Corrispondenze popolari fra le Americhe e l’Italia durante la prima guerra mondiale

  1. Se gli epistolari, come diceva Goethe, sono la forma letteraria più perfetta e se la ricerca finalizzata all’analisi di quelli fra essi che scaturiscono dal dialogo a distanza fra soggetti incolti o semicolti di estrazione sociale assai modesta ha suggerito ormai da lungo tempo di operarne una opportuna (ri)valutazione sotto i più vari profili (linguistico in primis, ma poi pure sociologico e storiografico), le corrispondenze private della gente comune e di alcune particolari categorie di scriventi (emigranti, soldati, artigiani e persino contadini e lavoratori rurali), quand’anche sprovviste di ambizioni o di preoccupazioni di tipo letterario, rappresentano, com’è oggi quasi unanimemente riconosciuto, una fonte preziosa per lo studio del recente passato[1]: esse, del resto, costituiscono, qui, l’oggetto di una ormai vasta bibliografia in costante espansione[2].

A fronte della mole obiettiva di tante scritture “povere” prodotte nell’arco degli ultimi due secoli e divenute infine tema di ricerca per molti contemporaneisti, si registrano, è vero, la frammentarietà, l’esiguità in sé e la natura sovente disorganica o discontinua delle serie di comunicazioni recuperate e a suo tempo in circolo, assieme a chissà quante altre andate poi perdute, fra diversi interlocutori appartenenti ai più bassi strati sociali. Ma ciò non impedisce a quanto ce ne rimane di svolgere, come fonte, una funzione importante per quanto concerne l’ampliamento delle nostre conoscenze sui processi di formazione d’un particolare segmento della “sfera pubblica”[3], quale si venne configurando nel mondo occidentale tra la metà del secolo XIX e quella del secolo successivo

Indotti o meglio costretti a servirsi della posta ordinaria da necessità in prevalenza pratiche e materiali ovvero, di norma, da fattori per antonomasia divisivi di separazione come le migrazioni, il servizio di leva, le guerre, i viaggi di lavoro ecc., gli autori di una grande quantità di lettere popolari diventano a propria insaputa protagonisti di una rivoluzione culturale non priva di ripercussioni. Il loro numero si accresce a dismisura massime fra il 1915 e il 1918 non solo in rapporto ai livelli di alfabetizzazione e di acculturazione scolastica ai quali si era allora pervenuti (a loro volta in crescita o in via di costante incremento fra le popolazioni subalterne europee sin dalla fine del secolo XVIII[4]), bensì a causa di quella “bulimia” di scrittura, com’è stata chiamata da più parti, e generata proprio dalla guerra, che spinge soprattutto chi sia al fronte e comunque, lontano da casa, sotto le armi, a ricercare e a mantenere contatti il più possibile stretti con il “mondo di prima”. Il che porta a un accumulo di materiali epistolari di cui gli storici si avvantaggiano e del quale essi non possono trascurare l’utilità e la rilevanza anche se l’idea di applicare a questo genere di corrispondenze (e di corrispondenti) criteri e metodi di una raffinata ecdotica dei carteggi, riservati per definizione agli scambi epistolari “alti” ossia intercorsi fra uomini e donne di buona cultura o, anche più spesso, fra mercanti e imprenditori, fra politici e diplomatici ecc., risale poi, tutto sommato, a tempi assai recenti[5] dovendosi considerare a parte i primi esperimenti di analisi compiuti da linguisti, come in Francia Charles Bonnier, o da sociologi, come in Italia Filippo Lussana, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo[6]. Io stesso, per fare il caso personale di uno che pervenne abbastanza per tempo alla valorizzazione delle lettere della gente comune, sostanzialmente al fine di meglio inquadrarne e illustrarne la condizione all’interno di grandiosi fenomeni demografici, sociali ed economici di cui aveva appena cominciato a interessarsi, presi spunto per la prima volta quarant’anni fa, quasi all’inizio della mia carriera di storico delle migrazioni e dopo essermi imbattuto fortunosamente in essa, dalla lettera sgrammaticata di un contadino, il quale si era rivolto in cerca d’aiuto per trasferirsi in America proprio al suo patrono e padrone[7]. Quel documento isolato si era conservato, però, tra le carte del destinatario – proprietario terriero, politico e notabile di rango, delle quali avrei più tardi curato pure l’edizione[8] – solo come rudimentale fascicolatore di missive altrui considerate ben più importanti e per tale motivo da questi sistematicamente archiviate. La casualità del ritrovamento mi indusse a inevitabili riflessioni e a più serie ricerche sfociate poi nella pubblicazione di un intero libro di “lettere contadine”[9] e mi spinse quindi a prender parte con giovanile entusiasmo, qualche anno più tardi, alla federazione dei primi archivi della scrittura popolare sorti frattanto in Italia[10], ma anche alla nascita, di poco successiva a Pieve S. Stefano di Arezzo, del grande Archivio Diaristico Nazionale a cui, dal 1984 in poi, sono man mano affluiti migliaia di piccoli fondi per oltre metà autobiografici e memorialistici, ma non di rado pure epistolari, messi a disposizione di solito da privati di tutta la penisola (o da italo discendenti residenti all’estero)[11]. Si tratta nel complesso, a mio avviso, di una peculiarità “abbastanza italiana”[12], che ha trovato tempestivi riscontri soprattutto in Spagna[13], ma ch’è quasi ignorata in America Latina ed è rimasta a lungo poco conosciuta o marginale anche nel mondo anglofono degli studi, dov’era stato d’altro canto più precoce e ben più ampio lo sforzo di analisi delle fonti epistolari, specie se scaturite dalla grande emigrazione (dai tempi di Theodor C. Blegen , Alan Conway, Arnold Barton, Charlotte Erickson ecc. a quelli di Kerby Miller, David Fitzpatrick, Witold Kula, David Gerber ecc.[14]). Dai suoi sviluppi fra gli anni ‘80 del Novecento e i giorni nostri escono sempre più confermate, comunque sia, l’esistenza e la fruibilità per l’Italia d’un gran numero – e di una ricca varietà – di scritture popolari nonché, per ciò che concerne l’epistolografia, d’una quantità assai rilevante di lettere. Esse in effetti, avevano costituito sino alla fine del secolo scorso e ancora dopo l’avvento della telefonia di massa, il mezzo più frequente di contatto per mantenere rapporti interpersonali a distanza tra soggetti motivati a scriverle, ancorché illetterati e spesso provvisti soltanto di sommarie competenze linguistiche o sintattico grammaticali accompagnate magari da abilità, nella grafia, men che precarie[15].

Oggi, com’è noto, un tale fenomeno, proprio quando cominciava ad essere studiato a fondo, avvantaggiandosi di sistematiche trattazioni da parte della critica storica, sembra prossimo a fare i conti con “la definitiva scomparsa della lettera tradizionalmente scritta a mano” (che appare a molti sempre più vicina[16]), e si sta come affievolendo avendo ormai perso o smesso di mantenere proporzioni e fattezze paragonabili a quelle in auge nei secoli XIX e XX[17].

Quanto meno in Italia, nel volgere degli ultimi cinque anni, si è assistito al crollo verticale degli scambi di lettere e di cartoline. La posta cartacea è stata man mano sostituita da quella elettronica perché la gente, anche quella “comune”, si appoggia sempre di più a piattaforme digitali, spedisce e-mail (144 miliardi al giorno nel 2014) e utilizza, per comunicare, i social forum condividendo in tempo reale persino le fotografie e facendo ricorso a Facebook (730 milioni di commenti quotidiani), a Twitter, a WhatsApp (50 miliardi) e a Instagram. Assieme al flusso delle corrispondenze tradizionali è diminuito via via, significativamente, anche il numero degli addetti alle consegne (i postini celebrati un’ultima volta in film e romanzi da Antonio Skármeta e da Massimo Troisi e oggi anche da Andrej Konchalovskij) sicché la contrazione del traffico postale privato è ormai sotto gli occhi di tutti. Il declino, nel mio paese, è stato uno dei più elevati al mondo e infatti in soli cinque anni (benché vi abbia forse contribuito anche la gigantesca crisi economica pressoché concomitante e tuttora in atto) ha visto diminuire dal 2009 al 2013 il volume delle corrispondenze del 39% con un calo sempre più accentuato. Solo nel 2012, ad esempio, gli invii postali ammontavano in Italia a 4800 milioni di unità scesi poi, nell’anno successivo, a 3700 milioni con un arretramento del 22% in appena dodici mesi[18].

Il crepuscolo della scrittura a mano, insomma, è indubbio e dà luogo a varie discussioni[19], ma anche a riflessioni oscillanti fra nostalgia e malinconia come avviene oggi nei libri di Simon Garfield e di Shaun Usher che alle lettere, persino nella loro materialità, hanno eretto una sorta di monumento antologico alla memoria, naturalmente di carta[20]. Esso ha già riscosso fra tanti lettori inglesi e americani, un eloquente favore in evidente controtendenza rispetto alla cruda realtà “postale “ dei fatti quasi a voler esorcizzare e sciogliere “quel groppo in gola “ che a molti procura l’idea di una imminente fine della scrittura manuale, con tutto ciò che essa aveva rappresentato per secoli, già implicita nella risposta data anni fa da Maria Corti all’inquietante interrogativo “Porterà il computer alla distruzione della scrittura?”.

 

Forse la gente del futuro pagherà il biglietto d’ingresso e andrà nei musei della scrittura a guardare i manoscritti come ora alle mostre dei codici miniati […]. Una guida allora spiegherà alla gente riunita nelle sale del museo che un tempo nell’uomo c’era un rapporto diretto fra la sua oralità e la sua scrittura e quest’ultima proteggeva sul bianco della pagina l’individualità di chi aveva la penna in mano e produceva una personale grafia. Sì, perché scrivendo a mano gli uomini avevano calligrafie diverse gli uni dagli altri e persino ciascuno da se stesso per via della pluralità degli stati d’animo registrati nelle grafie e per via del passare del tempo: grafie della giovinezza, grafie della maturità. E tutto questo scrivere a mano faceva parte della comunicazione. Era a suo modo già un linguaggio…[21]

 

Con questo intendo appena ricordare l’incidenza e l’importanza che in diversi momenti del recente passato, comunque la si pensi, ebbero gli scambi epistolari anche in forza del contributo offerto, e presumibilmente da essi fornito a larga maggioranza, dagli stessi corrispondenti popolari. Nel corso dell’intero Novecento, per venire alle questioni di cui vorrei occuparmi qui, a partire dalla grande guerra e in occasione del suo svolgimento, fu come se essi avessero concorso a potenziare e a intrecciare per frazioni un immenso e ininterrotto dialogo privato – mai privo di conseguenze – assurto a tratti, ma solo in parte, a pubblica notorietà (attraverso la sua ripresa, differita talvolta di poco, in periodici e quotidiani e poi in saggi, articoli e libri), cui gli storici politici non possono non guardare con speciale attenzione. Rispetto ai linguisti e agli stessi studiosi di storia sociale essi potrebbero infatti essere attratti dalla possibilità di approfondire ulteriormente, tramite l’analisi di lettere della gente comune, la questione del formarsi, in età contemporanea e a ridosso di congiunture come le guerre mondiali, di circuiti mentali e persino di opzioni ideologiche attribuite di norma, quanto a genesi, alla sola azione di fattori esterni tutti intuibili e in sé già abbastanza conosciuti (la collocazione sociale, l’istruzione, il dérapage culturale, l’influsso di modelli espressamente proposti dall’alto, la propaganda bellicista veicolata dalla stampa ecc.), ma di rado messi veramente a confronto con i percorsi più intimi e complessi che ne ostacolarono e complicarono o che anche ne resero possibile la riuscita spiegandone infine l’influenza (quando vi fu) e, altrettanto efficacemente, i frequenti limiti come appare ad esempio nella “nascita dal basso”[22], apparentemente contraddittoria, non tanto di prevedibili convinzioni classiste, quanto di un certo sentimento patriottico e nazionale[23].

Il tema che vorrei affrontare adesso intende concentrarsi dunque precisamente su quest’ultimo punto e concerne le corrispondenze popolari fra le Americhe e l’Italia durante (e di fronte a) la prima guerra mondiale con particolare riguardo per il peso che in esse ebbero i sensi di appartenenza identitaria e di fedeltà politica prestata alle diverse “patrie” più e meno coinvolte nel conflitto.

Nel privilegiare pochi frammenti dell’immensa interazione maturata in uno “spazio epistolare transatlantico” preesistente[24], qui fra Italia, Argentina e Brasile nel corso del conflitto durato dal 1914 al 1918, mi occuperò quindi di varie lettere di emigranti, di emigranti soldati e dei loro familiari. Ad esse mi appoggerò, lo dichiaro in partenza, sulla scorta di una piccola letteratura storiografica e ancor più attingendo a un insieme di lavori[25] (nonché, da ultimo, persino a un libro eterodosso[26]) da me stesso realizzati fra il 2000 e il 2014.

