Gli italiani in Brasile – IV° parte

Le trasformazioni politiche del Brasile

Nel 1888 il regime politico brasiliano cambia radicalmente. Pedro II si reca in Europa e nel mese di marzo la figlia Isabella, che regge l’impero in assenza del padre, abolisce definitivamente la schiavitù. L’ira dei grandi possidenti terrieri non è probabilmente sufficiente a motivare una sollevazione politica, anche perché la decisione era prevista da tempo. Infatti il ruolo e la visibilità del partito repubblicano e del movimento abolizionista erano divenuti sempre più notevoli. Tuttavia il malumore dei grandi proprietari si fonde con le rivendicazioni dell’esercito, con lo scontento di molti maggiorenti per l’inefficienza del gioco dei partiti – sino ad allora mediato dall’imperatore, che, però, adesso è malato – e con la scarsa simpatia della Chiesa cattolica per una casa regnante che vuole leggi favorevoli alla libertà di culto, alla laicizzazione della scuola e al matrimonio civile. Le diverse componenti della protesta si coagulano e portano alla rivoluzione del 15 novembre 1889 e all’instaurazione della repubblica. Il generale Manuel Deodoro da Fonseca diviene il primo presidente brasiliano e inaugura la stagione dei capi di stato incapaci dal punto di vista amministrativo, ma proni davanti all’esercito e ai grandi possidenti. In compenso il nuovo regime penalizza la gerarchia cattolica, che, autorizzata dalla Santa Sede, avvia nel dicembre del 1889 segreti pourparlers, ma non riesce a evitare la separazione tra Chiesa e Stato.

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Per una storia politica dell’emigrazione

Emigrazione e terrorismo

Il terrorismo politico rappresenta un capitolo a parte nella storia dell’emigrazione, poco esplorato e dai connotati instabili, ma sicuramente non marginale, come dimostra anche la sua incombente presenza sulla cronaca quotidiana. Poiché la vicenda del terrorismo italiano ha ormai concluso un suo ciclo storico, che prescinde dalle residuali parentele con gruppi di fuoco attivi in anni più recenti, è forse possibile suggerire alcune ipotesi interpretative, senza la pretesa di giungere a conclusioni che avranno bisogno di un più lungo periodo di maturazione e di ben altro materiale documentario.
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Per una storia politica dell’Emigrazione

L’emigrazione fascista e neofascista nel secondo dopoguerra (1945-1985)

1. Premessa
Fino ad alcuni anni fa in una rassegna sull’emigrazione politica italiana l’inclusione di un saggio dedicato agli espatri dei fascisti dopo il 1945 e al ruolo da essi svolto all’estero, nelle comunità di connazionali, sarebbe probabilmente stata considerata una bizzarria.

Dei fascisti emigrati si erano infatti perse completamente le tracce già pochi anni dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, quando la vittoria democristiana del 18 aprile 1948 sancì la definitiva chiusura della resa dei conti con il fascismo in tutte le sue articolazioni legali e non (giustizia sommaria, processi per collaborazionismo, epurazione degli apparati dello stato). L’anticomunismo divenne la cifra dei nuovi governi centristi e l’antifascismo fu costretto sempre più sulla difensiva. Le responsabilità e le colpe individuali erano già state cancellate, in nome della pacificazione nazionale, dall’amnistia del giugno 1946; quelle collettive del paese durante il fascismo furono rimosse.
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Per una storia politica dell’emigrazione

Emigrazione italiana e antifascismo in esilio

Agli specialisti è ben noto, sin da quando il tema incominciò ad essere oggetto di indagine storiografica al principio degli anni Cinquanta, che il tratto distintivo dell’emigrazione antifascista italiana, subito evidenziato da un’analisi comparativa delle migrazioni politiche novecentesche, è la rilevanza del nesso tra esilio politico e diaspora economica, determinato da due distinti fattori1.
In primo luogo va ricordata la composizione dei flussi in uscita dall’Italia nei primi anni Venti, caratterizzati dalla nutrita presenza di lavoratori la cui decisione di spostarsi all’estero nasceva non solo da ristrettezze economiche patite in Italia, ma anche, e in molti casi soprattutto, dal bisogno di “cambiare aria”, di abbandonare luoghi di residenza nei quali la vita si era fatta rischiosa ed insostenibile a causa degli attacchi dello squadrismo fascista e la possibilità stessa di conservare o trovare un’occupazione era compromessa dalle intimidazioni, dall’emarginazione sociale e dai veri e propri “bandi” con cui i fascisti, divenuti padroni del territorio, colpivano i militanti più in vista, sul piano locale, della sinistra politica e sindacale.

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Per una storia politica dell'emigrazione

Asei 4 – Per una storia politica dell’emigrazione

Per una storia politica dell'emigrazione  PER UNA STORIA POLITICA DELL’EMIGRAZIONE
Collana ASEI 004 – ISBN 978-88-7853-091-1 – Anno 2008 – 244 pagine – € 25.00

Leggi le prime 10 pagine (159,77 KB)

ASEI 4 si propone di esplorare i rapporti tra emigrazione e politica: in particolare la convivenza nello stesso destino individuale di migrazione economica e politica, ricerca del lavoro ed esilio, nonché la rielaborazione e la diffusione in ambito migratorio di tematiche politiche. Per dare maggior fiato a tale analisi le ricerche proposte vanno dal fuoriuscitismo dopo i primi moti risorgimentali all’esperienza dei terroristi neofascisti e di estrema sinistra negli anni Settanta.

 

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Le elezioni politiche italiane del 9 aprile 2006 in Germania

Diciamo la verità. Noi italiani che viviamo in Germania eravamo convinti che soltanto una minoranza dei circa 650 mila italiani qui residenti avrebbe votato. Prima ancora che ci giungessero a casa i plichi con le schede elettorali, ci venivano in mente le percentuali ridicole (meno del 10%) della partecipazione a scadenze importanti come le consultazioni amministrative comunali tedesche, alle quali noi stranieri comunitari siamo ammessi, oppure le cifre ancora più basse del voto per eleggere i Comitati consultivi degli stranieri (organismi a livello locale). Tutte esperienze diventate lo specchio di un disinteresse sconcertante e pericoloso dei nostri connazionali.
Un altro “dubbio” della vigilia era la domanda: a cosa serve avere una rappresentanza al Parlamento di Roma, quando non ne abbiamo una a Berlino? Al Bundestag la comunità turca ha cinque rappresentanti, quella italiana zero. Gli italiani sono arrivati in Germania, con in mano i primi contratti di lavoro per l’industria e l’agricoltura tedesche, ben cinquanta anni fa e le condizioni della loro vita vengono dettate dalla politica tedesca, non da quella italiana.
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