che partono e le donne che restano[7] o ai movimenti di ritorno che, come le partenze, sono scandite dagli innumerevoli progetti migratori e dalla loro connessione con le logiche della riproduzione familiare[8].

Su tale prospettiva, i flussi migratori sviluppatisi in area ticinese tra il XVI e il XIX secolo costituiscono un campo di analisi particolarmente esemplificativo. Pur accomunandosi in larga misura alle pratiche migratorie presenti in gran parte dell’area alpina italiana, in questa regione esse si caricano di particolari implicazioni, dettate dal suo percorso politico-identitario. Infatti, nonostante la dominazione elvetica – debole e superficiale – non abbia intaccato l’ordinamento politico e giuridico locale costituitosi in epoca comunale, le terre ticinesi dell’epoca moderna appaiono come un territorio “intermedio”; un’area italiana nello spazio svizzero, alla quale si sovrappongono delle identità composite, modellate dall’emigrazione e segnate dalla frammentazione e dai molteplici localismi. In questo contesto, partenze e ritorni concretizzano un “transnazionalismo integrato”[9] in cui il senso di appartenenza ai luoghi di origine è nutrito dai ritorni e dalle rimesse. È d’altronde attorno a queste ultime che si esemplifica con maggior chiarezza il diffuso transnazionalismo proprio dei flussi migratori alpini[10]. Una gestione che, lungi dal riguardare unicamente l’equilibrio (micro)economico delle unità familiari e delle comunità locali, mette in gioco anche i processi identitari e di autorappresentazione individuali e collettivi. Tale aspetto permette quindi di affrontare il tema del transnazionalismo delle pratiche migratorie mettendo a fuoco i legami, non sempre lineari, tra le pratiche transnazionali e lo “spazio vissuto” degli emigranti[11].

Prima di addentrarci più dettagliatamente nella questione, è tuttavia opportuno delineare i tratti essenziali del sistema migratorio dell’area ticinese e la sua evoluzione tra il XVI e l’inizio del XX secolo.

 

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