 

  1. L’ammontare delle lettere e delle cartoline movimentate dalla prima guerra mondiale in Francia e in Italia, ed ancor più in Germania e nel Regno Unito, si numera, come si sa, a miliardi[27]. In seno a tale movimento postale trovano posto documenti riconducibili a due principali tipologie di fondo, quelle che raggruppano le corrispondenze per così dire militari, redatte cioè da combattenti e da soldati al fronte, e quelle, scritte a sollecito o in risposta da casa, dei loro conoscenti e familiari. Per entrambe si dispone di una casistica ormai abbastanza consistente di studi e di edizioni (più e meno critiche) di carteggi e di epistolari popolari che gettano luce su atteggiamenti mentali, su scelte e su sentimenti largamente diffusi nelle file degli eserciti e tra le popolazioni civili di molte parti d’Europa[28]. Integrando le risultanze derivanti dallo spoglio di altre fonti così archivistiche come a stampa (ministeriali, giornalistiche, politiche, diplomatiche ecc.) ad essi senz’altro più congeniali, gli storici politici vi hanno fatto ricorso sin qui soprattutto per documentare genericamente i diversi stati d’animo della gente in divisa e in borghese e gli orientamenti fatti propri in via generale dalle opinioni pubbliche dei vari paesi, messe a confronto con le loro macchine di propaganda, dinanzi alle emergenze e alle congiunture belliche di maggior rilievo (le forme del combattimento, la vita di trincea, gli assalti, le diserzioni, la prigionia, gli imboscamenti ecc. da un lato, la vita agra, le ristrettezze economiche, la fame, il profugato e, non da ultimi, i contraccolpi psicologici sul privato delle persone da un altro[29]). Un aspetto che è stato meno studiato, quanto meno in modo sistematico, e sul quale invece ho ritenuto pour cause di dovermi soffermare e interrogare anche qui, concerne la dinamica delle stesse relazioni epistolari in tempore belli una volta che esse si fossero sviluppate tra differenti parti del mondo più interessate dalla metà dell’Ottocento in avanti, e sino allo scoppio della grande guerra, dal succedersi delle maggiori ondate di emigrazione transatlantica[30].

Alla volta del 1914 tali ondate avevano generato e dislocato a nord e a sud del nuovo continente numerose discendenze europee, etnicamente caratterizzate ed assai folte, di coloni, di braccianti e di lavoratori tutti partiti dall’Europa in direzione delle Americhe nei decenni precedenti (o ancora in spola con esse) che stavano vivendo allora, dopo cinquant’anni ed oltre d’insediamento stabile, la stagione più vivace della propria esistenza al nuovo mondo. Essendo formalmente costituite da gruppi immigratori tuttora distinti o distinguibili su basi linguistico culturali e non ancora pienamente assorbiti nelle realtà d’accoglienza per il loro obiettivo articolarsi in robuste collettività, soprattutto urbane, dotate di reti associative proprie, d’istituzioni economiche abbastanza potenti e sovente anche di giornali di qualche importanza, la guerra determinò al loro interno e nelle stesse cosmopolitiche società di accoglienza un insieme di reazioni e di mutamenti che influirono se non altro sulle politiche dei governi americani di fronte alla guerra europea e al problema, per essi non meno importante, dell’integrazione e del controllo, come che fosse motivato, dei cittadini stranieri non naturalizzati. Mediamente sia negli Stati Uniti, a cui non potrò riservare qui uno spazio adeguato, che nei maggiori Stati latinoamericani di cui mi occuperò invece a preferenza come l’Argentina e il Brasile – da poco stretti in un embrione di collaborazione politico economica con il Cile (il celebre ABC) – i più autorevoli fogli etnici fattisi rapidamente portavoce dei propri connazionali (per l’Italia “Il Progresso Italoamericano” a New York, “La Patria degli Italiani” a Buenos Aires e il “Fanfulla” a San Paolo) trascinandosi appresso una pletora di testate “coloniali” minori denotarono da subito la propensione a sostenere, quasi senza riserve, la causa dei rispettivi paesi di origine così come fecero in effetti anche gli organi di stampa tedeschi o, sul piede di una neutralità filo germanica, quelli spagnoli. Quotidiani grandi e piccoli cominciarono così a concedere spazio e persino ad offrire consigli alle autorità dei paesi ospiti in merito all’opportunità o meno di scendere in campo a fianco dell’uno o dell’altro dei due contendenti enfatizzando le ragioni della più “giusta” scelta sulla falsariga delle opinioni costruite dalle opposte macchine propagandistiche. Quelli italiani, dopo l’entrata nel conflitto del paese di provenienza dei loro direttori, redattori e lettori, com’era già successo agli inglesi e ai francesi[31] e assai meno, a causa del blocco navale britannico, ai tedeschi o ai sudditi dell’Impero asburgico e della Turchia, si trovarono poi alle prese anche con il fenomeno del volontariato per la partenza, quasi “spontanea” e immediata, ma spesso diversamente motivata al suo interno, di migliaia di cosiddetti riservisti: nel caso dell’Italia, tra il 1915 e il 1918, più di 100 mila dagli USA (da non confondere con gli altrettanti soldati di nazionalità italiana arruolati pressoché “a forza” dopo l’aprile del 1917 nell’esercito nordamericano e mandati tutti a battersi sul fronte occidentale), circa 42 mila dall’Argentina e dall’Uruguay e probabilmente 12 mila dal Brasile. Molti di questi “volontari” finirono per occupare in quei giornali uno spazio grandissimo, con le loro fotografie e con le loro storie da essi stessi raccontate in presa diretta ossia proprio tramite lettere d’ogni tipo inviate dall’Italia e specialmente dalle zone d’operazioni che la stampa etnica, quasi per intero ormai filo alleata, si preoccupò di pubblicare con regolarità ed enfasi quasi ossessiva dall’inizio alla fine del conflitto trovando un debole controcanto, ossia un riscontro sporadico e di modestissima entità, nelle testate filotedesche, massime del Brasile, sopravvissute in certe zone, come ad esempio quelle del sud tra Santa Catarina e Rio Grande do Sul, dove oltre ai discendenti degli emigrati germanici a fianco degli Imperi centrali e contro l’Intesa si schierarono, fra l’altro, i fogli italofoni dei coloni trentini teoricamente, in un’ottica italiana, “irredenti”, ma in realtà sudditi fedeli di Francesco Giuseppe[32]. Dovunque la pratica della pubblicazione di lettere dei soldati, magari nati e cresciuti al nuovo mondo e tuttavia andati ad arruolarsi nell’esercito del Regno, innervò polemiche e dibattiti anche aspri sul tema della nazionalità che non mancarono d’influire in qualche misura sulle decisioni di politica estera degli Stati ospiti e, almeno all’apparenza, sull’orientamento stesso delle grandi comunità immigratorie con esiti peraltro non tutti scontati e, nel caso di USA, Argentina e Brasile, anche abbastanza discordanti fra loro com’è stato ottimamente spiegato in un libro recente da Olivier Compagnon[33] (l’Argentina, ad esempio, sotto la guida dei radicali di Hippolito Yrigoyen rimase saldamente neutrale mentre il Brasile, a rimorchio degli Stati Uniti, entrò in guerra, pressoché pro forma, solo nell’ottobre del 1917).

Le lettere degli italo discendenti in grigioverde, che videro la luce numerosissime sui giornali d’oltreoceano, quando non venissero anche riprese proprio di qui, non differivano gran che da quelle di ispirazione patriottica che nell’Italia in guerra la stampa riceveva dai soldati e veniva pubblicando a sostegno del loro ruolo nel conflitto: sarebbe oltremodo ingenuo attendersi da esse, se pur scritte sul serio da testimoni oculari o da veri combattenti, qualcosa di diverso dall’accumulo di luoghi comuni della retorica bellica nazionalista con spreco di demonizzazioni del nemico, con esortazioni continue alla lotta e al sacrificio e con descrizioni di contorno, in sé attendibili ma spesso stucchevoli o calligrafiche, dei luoghi e dei contesti delle battaglie, delle trincee, degli assalti alla baionetta, dei bombardamenti e così via.

La censura (o come la chiamavano con mille nomignoli i soldati: “la Signora Censura”, “Madama Anastasia” ecc.) e ancor più l’autocensura a cui comunque si trovarono a dover sottostare, consapevolmente, tutti i mittenti, altro o di più non consentiva, ma alla luce dei materiali oggi disponibili in stesura originale si può aggiungere che entrambe agirono con discreto successo anche nei confronti di quanto poteva essere scritto nelle lettere inviate dai familiari e dai conoscenti dei militari rimasti invece in America al di là del fatto che qualcuno, più ingegnoso o temerario di altri, prospettasse loro la possibilità di sfruttare espedienti di autotutela epistolare abbastanza elementari (come quello ingenuo suggerito da Fiorindo Quacquarini, un marchigiano emigrato più volte in Argentina e di stanza nell’ottobre del ’16 in zona di guerra, che notificava a sua moglie: “per la metà del mese che viene, salvo qualche contrordine, partiremo da Milano per nova destinazione, e se al caso dove andiamo tutto il battaglione [è] completo, non potendotelo scrivere te lo scriverò sotto il francobollo e ora che ce lo sapete, lo staccarete pian piano oppure vi scrivo poco e lascierò mezzo foglietto in bianco il quale non si conoscierà niente e lo scrivo col sugo del limone, e per leggerlo lo scaldarete sopra il fuoco, [badando] però di non farlo bruciare. Credo che mi sia bene spiegato…”)[34].

Sull’opera della censura ai danni delle lettere dei combattenti ci sarebbe sempre da ricordare come essa sia stata di qualche vantaggio per gli storici a cui è rimasto il lascito di molte missive intercettate e non fatte più proseguire dalle autorità militari. Si tratta ovviamente di lettere a senso unico quanto a contenuto ovvero quasi sempre contrarie alla guerra e molto critiche sulle modalità della sua gestione da parte degli alti comandi, degli ufficiali e in genere dei “potenti” che non devono farci dimenticare, però, l’esistenza di un numero anche più elevato di messaggi di segno invece, e di spirito, contrario.

Tali lettere tuttavia, se hanno per così dire il difetto di non essere mai giunte a destinazione, ci consentono nondimeno di esaminare da vicino le reali preoccupazioni di alcuni dei mittenti, i loro effettivi punti di vista e infine i loro dubbi e i loro ripensamenti rispetto al conflitto, al sangue e alle sofferenze che esso stava comportando e dunque ai limiti opponibili al patriottismo bellicista. Una certa quantità di esse, interessanti anche dal punto di vista linguistico e dirette per lo più in America (ma pure nei paesi d’emigrazione italiana rimasti neutrali come la Svizzera o alleati dell’Italia come la Francia) si conserva presso alcuni archivi di Stato e in particolare in quello centrale di Roma da dove molti ne ha tratti più di vent’anni fa Giovanna Procacci[35]: analogamente non sarebbe da trascurare il fatto che pure tra le lettere dei prigionieri di guerra italiani edite a caldo (1921) da Leo Spitzer nel corpo di un suo famoso libro – tradotto in Italia con un ritardo di oltre mezzo secolo[36] – risuona qua e là la voce dei soldati venuti più o meno di loro volontà dagli Usa e dal Brasile, dall’Uruguay e dall’Argentina a battersi in Europa attraversando in momenti diversi l’oceano.

Il sequestro e il conseguente blocco di tante lettere dirette in America e provenienti dalle zone di guerra – effettuato in prima battuta dall’Ufficio di censura dell’Esercito dislocato a Treviso “dal quale passava gran parte della posta [in arrivo] dal fronte” [37], (ma in una seconda istanza, per le sole corrispondenze dirette all’estero, anche nei due centri di controllo analoghi stabiliti a Milano e a Bologna) – poteva talora dipendere semplicemente dal fatto che, contravvenendo ai divieti vigenti, esse contenessero accenni o indicazioni troppo precise sui luoghi e sui reparti di appartenenza dei mittenti. Tuttavia la maggior parte delle lettere finite negli archivi pubblici di Stato, come quello del Tribunale supremo militare perlustrato dalla Procacci e prima ancora da Forcella e Monticone, devono la propria conservazione a esigenze ispettive o, più di frequente, di carattere inquisitorio-processuale sicché in esse, come s’è detto, prevalgono comprensibilmente, le ragioni di una ripulsa e di una critica serrata della guerra e dei suoi orrori, spesso anche a prescindere dalla correttezza militare dei comportamenti osservati di fatto da chi le aveva scritte. Benché quelle ragioni non escludano del tutto che accanto alla protesta ci sia spazio per note affettive e familiari assai spiccate[38], le lettere intercettate e dirette oltreoceano da combattenti che vi abbiano lasciato amori e parentele documentano in prevalenza la delusione e lo sconcerto assieme al disgusto e alla condanna delle modalità e delle forme del conflitto, della vita di trincea e così via senza risultare necessariamente o sempre collegate ad una concreta opzione antimilitarista. In un messaggio tra i più suggestivi che si conoscano inviato da S. Maria La Longa il 21 febbraio 1916, un allievo ufficiale di fanteria italo argentino che si firma Bepi, a riposo da quasi dieci giorni in quella località destinata a divenire tristemente famosa un anno più tardi per le vicissitudini occorse proprio alla Brigata Catanzaro nella quale egli era stato incorporato, si rivolge a una donna di nome Antonietta, probabilmente un’amica o una sorella lasciata a Rosario di Santa Fé, innanzitutto per descrivere in dettaglio le azioni compiute dal proprio plotone sul Carso onde riconquistare a prezzo di enormi sacrifici il “dirupato villaggio di Oslavia da cui si può vedere, vicinissima, la contrastata Gorizia in tutta la sua capricciosa bellezza di cittadina slava. Son otto mesi – scrive Bepi – che quasi tocchiamo Gorizia e intanto…. sulla sua intangibilità vegliano ancora, arcigni e sicuri, i due formidabili monti che la dominano: il monte Sabotino e il Podgora. Sulle pendici dei due colossi preme costante, veemente, impetuosa la nostra offensiva… ma il nemico par si sia abbarbicato, che abbia messo radici in quel suolo e resiste, resiste!… Ogni metro di quella terra è stata concimata col sangue d’un soldato d’Italia”. Il mittente, dotato di buona cultura, padroneggia assai bene l’italiano e si dilunga per molte pagine mettendo in luce uno scetticismo religioso fuori dell’ordinario (si autodefinisce “eretico”), ma denotando anche una estrema lucidità di giudizio con frasi che meritano di essere riprodotte per esteso:

 

Carissima Antonietta

 

Ti ho annoiata parlandoti molto di Oslavia ma, cosa vuoi che ti avessi scritto? Posso parlarti di vita cittadina mentre mi trovo in una baracca? Posso parlarti di avventure amorose e di conquiste mentre sono in lotta, più che con gli austriaci, con i pidocchi?!!! Ti ho parlato perciò della guerra, di questa guerra che tante energie distrugge, che tanti cuori di madri schianta! Voi che siete all’estero – e un po’ anche i grassi borghesi che son in Italia – della guerra sapete solo quello che leggete nei giornali….Sono così belli gli articoli dei nostri corrispondenti di guerra…. quasi quasi, fan venire la voglia di combattere anche alle donne!….Infatti una stupida – che si crede colta – signorina, mi scriveva da Napoli: “ portatemi, a guerra finita, un pezzo dell’orecchio destro di Francesco Giuseppe!…- Se io, donna, potessi trovarmi al vostro posto, sarei orgogliosa di soffrire per la Patria! “ E ti par poco per una donna? Ma quella signorina, pur essendo stupida, se avesse visto qualche testa volare, qualche grappolo di uomini sparire, allo scoppiar di un obice, senza che se ne possa ritrovare neppure un osso…allora mi avrebbe scritto altrimenti!

Si parla della guerra e la si chiama: “Igiene della razza”, e chi così parla della guerra non ha tutti i torti. A furia di leggere sui giornali cose che riguardano la vita del soldato, chi da questa vita vive lontano, si forma la convinzione che la guerra sia una gran palestra di ginnastica […] Ma purtroppo nella guerra moderna ci si muove o eccessivamente, o niente! Quel ch’è vero, è l’umidità, è l’acqua che gonfia le gambe ai soldati e popola gli ospedali!…Quel ch’è più certo ancora è l’arrivo di una pallottola, lo scoppio d’una granata che tengono il soldato continuamente coi nervi tesi facendogli pensare alla morte mille volte in un giorno […] In tutto questo inferno che è la guerra moderna, non devi immaginarti, cara Antonietta, un Peppino eternamente imprecante alla nequizia umana! Tutt’altro…il mio buon umore non mi ha mai abbandonato e, pur senza esser stato un eroe, nel senso leggendario della parola, posso dirti di aver fatto tutto il mio dovere di soldato non ricorrendo mai ad alcun strattagemma per salvare la pelle. Ho avuto la forza di ridere anche quando veniva dato l’ordine di [as]saltar la trincea. Infatti, è inutile addolorarsi soverchiamente….le pallottole vengono anche quando si è preda del dolore!

 

Negli sfoghi epistolari dei soldati semplici e semi colti che vorrebbero far percepire ai destinatari i motivi del proprio dissenso, il tasso di patriottismo, nonostante una spesso implicita rassegnazione, scema senza ombra di dubbio, per non dire ch’è assente o comunque ripudiato. Al suo posto s’insediano, più e meno confuse, idee di rivolta e letture classiste del conflitto (“ci anno fatto scatenare contro il proletariato e scannarci come tanti maiali – comunica nel 1916 ad un amico di Buenos Aires un soldato – per l’interesse di chi? Certamente non per noi ma bensì per i signori e la monarchia […] qui in trincea non si vede altro che operai e contadini”). E anche queste idee si accompagnano ad una critica se possibile sempre più aspra della propaganda svolta dai fogli in lingua italiana d’America i quali imperterriti continuano invece a pubblicare lettere di volontari rassicuranti e intrise di retorica bellicista[39]. Dalle “aspre trincee del Val Piccolo “, reduce da due assalti sul Col di Lana, così notifica, nell’aprile del 1916, un soldato rimasto ignoto scrivendo a Buenos Aires :

 

Do. Giovanni,

Queste nascoste parole sono per fargli conoscere le falsità del Giornale Bonerenze [sc. del giornale bonaerense ossia “La Patria degli Italiani “]. Ricordate? Quando codesti giornali pubblicavano nella loro rubrica che pochi chilometri gli mancavano per raggiungere Trieste? A!….Mondo falso nessun giornale può dare le sorti della guerra, metre loro attingendo quella fetida carta bianca ill’udevano la pacifica popolazione col pubblicare dei comunicati falsi è pieni di corbellerie. Perché an voluto tenere celati gli ostacoli e i disaggi della attuale guerra?

Sì, stolto fui acredere a tutto quello che non era altro che piena bugiarderia , le fatalità dell avita furono tale, e adesso dove miritrovo? E come? Mi ritrovo al macello degli ambiziosi è privo di ogni libertà? […] A! Natura fai giustizia su di quelli che sono stati causa di tale martirio.

Svolgendovi ancora qualche cosa, sulle avanzate e una cosa di orribile spavento, si avansa sulle imense alture dei monti e ci sono 3-4 metri di neve mentre il tenacie fuoco di artiglieria e mitragliatrice non tralascia di battere le nostre fibre, noi andiamo in cerca di qualche piccolo rialzo che fa il terreno per poter mettere là capo al coperto-

Ma chie chi tefastare al coperto, i nostri famosi ufficiale indietro con lafamosa mauser in mano esclamando, avanti vigliacche seno vi sparo. Costretti per andari all’assalto. Quando è dopo che sie conquistato? Una 50 di metri di roccia viva. Quanti sono i morti? 500-600, se condo lenorme dell’accidentabilità che permette il terreno, A! …poveri compagni caduti…O!… Alfitte madre anchio voglio aiutarvi al vostro pianto per i vostri cari figlioli che tanto sacrificio vi costò per allievarli, è adesso sie perduto per la conquista di un miserabile pezzo di terreno – Questo è il risultato della Guerra.”

 

L’eco dei canti popolari che rimbalzano dalle prime linee sino al fronte interno (“Voi care mamme che soffrite così tanto, per allevare la bella gioventù …”), com’era sin troppo noto al fior fiore degli interventisti, ma persino ai vescovi e al clero[40], si contrappone talora al ricordo degli inni patriottici intonati alla partenza dai moli di Buenos Aires, di Santos, di Rio de Janeiro ecc. A un corrispondente porteño così confida il soldato M. nell’agosto del 1916:

 

che ti pare, mio caro amico Luigi? Che noi altri qui, non solo che facciamo i sacrifici più grandi, che non l’avrei fatti nemmeno se avessi veduto la mia famiglia morire di fame, tu certamente potrai immagginare quanto sia sacra la famiglia […] Tu stesso puoi sapere come io partivo di Buenos Aires che entusiasmo io avevo? Quei giorni dimmi tu stesso dove se neandò, perché viste tante è tante cose, che io qui non posso dirtile, altrimenti la censura non la farebbe arrivare alle tue mani è perciò conviene tacere. Ti dico pure che del giorno che sono partito non conosco più il letto, la nostra lana sono le pietre il fango! Ha se tu vedessi! […] Quante e quante volte noi stessi diciamo, solo la morte potrebbe fare finire tutte queste sofferenze. Altro come taluni che miscrivevano che per la patria non si guardano le sofferenze, tutti questi che dicono di questo modo li vorrei vicino a me, e poi dopo due giorni li domanderei, per vedere la loro risposta – anche io come sopra ti scrissi ero uno dei più patriotta altrimenti non sarei venuto di Buenos A[ires]…

 

Il rimpianto per il gesto compiuto in uno sventolio frenetico di bandiere tricolori lasciando i porti sudamericani gremiti da folle di connazionali festanti (molti dei quali, a quanto pare, continuavano a mandar lettere ai riservisti perché perseverassero nell’impegno patriottico assunto) è palese e viene condiviso da altri volontari italo argentini o italo brasiliani con i riservisti partiti al pari di loro per l’Italia, ma dagli Stati Uniti uno dei quali, solo per fare un esempio a conferma, rivolgendosi al nipote rimasto in California, esclama in una missiva datandola “Dal fronte, 20.9.1916”:

 

Ricordo i tempi passati colì che differenza da questi! Cos’ò fatto venir in Italia! che gran peccato avrò fatto per essere punito in questo modo? Se avessi sognato di una cosa così, per certo sarei rimasto in America. Il bel tempo che si conosce solo quando è passato […] Caro nipote, te sei bene, e pensa bene a quel che fai prima di ficcarti in testa di venir in questi paesi, qui la civiltà è scomparsa completamente […]sta pure dove sei e dimentica[li] che è tutto quello che posso consigliarti. Di parte mia maledisco l’ora che ò fatto ritorno, te sai benissimo che io sono sempre stato all’estero e o sempre fatto buona vita: ma appena messo piede in Italia, vedi il compenso? Il compenso è che noi alpini siamo in prima linea fino ai quarant’anni […] In conclusione:

Sono molto pentito di essere rimpatriato, questa guerra mi rovina completamente […]

Censura o non censura, io non posso dire bene di questa guerra, è non credi ai giornali che dicono sempre all’incontrario di quel che pensa il popolo. Tutti desiderano la pace, omvece i giornali dicono all’incontrario. Amen

 

Alle recriminazioni nei confronti di ciò che si era stati o di ciò che si era pensato della guerra prima di venirla a fare in Italia si accompagnano le messe in guardia e gli inviti rivolti ai parenti in età di leva di cui s’invidia ora la condizione perché non si sognino di venire in Italia “a far la guerra”:

 

Carissimo Cognato – scrive indirizzando a Córdoba il suo messaggio nell’aprile del 1916 un soldato italo argentino – quarda che avenire in nitaglia sono molto pasticci sevedesi quado si combatte sivede la gente a cadere per terra come le moscie […] sono gia cose che fanno piangere fina le pietre […] Tue sei statto ancora fortunato che ancora statto in mericaal tremente sarebbe anche te afare il soldato che da 40 anni sono Tutti sotto alle armi fino 18 anni si pol dire che sono tutti sonto quelli di prima e quelle di terssa e anche i ri formati pri cipia da la classe del 1876 fino alla classe del 1897 sono Tutti sotto

 

La sfiducia nei resoconti a stampa del conflitto e le polemiche a distanza con i giornali considerati ovunque colpevoli di omissioni, manipolazioni, falsi ecc. non mancano mai di far capolino nelle lettere come quest’altra, sempre del 1916 e diretta a Buenos Aires dalla zona d’operazioni, da cui traspaiono elementi contraddittori che allo spirito di corpo e all’orgoglio regionalista uniscono punte evidenti di antimeridionalismo, chissà se coltivato in Argentina anche dal destinatario (“terra matta”, com’è noto, al pari, per via di terremoti, eruzioni ecc., di “terra ballerina” e aggettivazioni simili, veniva usata dai settentrionali per designare i loro commilitoni del Sud alias “terroni”). Chi scrive qui è un alpino, senz’altro piemontese, di Buenos che dialoga con un fratello residente oltreoceano assieme a vari cugini:

 

Se la fortuna di ritornare potrò avere Mio caro ti saprò raccontare… Quanto bisogna ancora vedere sui giornali quando ci sono dei voti se vene 50 contrario alla guerra cene sono un mila in favore. E nel vedere che non è una guerra vera; ma lo è bensì un macello.

Intanto noi siamo sempre su pei monti e teniamo tutto il fronte cioè il povero piemonte si prende quello che non si merita, questo lo vediamo noi e lo sentiamo che quelli bassa terra molto escendo che adesso abbiamo il cambio piangano già dicendo così! Poveri noi, poveri noi? Se andate via voialtri alpini come faremo noi? Oh! Poveri noi! Ma chi la brutta e sempre noi ora per fare le avanzate i reggimenti piemontesi ci sono più e con quei farabutti di terra matta non potevano più far nulla così ne mettono noi, ma saranno serviti avanti e non anderemo no: e no

 

Bisognerebbe, naturalmente, poter disporre di una quantità adeguata di riscontri ovvero di risposte puntuali in arrivo dall’America a lettere di questo (e di altro) tenore per formarsi, come vedremo in parte qui sotto, una idea più precisa di molte questioni legate alla guerra o generate dal suo seno. Sta di fatto, comunque, che una porzione non del tutto trascurabile del traffico postale da e per il fronte attraversò comunque l’Atlantico dando vita a un flusso d’informazioni e di valutazioni per così dire transnazionali alle quali si è per lo più guardato sin qui soltanto di sfuggita e senza speciali approfondimenti. È quindi su questo punto che intendo concentrare d’ora in avanti la mia attenzione servendomi di pochi altri carteggi, editi ma anche inediti, ai quali farò riferimento a proposito dell’Argentina e del Brasile da dove partono e dove arrivano, tra il 1915 e il 1918, lettere a mio avviso alquanto emblematiche o almeno indicative, sotto un profilo anche linguistico, dei problemi che si trovarono a dover affrontare tanto i soldati “italoamericani” quanto i loro amici e parenti rimasti in America al riparo dagli orrori delle guerra guerreggiata, ma non certo dalle sue conseguenze che oltreoceano si fecero molto sentire e che furono essenzialmente di carattere economico.

Non mancano nemmeno qui di farsi largo, va rilevato, gli effetti delle vulgate propagandistiche a causa della persistenza almeno in alcuni settori sociali dell’emigrazione di idee patriottiche acquisite da un discreto numero di immigrati (persino contadini) già prima di partire dall’Italia (per formazione scolastica, per tirocinio militare ecc.) e rafforzate con maggior facilità dall’opera di persuasione e di convincimento svolta in America da scuole e giornali etnici già da prima dello scoppio della guerra con una impennata significativa nel 1911 al tempo della cosiddetta Impresa di Libia. Ed è questo un dato di cui pure occorre tener conto come avviene nel caso dei fratelli bellunesi Bissacot (brasilianizzati in Bissaccotti) Felice, Angelo e Augusto, giunti in Rio Grande do Sul nel 1892 e studiati da Daniele Gazzi, in particolare del secondo dei tre alcune delle cui lettere spedite sino agli anni venti e altre scritture ancora (annotazioni, poesie, componimenti ecc. conservati in originale o in copia presso archivi privati e pubblici sia di qua che di là dell’Atlantico) trasudano sensi patriottici e una carica inattesa di ortodossia monarchico militare.

 

Poco più che ventenni al momento della partenza, essi [i fratelli Bissacot] avevano un’identità italiana pienamente sviluppata, costituita dalla lingua materna, da un’educazione religiosa di tipo cattolico e, nel caso di Angelo (1868-1944), da un fervido amor di patria appreso durante il servizio militare: resta incerto il cammino della loro acculturazione, ma è fuor di dubbio che dovette essere di un livello apprezzabile , specialmente in Angelo, i cui pochi scritti sopravvissuti all’iconoclastia familiare, rivelano una conoscenza almeno della Divina Commedia e dei Promessi Sposi. Nel nuovo contesto tale identità divenne un valore da preservare e si ingigantì mantenendosi sempre viva nonostante gli inevitabili compromessi con aspetti culturali nuovi[41].

 

Neanche tanto paradossalmente tale identità venne conservata “innanzitutto” dall’uso quotidiano del dialetto e dalla “passione per la scrittura in italiano” trovando costante alimento nella familiarità con giornali redatti in italiano o fatti arrivare apposta dall’Italia (come la divulgata “Domenica del Corriere” per rimanere abbonato alla quale Augusto spendeva ancora negli anni ‘20 circa 30 mila lreis l’anno al solo fine, scriveva, di “sapere le novità della patria”). Soprattutto negli anni della grande guerra, però, questo bisogno di tenersi informati sulle cose (e sulle sorti) della “nazione” si accentuò e si trasformò anzi in Angelo, che non a caso aveva fatto per tre anni il soldato a Bergamo con il grado di caporale prima d’emigrare in Brasile, in “patriottismo ossessivo”, lo stesso da cui era dipesa la sua scelta di chiamare i propri otto figli con nomi altamente evocativi (come Roma Venezia Zefira, Romana Itala Americana, Amadeo Garibaldi ecc. ) e lo stesso che fra il 1915 e il 1918 gli fece seguire le vicende delle armi italiane con crescente “apprensione fino a farlo soffrire di ‘nevralgia’”.

Anche tra i figli degli emigranti nati e cresciuti in America alla cui istruzione avevano provveduto le scuole italiane sorte fra Otto e Novecento in varie parti del Brasile sia urbano che rurale (di cui va notato che raggiunsero numericamente l’acme nel 1913[42]) fu abbastanza frequente un interessamento quasi “morboso” per gli alti e bassi della guerra com’era d’altronde già successo qua e là per le imprese coloniali dell’Italia in Africa. Pochi, in Brasile, tra quelli che avevano ricevuto una formazione d’impianto patriottico, presero in realtà la decisione, dopo il maggio del 1915, di arruolarsi nell’esercito italiano[43], ma per il nostro attuale punto di vista giova ricordare che la maggior parte di essi costituiva forse, tra le altre cose, anche il nerbo di quel contingente non irrilevante di persone giovani, alfabetizzate e dotate di sufficiente competenza che nei nuclei agricoli e nelle comunità immigratorie provvedevano poi, in veste di “scrivani”, a stilare per conto di familiari e conoscenti le lettere da inviare nell’Italia in guerra e a leggere inoltre, ai destinatari (parenti, amici, conoscenti), i messaggi che giungevano di là da soldati e da altri familiari, nell’esercizio remunerativo di una pratica certificata ora con prezzari e tariffe dalle rubriche economiche dei fogli etnici, ma in vigore, come si sa persino dal Manzoni[44], già nei contesti rurali di vecchio regime.

Senz’altro, per i più anziani, l’antefatto di un servizio di leva prestato nell’Italia umbertina a fine Ottocento quale produttore e garante di sentimenti patriottici e identitari destinati a venire allo scoperto con forza aumentata, dopo oltre vent’anni “d’America”, non fu, al tempo del primo conflitto mondiale, di modesta importanza o una prerogativa di pochi e isolati “fanatici”. Oltre al ricordato Angelo Bissaccotti riguardò persino emigranti di più recente arrivo e di fede addirittura socialista (ancorché riformista) sul tipo del cremonese Diego Morandi (1888-1961) il quale, espatriato nel 1911 e fissatosi anch’egli nel Rio Grande do Sul, da buon interventista democratico, dopo qualche esitazione, avrebbe fatto definitivo rientro in Italia nel 1916 per arruolarsi e andare a combattere al fronte[45]. Ciò che non fecero, a causa dell’età o per differenti motivi, molti altri emigrati rimasti comunque in contatto epistolare con l’Italia per i quali funsero da intermediari appunto scrivani e scrivanelli del genere appena evocato ma anche emigrati più anziani in grado di provvedere da soli alla bisogna come il legnaghese Ferdinando Meneghello il quale, ultrasessantenne, scriveva dall’interior di San Paolo negli anni più duri della guerra, lunghe lettere, come fra poco vedremo, grondanti un singolare patriottismo e che tuttavia si discostavano non poco da quanto nel frattempo venivano scrivendo, più o meno negli stessi frangenti e non diversamente da quelli italo argentini, la maggior parte dei giornali in lingua italiana del Brasile

Con l’eccezione della componente “sovversiva”, ovvero anarchica e socialista più classista e radicale[46], ad ogni modo, era stato almeno dai tempi della guerra di Libia (1911-1912) che grazie alla stampa in lingua italiana, ma non solo per suo impulso, si era manifestato vistosamente, in seno al mondo dell’immigrazione peninsulare in Brasile e in Argentina (ed anche al di fuori del subcontinente latinoamericano se è per questo), un’onda impetuosa di sensi nazionalistici veicolata e attestata da molte lettere e capace di spiegare (e di preparare) l’atmosfera d’infatuazione bellicista prodottasi all’estero con l’ingresso in guerra dell’Italia e durata quanto meno parecchi mesi se tra le corrispondenze private – condizionate forse, ma non tutte in assoluto influenzate, queste, dai giornali – se ne trovano abbastanza facilmente di tale tenore soprattutto dal 1915 all’inizio del 1917.

Una lettera indirizzata nell’ottobre del 1915 al ricordato Fiorindo Quacquarini non ancora sotto le armi e scritta nell’ottobre del 1915 da un suo compaesano, Augusto Cicconi, rimasto a Buenos Aires probabilmente a lavorare all’Hotel Majestic nella centralissima Avenida de Majo, lo documenta a dovere

 

…che fare, caro mio? In queste circostanze bisogna tranquillizzarsi, e speriamo con il tempo non lontano ricordare la nostra bella Italia venir grande, forte, orgogliosa e temuta sopra tutto, e che tutto questo sarà un beneficio di tutto il popolo nostro, e terminerà una buona volta la necessità di andare emigrando per il mondo, che tutti fino ad ora ci hanno e ci stanno esplottando […] Caro Fiorindo, le condizioni dellamerica è diventate disastrosissime, le proprietà non vale più niente, li viveri carissimi, il salario ridotto il minimo. Paralizzati i lavori […]. Basta pazienza, speriamo nell’avenire. Per mezzo dei giornali sentiamo con gioglia le batoste che i soldati ha dato e sta dacendo a quei selvaggi de austriaci. Qui nell’Argentina a tutta voce si elogia che il comando supremo generale dell’esercito Italiano è superiore a tutto il mondo, e noi tutti orgogliosi ce ne gloriamo. Del principio della guerra d’Italia sino oggi son partiti tutte le settimane vapori stracarichi di riservisti. Se ti fosti trovato una volta nel porto quando sale questi Vapori rimaresti stupefatto. Nel vedere il vapore pieno zeppo arrampicarsi i giovani partenti fino le punte dell’albero come un formichero che assale un tronco vecchio, e poi tutto il porto pieno zeppo di tutta classe di gente (meno i tedeschi) a salutare i partenti…Per mancanza di spazio termino col darti infiniti saluti…. E con un Evviva l’Italia Viva il Re e tutto l’esercito abbasso e morte a tutti i Tedeschi[47].

 

Fiorindo, che qualche mese dopo vestirà sul serio la divisa del regio esercito, è di carattere più scettico e disincantato del suo interlocutore italo porteño. Egli non condivide l’estremismo verbale e ideologico dell’amico, né mai si lascia andare ad invettive di questo genere, nemmeno quando il conflitto armato entra nel vivo alla vigilia e poi verso la fine della Strafexpedition tra la primavera e l’estate del 1916. A casa, anzi, fa sapere come, forte anche del suo status di furiere, egli sia riuscito, in zona di guerra, a far tesoro semmai di tante esperienze americane che ora sfrutta, ad esempio, per costruire, com’era già successo in Argentina, una piccola rete o “compagnia di paesani-soldati, con i quali si tiene assiduamente in contatto”[48] (il fenomeno degli scambi epistolari tra i soldati dislocati in punti diversi del fronte fu del resto rilevante e raggiunse punte più elevate proprio tra i volontari provenienti dall’America).

Fiorindo, sul proprio conto, ammette di avere forse poca istruzione ma si vanta di possedere sufficiente memoria e lucidità: “Veramente – scrive il 17 aprile del 1916 alla moglie [49] – mi sono trovato sempre bene quando feci il soldato da permanente, tanto quando mi recai nelle terre straniere e più adesso da richiamato, la quale fra mezzo agli altri tengo la testa che contiene la diligenza un po’ più [di loro], sebbene sia un semplice soldato”. E altrove, commentando la partenza per il fronte di molti compaesani, scrive di voler augurare a tutti loro “una buona fortuna, tutti amici, come l’altri l’avranno augurata a me nella mia partenza […] Con tutto ciò bisogna rassegnarsi alla volontà [di Dio] e al destino che quel che si fa che si dice e quello che stiamo facendo non si può dire a nessuno traditore. Che viene tutto per effetto di natura. E questa è la pianeta [sc. un destino] mondiale”. Così opinava Fiorindo incoraggiato forse anche dal fatto di trovarsi a prestare servizio, quasi da “imboscato”, in un ufficio abbastanza tranquillo più vicino alle retrovie che non al fronte. In alcuni passi di lettere da lui scritte in tale condizione emergono lo stesso, però, non solo le classiche preoccupazioni dell’epistolografia militare dei “fanti contadini” (con le analisi e le preoccupazioni per l’andamento climatico delle stagioni, per i raccolti, per i beni, per quanto piccoli, di proprietà, per le bestie della stalla e da cortile, per prestiti, debiti e crediti ecc.), ma anche un tipico fatalismo mescolato alla rivendicazione degli affetti e incline alla rassegnazione di fronte ai rischi e agli oneri che comunque la guerra comportava.

La rassegnazione, tipica della maggioranza dei soldati combattenti, compresi quelli che stavano in prima linea nelle trincee e andavano più spesso all’assalto, appare lontana sia dai toni e dai contenuti della propaganda bellicista della stampa e degli apparati militari o di governo e sia, ciò che più colpisce, dalla baldanza delle attitudini coltivate all’estero da chi si trovava a parteggiare (si potrebbe dire “a fare il tifo”) per la causa italiana: e quasi sempre per esprimere in tal modo l’orgoglio di essere (e di essere rimasto pur dopo tanti anni di permanenza all’estero) “italiano”.

Ferdinando Meneghello, il muratore originario di Legnago citato qui sopra di sfuggita e che era orgoglioso del suo figlio maggiore a cui riconosceva il merito di saper parlare e scrivere sia in italiano che in portoghese ( “il bresileiro – notava anzi – lo parla meglio dei bresileiri”) avviando una lunga riflessione sull’andamento della guerra premetteva, tanto per spiegare come lui la pensasse, “io non lo parlo e ne lo parlerò fin che vivo, il Brasiliero”[50].

In questa lettera, del febbraio 1917, spedita da Casa Branca (SP) spicca una demonizzazione insistita di Francesco Giuseppe destinato ad avviso del mittente a bruciare nei secoli dei secoli all’Inferno. In più c’è un panegirico dell’irredentismo trentino con l’ovvia menzione dell’“Eroico valoroso deputato di Trento Avocato Cesare Battisti” e con la ripresa d’un intero repertorio di scontate rivendicazioni territoriali italiane. C’è anche, a complemento dei giudizi riguardanti battaglie e combattimenti in atto, l’eco precisa di una incondizionata condivisione dei valori risorgimentali e dell’ammirazione per “quelli valorosi caduti che gridano vendetta dalle Tombe sacre dei Martiri di Belfiore sugli spalti di Mantova impicati” e poi per i fratelli Cairoli di Villa Glori, per i fratelli Bandiera, per Oberdan su su fino appunto a Battisti. Rivolto al vecchio padre, tuttavia, Meneghello domandava anche, sottolineando le differenze intercorrenti fra la situazione italiana e quella americana

 

E come vi immaginate che vada a finire questa maledetta guerra? Io credo che voi altri non siete tanto a cognizione quanto noialtri qui in America, perché noi abbiamo stampa libera, non ci abbiamo censura di dover essere passata la stampa dal procuratore del Re. La Repubblica è libertà individuale; terra libera, terra larga, terra lunga e terra fonda; qui non c’è da parlar basso come in Italia e in tutti gli altri statti di monarchia re od imperi; noi qui siamo liberi Cittadini onesti Operai e Artisti, e Industriali; siamo tutti lavoratori pari, e pari per il rispetto, per l’umanità e per tutto; far bene e non essere ubriaconi o vagabondi. E i bresilieri, o Portoghesi, o Spagnoli, o Alemani, Russi e Turchi , Cinesi, francesi tutti vi rispettano e vi danno lavoro, si divertono in compagnia la sera, fanno anche loro assieme con noi una partita a tressette e a briscola…

 

All’elogio dell’America come terra di libertà si accompagnava nondimeno la più aspra delle critiche dei suoi difetti (“Sapete cosa è la ricchezza dell’America, è salute e lavoro e nient’altro. Ora vi spiegherò: questa terra è una terra di brutalità di disonore: Becchi cornuti, e Puttane in quantità, ladri, assassini, falsari di monete, vagabondi; e questa gente sono gli Onorati i sapienti, i valenti, e assumono le prime cariche anche nelle Amministrazioni Americane; delle Fazende e come in Italiano si chiamano di Campagne e stabili ecc. ecc.”) mentre all’influenza esercitata sul mittente dalla più che probabile e assidua lettura dei giornali del tempo, si mescolavano, come si desume da questa e da altre lettere del 1918, varie considerazioni personali desunte dall’esperienza diretta del Brasile.

Dopo aver rivendicato a sé e ai suoi una patente di povertà onesta e laboriosa, Meneghello si lanciava ad esempio in una propria analisi del conflitto in corso lamentando l’entrata nel suo vortice anche degli Stati Uniti. C’era il rischio, deprecava però, che ciò dovesse comportare a breve “l’aleanza di tutte le Repubbliche delle due Americhe; del Nord e del Sud (che siamo noi)” costretti così “a prontarsi per entrare in guerra a favore delli Aleati vostri qui d’Europa; cosichè se prima stavimo male, anderemo in peggio, perché i generi alimentari crescono sempre ; dall’Europa non viene più farina da far pane, olio, formagi ecc. ecc. e anche dalle Americhe non possono più mandarvi il caffè tutto paralizzà, tutto fermà i transiti ecc. vedremo dove anderemo a finire”.

È ricorrente nelle lettere in arrivo dal Brasile (e dall’Argentina) la preoccupazione suscitata fra gli immigrati dai contraccolpi delle alterazioni di mercato che lo stato di guerra induce e produce nell’economia di quei paesi dove, a seconda dei casi, si manifestano sollievo e soddisfazione per non avervi figli alle armi ma, ove ce ne siano, anche la speranza che (al pari degli altri, figli, nipoti o comunque parenti rimasti in patria), escano tutti indenni dalla terribile prova a cui sono sottoposti i soldati combattenti. Su tutto prevale sempre la paura della disoccupazione e della miseria. Pietro Gaburro, un altro emigrante veronese residente lui pure da vari anni a San Paolo comunica anch’egli nel 1917

 

Miralegro assentire chesiete tuti in buona salute specialmente il nipote Gabriele, che sta in quella bruta guera, che mai lase fenise. Pero speriamo in iddio che abbia fortuna de ritornare in buona salute, e pregheremo Iddio che lase fenisse presto, mami pare che abia poca presia de finirla. Adesso le cose vano male, molto male: i generisono saliti di più della meta tuti quanti tanto il mangiare quanto il vestire, sono aprezziesagerati, le cose vanno male e male che pegio de così non la potrebbe andare; la Cità di San Paulo e tuta inrevuluzione dala miseria che c’è…basta che fenisca la guera[51].

 

L’episodicità degli epistolari, quando davvero tali siano (il che non avviene di solito per puri limiti di consistenza), costituiti dalle corrispondenze di parenti e familiari (e non solo di soldati accorsi in Italia a battersi) e la stessa saltuarietà simmetrica dei relativi riscontri che li rendono preziosi, per il periodo bellico 1914-1918, fanno sì che siano rari i carteggi di cui oggi disponiamo e dal cui linguaggio possiamo evincere, sotto il profilo delle opzioni identitarie, il senso e alcune delle funzioni svolte dalle lettere private in tempo di guerra. In realtà più di qualche carteggio di discrete dimensioni si è conservato e in Italia ve n’è traccia ormai abbondante[52] al di là di quelli ricompresi con tempestività assoluta (e ideologicamente interessata) nell’opera ministeriale di Raccolta di testimonianze e di documenti storici sull’attuale Guerra Italo-Austriaca promossa dall’onorevole Paolo Boselli sin dall’agosto del 1915 e di lì in avanti affidata alle cure del Comitato nazionale per la storia del Risorgimento ovvero anche a prescindere dall’impegno profuso più tardi, in periodo fascista, da vari editori e curatori delle corrispondenze soprattutto di ufficiali caduti in combattimento. Delle lettere inviate dai soldati semplici è stato necessario attendere tempi assai più vicini a noi per recuperarne, grosso modo tra la fine degli anni ‘70 del Novecento ed oggi [53], una quantità considerevole talora corredata dai riscontri di alcune missive in risposta. Una parte di queste spedite infatti dal paese al fronte non rimase, ad onta del loro valore agli occhi di chi le aveva ricevute, nelle mani dei soldati i quali più spesso di quanto non si creda, tenendone con sé soltanto qualcuna a mo’ di “talismano”, provvedevano a renderle alla prima occasione ai mittenti come fece quel maestro elementare che nel 1916 avvertiva da Padova sua madre temendo che potessero andare disperse (“spedirò a casa tutto ciò che non mi occorre [e] spedirò pure la corrispondenza vostra: la terrei tanto volentieri, ma poi se andasse dispersa?”[54]).

Quali altri compiti primari le lettere private possano e debbano assolvere quasi “a priori” è più che assodato in via generale ed è anzi stato chiaro, lo si accennava di sfuggita già qui sopra, sin dagli albori dell’età moderna, epoca per la quale ne sono state infatti vagliate la struttura e le caratteristiche prevalenti (com’è successo, ad esempio, volendo fare solo un caso “periferico”, grazie alle indagini di István György Tóth sull’Ungheria del primo Cinquecento attraverso i messaggi inviati ai propri parenti contadini dai figli e dai mariti magiari o transilvani in forza alle armate imperiali ed impegnati a combattere come soldati contro turchi e francesi lontanissimo da casa[55]). Il banco di prova offerto dalla grande guerra, nondimeno, appare dei più rilevanti e non solo, s’intende, dal versante dei mittenti finiti sotto le armi e venuti dall’America.

 

  1. Uno dei carteggi bilaterali italo argentini, a tutt’oggi si potrebbe anzi dire l’unico che sia stato integralmente conservato, su cui appare utile svolgere una riflessione in rapporto all’intero quadriennio 1915-1918 (ma dove furono gli stessi curatori della sua prima edizione ad avvertire d’aver dovuto omettere per ragioni di spazio nel loro commento molti riferimenti al dibattito sull’entrata in guerra dell’Italia, sulle notizie riguardanti le operazioni militari e sulla considerazioni svolte dai corrispondenti a proposito della lotta politica in America e in Europa) è quello conosciuto paradossalmente sin qui solo in traduzione inglese e pubblicato da Samuel L. Baily e Franco Ramella nel 1988[56]. Esso riguarda 351 lettere scambiate nell’arco di oltre vent’anni, tra il 1901 e il 1922, dai membri di una famiglia piemontese divisi dall’emigrazione, rispettivamente Luigi e Margherita Sola, i genitori rimasti a Valdengo, e i loro figli Oreste e Abele che dal paese natale, nel distretto tessile di Biella, avevano raggiunto Buenos Aires giusto all’inizio del secolo XX. Devo alla cortesia di Franco Ramella, che me li ha gentilmente dati in visione, la possibilità di citare i testi originali in lingua italiana e d’intrattenermi brevemente ora sui risvolti del dialogo sviluppatosi durante la grande guerra fra i componenti d’un tipico nucleo familiare di estrazione popolare e operaia (con spiccate simpatie socialiste fra i più anziani visto che Luigi ricopriva poi in paese anche un ruolo politico nel Psi locale).

Vista da lontano o vissuta da vicino, anche senza il coinvolgimento concreto di nessuno nelle sue emergenze più cruente (l’eco dell’esperienza al fronte dei soldati vi compare infatti quasi sempre in maniera solo indiretta e sfumata), la guerra forma l’oggetto di una riflessione destinata gradatamente a divaricarsi dislocando i figli, che stanno in Argentina e che in origine avevano manifestato sentimenti antimilitaristi (uno scampolo deviante e molto a se stante della “generazione del ‘15”, cresciuta stavolta all’estero[57]), su posizioni sempre più patriottiche, ma confermando al contrario le attitudini sin dall’inizio pacifiste dei genitori i quali continuano a vivere in Italia. Assieme alla dialettica intergenerazionale nel quadro di una sostanziale tenuta dei rapporti gerarchici e affettivi (i figli aiutano sistematicamente padre e madre con le loro rimesse monetarie) e di un forte intreccio di relazioni tra il Biellese e la lontana metropoli argentina, agiscono evidentemente, in ciò, due percezioni sempre più diverse del conflitto. Quest’ultimo a Buenos Aires viene dipinto sin dal suo sorgere con discreta lucidità da Oreste e da sua moglie Corinna (una compaesana che si rivelerà col tempo, dei giovani italo argentini, la più convinta sostenitrice della guerra):

 

Da quando è scoppiata la “Guerra Europea” qui è il discorso del giorno, con relativi “bollettini” ed “edizioni straordinarie” dei giornali. Per quanto sia una città cosmopolita la grande maggioranza simpatizza per la Francia-Belgio-Inghilterra ecc.

Le notizie, vere o inventate che, con un buon servizio, ricevono i principali giornali, subito sono fatte conoscere con cartelli (luminosi di notte) nelle facciate dei rispettivi edifizi.

Causa la guerra, anche qui sono aumentati tutti i generi alimentari, il carbone, il ferro, tutto in generale, anche il grano e la meliga che sono di esportazione. Ora però è difficile esportare non essendovi navigazione, o quasi, per l’Europa; speriamo che l’Italia si mantenga neutrale tutto il possibile, se no anche quei pochi piroscafi che arrivano e partono sarebbero forse soppressi, ed allora….addio Patria! E costì che se ne dice? Va di male in peggio? […] E lì, a parte le buone idee pacifiste contro la carneficina, che si dice di Germania, Francia e C.ia? Cosa si pronostica? Si lascerà l’Europa dominare da quel matto criminale dell’Imperatore di Germania? (Buenos Aires, 27 Agosto 1914, Lett. 113)

 

Tutti giornali quì hanno pagine intere con le notizie della guerra che pare vada ancora per le lunghe, a meno non si metta anche l’Italia a sbilanciare, forse, la situazione, sarebbe grave sciagura, però potrebbe finire un poco prima (Buenos Aires, 21 Gennaio 1915, Lett. 117)

 

L’arrivo delle informazioni sull’entrata dell’Italia nel conflitto viene già dipinto con toni e accenti d’un certo compiacimento da nuora e fratelli i quali sembrano condividere il clima di adesione e di grande partecipazione popolare che s’è subito manifestato tra gli italiani di Buenos Aires come fa rilevare Abele, estensore materiale del messaggio sottoscritto anche da fratello e cognata e dove verso la fine si fa largo più di un accenno violentemente antitedesco:

 

Dunque, siamo in guerra! La notizia ricevuta quì la sera stessa della dichiarazione ha prodotto un entusiasmo enorme, tutti inneggiano all’Italia.

Per quanto attesa da lungo tempo, la dichiarazione è stata accolta favorevolmente. I giornali di qui, quasi tutti, oltre ai tre quotidiani italiani, commentano favorevolmente l’entrata dell’Italia in favore degli alleati, e dedicano speciale attenzione, pubblicando a parte delle altre notizie italiane. L’iscrizione dei richiamati è incominciata e sono già migliaia gli iscritti.

Due piroscafi sono già partiti carichi con più di duemila, altri stanno per partire. Commovente e grandiosa è stata la partenza, parlano di centomila persone che fossero riunite a salutare la partenza di quei primi partenti. Straordinaria l’impressione, tutti acclamanti, tutte le sirene dei vapori ancorati nel porto sibilando lungamente, saluto e augurio migliore non potevano ricevere.

Di amici, partirà forse fra breve , il figlio del compianto Prof. Buscaglione, Ezio nostro buon amico; s’è già fatto iscrivere per quanto di terza categoria e non abbia ricevuta nessuna istruzione militare.

Io dichiarato inabile, e senza nessun certificato di leva, non so se mi chiameranno; Oreste, di terza categoria, non istruito, nemmeno non è chiamato, essendo richiamati solo dall’88 in su quelli che si trovano nelle sue condizioni.

Molti sono anche i volontari, ma danno la preferenza ai più giovani e di leva.

Prima che ci chiamino passerà tempo ancora e poi vedremo […] Infine la guerra contro l’Austria, in queste condizioni, era inevitabile; amici col coltello in mano, è pericoloso ed è meglio finirla una volta, se non si vincono, questi barbari teutonici sono capaci di tutto, e per vincerli bisogna pur sacrificarsi: speriamo però sia sicura lezione al popolo per l’avvenire che speriamo prossimo, se no peggio per lui.

 

Dalla criminalizzazione razzista del nemico, propiziata da mesi di voci e di propaganda antigermanica sulle violenze perpetrate dai “boches” nel Belgio invaso, il passo verso le posizioni belliciste e più avverse al pacifismo è breve

 

Dalle prime notizie avanziamo, per quanto difficilissimo, abbastanza ed è meglio noi di là che i barbari di qui. Stassera già abbiamo notizia della presa di Monfalcone. Insomma auguriamo bene e presto . Ora le proteste, per quanto sincere, contro la guerra, sono inutili e dannose per tutti, bisogna essere uniti ed aiutare quanto possibile quelli che vanno e quelli che restano, i nemici sono duri, preparati e barbari; bisogna vincerli se no tutto il mondo è fritto. Unisco alla presente un Chéque per Lit. 500 esigibile presso la Banca d’Italia.

Augurandovi allegria, abbiatevi, carissimi Genitori, tanti abbracci e baci di cuore.

Vostri aff.mi figli Abele, Oreste e Corinna (Buenos Aires, 10 giugno 1915 , Lett. 123)

 

I genitori, sembrano tranquillizzati dall’affettuosità dei saluti e dall’armonia che regna tra fratelli e spose oltreoceano ed anche dal fatto che la “Classe di 3^” di Oreste non sia stata ancora chiamata al servizio militare (e, aggiungono, “speriamo non venga chiamata”), ma ad appena 20 giorni dal suo scoppio si augurano espressamente che “finisca presto la guerra onde possiamo abbracciarvi un giorno tutti quanti” (Valdengo 14 giugno 1915, Lett. 125). Un mese più tardi dopo essersi felicitato in altre lettere e cartoline per il fatto che i figli non siano passibili di richiamo alle armi, Luigi Sola ammette a sua volta che

 

anche qui, come dappertutto i discorsi più in voga sono della guerra; e commentati nei più stravaganti modi: fino a dire da qualcuno che la vittoria sarà degli Alleati tedeschi. Disgraziatamente se questo avvenisse ci sarebbe da venir matti tutti. Però la grande maggioranza opina e inneggia alla vittoria dell’intesa, Italia compresa.

 

Poco più avanti tuttavia osserva

 

Qui tutto il commercio è ridotto alle forniture militari di qualsiasi genere. Gli imprenditori di forniture fanno affari d’oro […] Questi possono con ragione inneggiare alla guerra (Valdengo, 8 luglio 1915, Lett. 127)

 

L’attitudine negativa nei confronti della guerra si rende ben presto abbastanza esplicita nella vecchia coppia dei genitori che passano in rassegna e segnalano ai figli tutta una serie di ragioni per doverla avversare:

 

Sentiamo che le nostre lettere passano alla censura prima di arrivare a voi. Ciò che non succede quelle che riceviamo noi.

Sarebbe poco la censura delle lettere se non vi fosse il flagello vergognoso che travolge l’Europa con gravissime conseguenze anche nella altre parti del globo.

Coll’avvicinarsi dell’inverno non si sa come si vorrà fare per passarlo: essendo tutti accaniti e barbaramente agguerriti […] Un vero disastro mondiale. Chi vivrà [potrà] vedere il termine di questo grande evento, e quelli che verranno dopo non crederanno che nel mondo abbia esistito tanta barbarie fra gli uomini.

Qui, la guerra è tanto abituale che pare la vita ordinaria […] quasi tutte le famiglie hanno gente sotto le armi e sono fastigiati. Noi abbiamo la fortuna di avervi ancora salvi […] Il cugino Andrea al fronte si trova nel massimo pericolo. Abbiamo ricevuto pochi giorni fa una lettera dove descrive l’immorale disagio in cui si trovano quei poveri soldati al fronte- freddo acqua neve e scarsità di vitto […] Colla speranza che possa in un giorno non troppo lontano [cessare] questo doloroso stato di cose e torni un po di pace, di vita normale, vi mandiamo i nostri più cari auguri di buona salute e armonia fra voi (Valdengo 14 settembre 1915, Lett. 132)

 

Mentre “guerra e caroviveri sono sulla bocca di tutti”, Luigi Sola non rinuncia insomma a ribadire la sue vedute su “questa povera Europa tutta in fiamme per la prepotenza e ferocia di pochi malviventi” dove “si passa una vita di apprensione e di spasimo. Sempre si spera, si aspetta la fine ma siamo sempre da principio. Altre classi sono partite; altre partiranno. Non tutte la armi al completo ma ben 20 classi sono chiamate e poche rimangono a casa. Anche parecchi riformati hanno dovuto partire […] Della tua classe carissimo Oreste solo la 3° come tu sei, non è ancora stata chiamata. Auguriamoci che la dimenticano” (Valdengo, 20 ottobre 1915, Lett. 134).

Nel settembre del 1915 Oreste si trasferisce per lavoro in una località assai distante da Buenos Aires, a Catamarca dove, scrive, “di guerra non se ne parla quasi” tanto che per restarne a giorno egli si vede costretto ad abbonarsi a “La Nación”, il grande quotidiano della capitale e come di sfuggita annota che lo ha fatto “per sapere se già si tratta la pace, o se si riesce a vincere le teste quadrate del Nord e Ovest”. Poi aggiunge:

 

Tutti gli Alemanni che conosco e di cui sono amico, sono convintissimi della loro vittoria, e cocciuti nella giustizia [sc. giustezza] per la guerra intrapresa. Pare impossibile che si sia riusciti a creare una nazione così prettamente militarista; guardata tutta da spie e preti più e meno militari; sono riusciti a convincere talmente la loro popolazione della massima loro superiorità su tutto e tutti da farli credere che loro sono quelli che devono dirigere il mondo; e non vedono il sentimento criminale che li guida e di cui ne fanno mezzo. Son istruiti militarmente come il clero obbliga a credere in dio ammettendone a priori l’esistenza (Catamarca, 21 settembre del 1915)

 

Non devono stupire, in sottofondo, gli accenti anticlericali in chi sembra essersi affiliato fra l’altro alla Massoneria. Anche Corinna appare, da quanto lei stessa dice o fa scrivere, molto impegnata sul terreno dell’assistenza nei vari Comitati Pro Patria a vantaggio dei richiamati e delle loro famiglie, massime quando si esplichi attraverso manifestazioni di massa per il XX settembre laico o con i concerti benefici per la raccolta di fondi. E così dopo alcune trionfali rappresentazioni e repliche dell’Aida informa di essere in attesa, come tutti, della “prossima caduta di Gorizia, con qualche accidente ai re paolotti. Ormai si è in ballo e non bisogna recriminare, auguriamoci solo che quando finisca sia proprio finita” (Buenos Aires, 26 novembre 1915, Lett. 136). Sembra quasi una replica a quanto Luigi e Margherita avevano osservato venti giorni prima nel contesto di un discorso più ampio che reiterava gli scongiuri (e la paura per i rischi) di un richiamo alle armi dei figli:

 

Non meraviglia l’entusiasmo che prevale fra gli Italiani costì residenti per la ricorrenza del 20 Settembre che qui per ragioni ovvie non si fa tanto specie tranne pochi ferventi nazionalisti – armiamoci e partite – specialmente nelle presente contingenza della vita nazionale fomentata dalla terribile guerra che ravvolge e travolge ogni cosa.

Sempre si spera, si augura la pace e sempre continua la più feroce carneficina umana.

Ancora le classi 1886-87 di terza categoria debbono presentarsi ai singoli distretti il 6 corrente e non saranno le ultime. Fin’ora voialtri non siete chiamati, ma potrebbe darsi. (Valdengo, 2 novembre 1915, Lett. 135)

 

Mentre i vecchi tengono dunque duro sulle proprie posizioni contrarie alla “barbara guerra”, i giovani pur impressionati dalla morte “sul campo di battaglia” di un loro cugino, di cui avevano appreso dai giornali di Buenos Aires (quasi certamente la “Patria degli Italiani”), raccomandano di dare una mano a chi sta partendo per l’Italia da riservista come un loro amico (classe 1888, 3^ categoria, non istruito) originario di Bioglio, altro piccolo centro del Biellese, e si premurano di segnalare al padre di aver messo in bilancio la prospettiva di doversi prima o poi recare al Consolato per mettersi “al coperto di tutto e non avere in seguito disturbi di nessuna classe” per partire a propria volta, se necessario e se fatti abili, perché “in questi momenti è inutile fare gli idealisti; è l’ora dell’azione, è l’ora di combattere e nient’altro” (Buenos Aires 17 marzo, Lett. 139, 22 ottobre, Lett. 143, e 5 dicembre 1916, Lett. 144). Dando conferma di una sensazione provata da molti immigrati anche i fratelli Sola assicurano di avere sempre “freschissime” le notizie sull’andamento della guerra ( “certamente – scrivono – più di voi [in Italia], alla mattina alle 6 sappiamo già tutto il successo il giorno innanzi”, Buenos Aires 22 maggio 1916, Lett. 142) e per tutto il 1916 ed ancor più nel corso del 1917 tengono informati i genitori sull’inasprirsi della crisi economica in Argentina dove persino l’agricoltura e l’allevamento del bestiame hanno subito colpi fierissimi:

 

figuratevi che numerosissime famiglie da lungo tempo radicate qui e con i figli nati tutti argentini, emigrano da questa terra promessa necessaria di maggior popolazione, per il vicino Brasile, tutti ingaggiati da agenti negrieri per le famose “fazendas”, i grandi stabilimenti per la coltivazione del caffè, dove sono trattati poco meno che schiavi […] È doloroso parlare di miseria assoluta, mancando anche il pane, a migliaia di famiglie, proprio nella terra del grano. Speriamo che cambi. (Buenos Aires 10 gennaio 1917, Lett. 145)

 

La paralisi dei traffici e dei commerci in Argentina non è minore di quella che affligge un po’ “tutte le altre Repubbliche sudamericane” e nessuno sa quando potrà finire. In compenso i giovani Sola, dopo l’ascesa al potere di Yrigoyen e dei radicali, sembrano irritati dalla politica neutralista del governo e anche indignati dalla morbida opposizione (quasi una fastidiosa fronda) prestata in Italia alla continuazione del conflitto dai socialisti per i quali pur sanno che i loro genitori ancora parteggiano. Una lettera del 5 marzo 1917 (146) dà una idea, forse più di tanti resoconti giornalistici e diplomatici, degli ondeggiamenti di cui è preda la componente immigratoria (non solo italiana) della opinione pubblica bonaerense:

 

Le solite discussioni in ogni ritrovo sono sempre sulla guerra; s’aspetta la tanto strombazzata offensiva da ambo le parti, e con un sincero successo per gli alleati. La rottura degli Stati Uniti del Nord con la Germania causò, in tutto il pubblico straniero, grande effetto, nel governo però non se ne comprese nulla [….] Adesso tutti discutono sul toupé della Germania di indurre Messico e Giappone contro Nord America. […] Io, dico la verità, non trovo nulla di strano: non fu forse quella tutta la politica diplomatica della Germania? Per chi conosce questo paese, come credo di conoscerlo io, non può causare effetto. La Germania dove non poté infiltrarsi con i metodi buoni s’impose colla prepotenza e col danaro; qui è troppo evidente; tutti i giornali del paese, meno Francesi, Inglesi ed Italiani, sono tutti favorevoli agli imperi centrali, ed anche quelli che non vogliono dimostrar d’esserlo, ogni tanto vengono fuori dandosi la zappa sui piedi. Se non sono sovvenzionati direttamente i giornali, i loro corrispondenti lo sono. È, forse, certamente la psicologia di un popolo ancora semibarbaro; il cui cervello è deficiente; e non vede che l’utile nell’atto a contanti; e giudica il solo sviluppo civile nella forza.

Si leggono qui molto volentieri le notizie delle discussioni parlamentarie dei vari Stati belligeranti; sono certamente considerate con il maggior rilievo le dichiarazioni dei ministri inglesi e francesi; e, credilo papà, danno uggia le discussioni sciocche e sciappe dei socialisti in Italia; pare che tutti quei parlamentari siano anche loro venduti alla Germania.

 

La ripresa delle discussioni di carattere politico e persino di politica estera che rimbalzando dai giornali s’insinuano così a fondo nelle corrispondenze private di scriventi senz’altro curiosi, ma “sulla carta” tutti di modesta cultura, attesta in loro un alto grado d’interesse per la fase storica attraversata ma ne tradisce anche i limiti rispetto a quanto si capisce che non potrà mai trapelare dalle comunicazioni private sugli aspetti materiali della guerra o quanto meno su ciò che ne dicono (o meglio non ne dicono) coloro che ne sarebbero fra i diretti protagonisti: “Riceviamo con piacere lettere di vari soldati – informano Abele, Oreste e Corinna – naturalmente anche dovuto alla censura nulla dicono” (ivi). Nel giorno della massima festa nazionale argentina, siglando l’invio da Buenos Aires con un “Mayo 25 de 1917” (Lett. 147), i fratelli Sola enfatizzano le ragioni della loro crescente fiducia nelle sorti militari e politiche del proprio paese d’origine:

 

Ieri, anniversario della dichiarazione di guerra d’Italia ci furono grandi dimostrazioni, aiutate dall’annunzio di una vittoria nostra sul Carso con 9.000 prigionieri.

Oggi, gran festa patria Argentina, anniversario della Rivoluzione per l’indipendenza dal giogo spagnolo, tutto chiuso: la città presenta un bell’aspetto con migliaia di bandiere, fra le quali predomina, dopo il bianco e azzurro argentino, la nostra simpatica ed allegra bianco, rosso e verde. Grandi illuminazioni e musica dappertutto.

Domenica prossima una grande dimostrazione di simpatia all’Italia, e si presenta imponente.

Credi, caro babbo, nonostante i sacrifizi e le lamentatisime vittime, che porta questa guerra, meglio questa imponente lotta per la civiltà, anche noi italiani, e meglio lo notiamo all’estero, abbiamo asceso immensamente nell’opinione mondiale e molto abbiamo guadagnato in estimazione, ed arriveremo sicuramente più in alto al termine vittorioso di questa grande rivoluzione. Credi, ripeto, per quanto possa sembrare eresia, che quasi ne avevamo bisogno!

 

Ci mancano purtroppo, qui, i riscontri più diretti dei vecchi Sola a una simile impostazione del problema inacerbita altrove (Buenos Aires, 11 giugno 1917, Lett. 148) dalle invettive contro la casta militarista degli Hohenzollern, ma anche contro “le fanfaronate di alcuni clericali e socialisti: come vedi cara mamma – continua Abele – parlare di questo sarebbe ognor ripetere tristizie, ed alle persone care vuolsi solo sempre parlar di cose belle e care, è per questo, pure, che, anche cuando si scrive, si è monchi”.

E la sequenza degli auspici per la vittoria degli alleati in nome dell’umanità e dell’augurio che pure “i germani ed i croati impareranno ad amare, essendo allora tolto l’insegnamento all’odio ed all’imposizione colla forza” si prolunga di lettera in lettera sin dentro all’estate del 1917, quando una di esse (da Buenos Aires il 31 luglio, Lett. 150) esalta le manifestazioni pro Alleati e in favore dell’Italia che ormai si susseguono con la partecipazione di 100 mila persone, con fiaccolate in onore degli Stati Uniti e con crescenti riserve nei confronti della Russia il cui popolo, si nota, “abbisognerebbe di un Robespierre e Danton che malgrado tutto salvarono allora la Francia, la democrazia, l’umanità. Credi, caro babbo, che la ghigliottina è un sano rimedio per certi vigliacchi. Però non si dispera della Russia, se ne accorgeranno. È da lamentare che anche dei nostri [sc. italiani] simpatizzino tanto per il bel modello di democrazia teutonica; qui del Partito socialista, gli unici neutralisti=alemannofili sono proprio i tedeschi o oriundi, sono gli stessi dappertutto”.

La mancata rottura dei rapporti diplomatici con la Germania anche dopo l’affondamento di un ennesimo “vapore” argentino indigna i tre giovani Sola perché, ciononostante, “tutto seguita come prima” in ossequio al neutralismo del governo. “A cuanto pare – scrive Oreste da La Plata l’8 settembre 1917, Lett. 151 – in questo paese vi si sono radunate tute le spie germaniche scacciate o dovute fuggire dagli altri Stati, specialmente dagli Stati Uniti”.

Persino l’ondata di scioperi che squassa il sistema ferroviario argentino (tutto in mano a compagnie francesi e britanniche) e le violenze messe in atto dagli operai che vi danno vita sono imputate alle mene criminali della Germania e definite quindi un “prodotto della Kultur”. L’evoluzione delle cose russe inquieta e nemmeno Benedetto XV viene risparmiato dal sarcasmo che avrebbe accolto la sua nota proposta di pace (si vede che il Papa, scrivono i fratelli, “ha perso completamente l’infallibilità: se questo mandato da Dio, non sa vedere nel suo protetto Kaiser, un criminale: suo figlio perverso; è sperabile che manderà tutti gli assassini in Paradiso e lo contaminerà. Chissà che quel buon Dio non scomunichi, a suo tempo, il papa”). Nella stessa lettera si legge del “giubilo” che starebbe creando una “potente avanzata italiana “ su Trieste prossima ormai ad esser presa con “la completa disfatta della imbottigliata flotta austriaca” e si crede che “in quel giorno gli italiani qui residenti ringiovaniranno tutti di vent’anni”. E invece, un mese e mezzo più tardi, arriva la rotta di Caporetto che mette a durissima prova gli ardori dei giovani Sola –- dando ragione semmai al padre – benché ciò non basti certo a placarne il furore ormai a malapena bilanciato dalle professioni di devozione e di affetto filiale. A proposito dei Soviet Abele torna ad invocare la ghigliottina e pene anche più severe, se mai ce ne fossero, per quei “lazzaroni” che si sono “uniti ai preti” (presumibilmente filo austriaci o austriacanti) e contro cui dovrebbe valere solo la legge del taglione perché, si segnala da Buenos Aires il 30 novembre 1917 (Lett. 152),

 

I nemici interni sono altrettanto pericolosi e più colpevoli di quelli esterni, e se con questi hanno comuni interessi come questi e peggio bisogna trattarli, distruggere l’infezione è di necessità assoluta per mantenerci sani; per la salvezza di tutti bisogna finirli […] Qui le dimostrazioni in favore degli alleati si susseguono con un crescendo notevole; ultime le dimostrazioni di simpatia all’Italia per l’oltraggiato suolo dalle orde tedesche è stata imponente, la sottoscrizione in favore degli esuli veneti ha raggiunto fra la colonia italiana i 3.500.000 lire in meno di un mese. Tutto il mondo civilizzato è con noi.

 

Il 1918 fa registrare una progressiva stabilizzazione, nel carteggio, di temi e di punti vista ora adattati all’effettivo miglioramento, per l’Italia e per gli Alleati, delle condizioni di una contesa che si trascina sì da troppo tempo, ma che dopo il loro ingresso in guerra e nonostante i rovesci subiti in Russia e in Romania saranno gli Yankees americani, nelle previsioni dei Sola che motivi di lavoro hanno nel frattempo separati, a far vincere all’Intesa perché i nemici “gli Stati Uniti non li vinceranno mai” (Buenos Aires, 17 aprile 1918). E non occorre nemmeno attendere la fine ufficiale del conflitto per assistere ai primi festeggiamenti della vittoria ormai imminente:

 

Qui – comunica con ogni probabilità Abele – è tutto il mese di gloria! Incominciarono le manifestazioni dopo i trionfi e vittorie italiane e seguitano ora generali. È un delirio.

Manifestazioni enormi dove le donne sono a decine di migliaia, le bandiere alleate e argentine a milioni . In certe parti tutta la settimana festa pagando le giornate, oggi festa generale decreatata anche dal governo. Finalmente! Viva l’Italia! Viva la democrazia Universale! L’autocrazia è morta codardamente, scappando. Infami! Anche il popolo tedesco che fino a che andava avanti inneggiava alla forza e superiorità, questo popolo riconosciuto per tenace e costante, s’è piegato pauroso di vedersi i territori devastati. Non così la Francia, non così gli italiani che pure vivono d’entusiasmo e cadono alle prime batoste, non così la democrazia tutta che combatteva fiduciosa per la libertà!

Il mostro è stato vinto. Aspettiamo l’era nuova: la Rivoluzione francese ed il rinascimento italiano consacrarono i diritti dell’uomo, questa guerra consacra i diritti dei popoli! Pace! (Buenos Aires, 14 ottobre 1918, Lett. 158).

 

Da Zeballo e da Asunción in Paraguay, dove s’è recato per motivi di lavoro, Oreste il cui periodare è sempre più intersecato da ispanismi abbastanza indicativi, si congratula col padre per “tutte le cure che tu hay per la cara mamma” e si associa all’entusiasmo del fratello dopo la serie dei successi arrisi sul finire di ottobre agli Alleati: “Col massimo giubilo si leggono buone notizie della guerra e le gloriose vittorie, cuasi incredibili; le vittorie, porteranno alla pace che già vislumbra; per una era tranquilla e certamente grande. Alfine il militarismo, dopo essere arrivato all’apogeo, muore di colpo; come di una vera e potente indigestione” (Novembre 7 1918, Lett. 160).

Da Valdengo, dove è lo stato di salute sempre più precario di sua moglie a tenerlo occupato e sempre in ansia, Luigi Sola annota frattanto ( 18 ottobre 1918, Lett. 159) che la vita, divenuta un disastro per colpa della guerra, potrebbe fra pochissimo cambiare. Anch’egli ne presente la fine e ne auspica anzi “l’epilogo colla disfatta del Caiserismo e compagnia bella”, ma senza troppi trionfalismi e facendo uso semmai di praticità e di buon senso nei giudizi e nelle previsioni che tengono conto soprattutto degli affetti, della nostalgia dei figli lontani e delle condizioni sempre più gravi di Margherita.

 

Noi sempre uguali. La cara mamma soffre continuamente solo le iniezioni assopiscono momentaneamente i crudeli dolori. Sentiamo che così fa molto caldo a differenza di qui che fa un freddo terribile […] Ora che è finita la guerra si spera che torni lo stato normale di tutto altrimenti è un disastro andare avanti coi prezzi favolosi di tutto il necessario per la vita. Anche i medicinali.

Poiché la guerra è finita col favore dell’Italia speriamo la onorata pace duratura per tutti e voialtri vi deciderete di venire vederci. Tu Oreste dopo 18 anni non vorrai privarci di questa consolazione.

 

Dopo la scomparsa della moglie avvenuta nel maggio del 1919, anche Luigi Sola verrà a morte nel novembre del 1922 senza aver più potuto rivedere nessuno dei suoi figli.

 

  1. Dell’ultimo epistolario di guerra italo americano a cui vale la pena di riferirsi e di fare spazio adesso, composto da un’ottantina di lettere e cartoline spedite dal fronte tra il luglio del 1915 e l’agosto del 1917 quando colui che le scrisse, Américo Orlando, un volontario venuto dal Brasile, prima soldato semplice e poi caporale nell’esercito italiano, morì in battaglia sull’altopiano della Bainsizza, intendo fare menzione in chiusura riservandogli, ad onta della sua importanza, soltanto uno spazio deliberatamente ridotto: sia perché ne ho fatto uso abbondante e “spregiudicato”, di recente, in particolari contesti narrativi[58] e sia perché vi hanno lavorato o vi stanno ancora lavorando altri studiosi dal più volte citato Antonio Gibelli a Mirian Silva Rossi, una sociologa di San Paolo pronipote del mittente[59] e a Federico Croci, lo storico genovese con larga esperienza di storia dell’emigrazione italiana in America Latina[60], che ne ha potuto consultare per primo gli originali conservati oggi presso l’Archivio Ligure della scrittura popolare, da dove io stesso, grazie alla cortesia di Fabio Caffarena e di Carlo Stiaccini, buon ultimo ne ho tratto copia[61].

Americo Orlando era nato il 31 ottobre del 1895 da genitori abruzzesi emigrati al Brás di San Paolo dove era cresciuto e si era formato bambino in Brasile sino a quando, nel 1907, in un provvisorio rientro con la madre a Guardiagrele, il villaggio natale della famiglia, aveva anche potuto trascorrervi un paio d’anni prima di ritornare, ormai adolescente, oltreoceano. Confortato oltre al resto dai ricordi dei genitori e dei suoi fratelli più grandi, essendosi messo a lavorare quattordicenne come meccanico e quindi come tipografo per il “Fanfulla”, il grande quotidiano degli italiani di San Paolo, cominciò così a nutrire nostalgia per il paese dei suoi e a coltivare anzi “un sentimento di identità nazionale” (italiana) piuttosto idealizzato, ma forse rafforzato anche da quel po’ di studi che gli avevano permesso di esprimersi e d’imparare a scrivere con discreta proprietà tanto in italiano quanto in portoghese. Senza consultarsi con i genitori e per un insieme di ragioni in cui si mischiavano l’infatuazione per l’Italia e la paura di non potervi forse fare ritorno qualora non avesse ottemperato alla chiamata alle armi, Américo nel luglio del 1915 s’imbarcò di nascosto dai suoi in uno dei piroscafi (il “Tomaso di Savoia”) che facevano la spola con l’Europa e trascorse quindi i primi due anni e mezzo della grande guerra italiana al fronte facendo in tempo a ricredersi ed anche a pentirsi abbastanza amaramente del proprio gesto per i motivi che si desumono con facilità dalle sue corrispondenze dirette principalmente all’amatissima madre Eleonora Scioli (della quale si conserva una sola missiva indirizzata al figlio che merita d’essere riprodotta qui appresso), ma anche a una cognata, alla sorella e ai fratelli lasciati in America.

Il corpus delle lettere di Américo si presta ad una analisi di particolare interesse non solo perché ritrae l’esperienza al fronte e nei momenti di riposo d’un semplice soldato italo-brasiliano di quel gruppo al quale, personalmente mi sto molto interessando io, bensì pure perché le oscillazioni del suo umore e le notizie che manda al di là dell’Atlantico, nonostante il timore della censura, certificano l’andirivieni di alcune convinzioni in origine belliciste e di un patriottismo italiano via via sempre più sfumato o almeno attenuato come traspariva del resto, sin quasi dall’inizio, dal ricorso, nella sua scrittura, a un repertorio linguistico nel quale si mescolavano spesso con l’italiano, usato in prevalenza con la madre, l’“italo-paulistano”, il dialetto abruzzese e soprattutto il portoghese.

Mentre la madre, analfabeta, corrisponde con lui grazie alla mediazione di chi si presta ad aiutarla (e che a un certo punto Américo ringrazia mandando “tanti saluti [anche] alla persona che ti scrive le lettere”) suo figlio ha maturato in Brasile una cultura mista e a tratti, se si vuole, smaliziata a contatto con stili di vita, con cibi, con atmosfere profondamente e per forza di cose diverse da quelle incontrate in zona d’operazioni (ma forse ancor più nelle licenze, nei permessi e nei periodi di riposo trascorsi nella regione d’origine della famiglia e nel Mezzogiorno d’Italia oppure, in Friuli e nel Veneto, in varie città e località di retrovia). Sul piano emotivo e affettivo si conferma sino all’ultimo l’attaccamento prevedibile alla madre che, a giudicare da quell’unico documento di lei che ci è rimasto e dai riferimenti presenti nei colloqui a distanza imbastiti dal figlio, risulta aver patito ovviamente con immensa angoscia il suo allontanamento e il fatto che egli si trovasse in costante pericolo di morte. Scrive dunque Eleonora col tramite dello scrivano (da San Paolo 10 gennaio 1916)

 

Mio amatissimo figlio,

 

Non so con quali parole debbo manifestarti il dispiacere che ho avuto nel sentire che da quando tu sei partito non hai ancora ricevuto una nostra notizia figlio benedetto. Io ti ho scritto chissà quante lettere come pure la tua cognata che ti mandò la moneta. Come la buona fortuna vuole così che non fartela ricevere. Non riposo ne notte e ne giorno pensando sempre a te, figlio mio caro. Siccome dici che noi ne siamo dimenticati di te, vorrei farti essere qui di nascosto per farti sentire che il tuo nome è sempre nelle mie labbra come pure nelle labbra dei tuoi fratelli e di tua cara sorella. Notte e giorno noi parliamo sempre di te e prego la “Nossa Senhora da Penha” che presto mi deve fare la grazia di farti venire un’altra volta nei miei bracci. Caro figlio io ti mandai la moneta e spero che l’avessi ricevuta e come pure spero che questa lettera la ricevessi presto presto per consolarti. Anche tu come noi ne consoliamo qui quando riceviamo le tue care lettere. Caro figlio però l’ultima tua lettera mi ha fatto piangere e piango sempre: il giorno di capodanno, che per noi è stato un giorno triste. Tutti piangevamo perché le tue parole hanno afflitto troppo ma ripeto, spero che ne avessi ricevuta qualcuna.

Non altro figlio mio non mi stancherei mai di parlare, non so io stessa che dire per esserti vicino, dunque saluti di tutta la famiglia, da parte di Luigino, di Américo, Almerinda ti baciano con affetto, tutti i nipotini ti abbracciano come pure ti salutano tutti gli amici, ed a me figlio caro ti stringo e ti bacio forte dandoti la Santa Benedizione abbracciandoti nuovamente al mio seno credimi la tua affezionatissima mamma Eleonora.

 

Le prevedibili rassicurazioni del figlio, dopo qualche titubanza nel 1915, non evitano molti richiami alla terribile asprezza e all’ovvia pericolosità del contesto. In molte lettere da lui dirette alla madre c’è posto anzi per descrizioni senza eufemismi di notevole crudezza che si ripetono sin quasi alle soglie dell’ultimo combattimento nel quale egli perderà la vita allorché, nel maggio del 1917, Américo alterna ad esempio, anche per Eleonora, affreschi coreografici di scontri cruenti e di sanguinose battaglie (dichiarando di conoscerne ormai bene l’andamento con tanto di bombe scagliate da una miriade di “cannoni che fa spavento solo dal rumore e fragore e figurati quando [le] sentiamo scoppiare pochi metri vicino che manda migliaia di pezzi d’acciaio da tutte le parte”) a candide professioni di fiducia (e di fede in Dio) rispetto alla propria possibile sorte e soprattutto a considerazioni rassegnate sulle scelte che avevano concorso a determinarla. Alla madre che gli scriverà a un certo punto d’aver inteso come molti riservisti di San Paolo stessero ormai facendo ritorno “in patria” ossia in Brasile[62] aggiungendo speranzosa di voler indirizzare un appello per lui in Consolato, Américo risponde con lucidità mista a rassegnazione:

 

È vero cara madre che mi trovo impaziente per la lunga lontananza senza conforto in questo momento che si tratta della vita o della morte, ma che fare, ho voluto io volontariamente, non dovrei lagnarmi ma bene lo devi capire ero ragazzo non sapevo che facevo, ora che sono uomo capisco bene all’avventura che mi sono mescolato, ho fatto molto torto di avere sacrificato brutalmente voi altri che senza il mio aiuto soffrite, ma che fare, spero sempre che Dio ti aiuterà perché il medesimo dovrà riconoscere che io ho sacrificato la famiglia per il diritto e civiltà e per un giorno tutto il mondo vivere bene, così il Signore dovrà perdonarmi.

Ah!….cara madre è inutile questo foglio del console per farmi congedare, per richiamarmi. Puoi dire che hai bisogno di me, ma se la guerra non finisce non mi potranno mai congedare nemmeno sua maestà il Re potrà mandarmi a casa, poi sono figlio di italiano e ho il dovere come uno che è nato in Italia a fare il soldato, perciò e tutto inutile qualunque foglio se la guerra non finisce. Dunque cara madre datti coraggio che solo Dio potrà fare il miracolo di un giorno abbracciarti per sempre e di fare finire questa guerra che fa soffrire tante e tante madri.

 

In molte, anzi in quasi tutte le risposte che Américo inoltra per quasi tre anni in Brasile, il risvolto affettivo, sempre corrisposto e dettato dal registro in primis individuale delle corrispondenze, si combina con le ritornanti professioni di lealtà politica e militare nei confronti dell’impegno assunto arruolandosi e battendosi valorosamente per quella che alla fine egli stesso scopre essere però solo una delle sue “patrie” di riferimento e nemmeno, fra l’altro, quella a cui si senta, di fatto, maggiormente legato.

La lettera inviata dal fronte e dalle trincee, del resto, “non rappresenta soltanto un mezzo per scambiare informazioni, un semplice diario” o persino un’autobiografia di giornata, bensì dipende, come annota giustamente Mirian Rossi, dalla “imperiosa necessità di comunicazione fra il soldato e la vita, di fronte al destino e allo spettacolo quotidiano della morte. L’isolamento e la distanza attivano i meccanismi della memoria e chiariscono i cammini dei ricordi. La lettera era l’unico veicolo capace di ricostruire la relazione con la famiglia, con gli amici, con un mondo di pace, attenuando l’angoscia della solitudine”.

Di qui la varietà in contrasto delle opinioni e al tempo stesso dei linguaggi dove all’italiano è riservato a tempi alterni il compito di avallare le immagini di valore, di coraggio e di patriottismo e al portoghese, regolarmente, quello di trasmettere invece la nostalgia (saudade) per il mondo (perduto) degli affetti.

Con i fratelli, specialmente quando si rivolga anche a loro in italiano, non di rado Américo eccede in vanterie belliche (nell’aprile del 1916 commentando una vittoria italiana sul trincerone del monte Selz oltre a gioire per la disfatta degli avversari che lasciano sul terreno “migliaia di morti e feriti” arriva a dire di sé: “Io con sangue freddo sotto i tiri della artiglieria nemica non ho mai abbandonato il mio posto della frontiera e ho fatto circa 8 hora di fuoco contra gli austriaci e forse [ne] ho ucciso una cinquantina, questa volta col mio fucile. Mi dispiace molto – aggiunge – che non ho potuto uccidere nemmeno uno austriaco colla baionetta questa volta, perché quando abbiamo dato l’assalto, loro hanno fuggito tutti dal[la] posizione che abbiamo conquistato…”). Con la madre, viceversa, si sforza di usare toni goffamente tranquillizzanti a cominciare da quando, sul finire del 1915, comincia a spedirle le prime lettere dal fronte.

 

Carissima madre

 

Ti fo’ sapere che ho ricevuto una tua lettera con molta gioia e allegria, e con le lacrime agli occhi per la contentezza di sapere che stai bene di salute con tutti i miei, e ti posso assicurare mille volte che io godo di una perfetta salute fino a questa data e spero che Iddio assieme colla “Nossa Senhora da Penha” mi provvederà di aiuto in qualche eventuale disgrazia visto il pericolo nel quale mi trovo, ma spero di rivederti il più presto possibile per abbracciarti e baciarti insieme con i miei fratelli e sorella, nipoti, cognate e amici.

Dunque adorata madre ti fo’ sapere che questa lettera è la prima che ricevo ma mi dici che mia cognata mi ha spedito 30 lire e tu 40 in una lettera assicurata. Se l’hai spedita con questo indirizzo che trovi sulla busta la riceverò, se con qualche altro stai sicura che non l’avrò, e se tornerà indietro spedisci sempre all’indirizzo giusto e ancora assicurata, perché questa tua lettera l’ho ricevuta aperta. Non dir cose di male nelle lettere perché se no il governo non me le farà ricevere.

Dunque cara madre ben lo sai che a me piace molto l’Italia e la difenderò con amore degno della sua grandezza e spero di ritornare vittorioso. Cara madre, non appena riceverò i soldi che mi hai spedito, se Dio vuole, ti manderò la mia fotografia, e ti assicuro che non mi riconoscerai perché ora sono grasso, ho la faccia rossa e mi son fatto nascere i mustacchi cosicché figuro meglio di prima. […] Cara madre devi scusarmi se ti faccio pagare la multa per mandarti lettere senza il bollo, perché delle volte mi trovo in qualche punto che bolli non se ne possono comperare. Vorrei sapere se ricevesti il sussidio del Comité e di quante mila Reis è.

Dunque cara madre, spero sempre che tu mi voglia bene e chiedo di pregare sempre per me come prego io per rivederti. Ti prego cara madre di scrivermi ogni settimana per farmi stare tranquillo e per sapere qualcosa della tua salute. Di’ tu ai miei compagni di scrivermi che io subito risponderò.

Dunque cara madre per ora non ho altro da dirti ma fra due o tre giorni quando avrò tempo ti scriverò un’altra lettera.

Tanti saluti ai miei parenti, a tutti i miei amici e saluti al mio padrone e ai miei compagni di lavoro, saluti anche a tutti coloro che domandano di me.

Firmo per sempre e tanti abbracci tuo affezionatissimo figlio

 

Soltanto in una occasione, dopo la ripresa dei contatti con casa, un certo quale sconforto sembra farsi strada anche in Américo. Passata indenne attraverso le maglie della censura (forse perché data da imbucare a qualche commilitone in procinto di recarsi in licenza a casa) una lettera che egli invia in Brasile sul finire di gennaio del 1916 mostra il giovane come frastornato e assai meno ottimista del solito tanto da lasciarsi sfuggire, per la prima volta, frasi addirittura compromettenti sul fatto di non essere più tanto soddisfatto della guerra. Avendo mandato delle foto, che lo ritraevano “più secco e più magro” a paragone di quanto non risultasse per l’innanzi, spiega con parole brusche e addolorate a sua madre:

 

il motivo è che piango sempre per essere lontano da casa e per la paura di non tornare più a rivederti perché oramai son molti mesi che solo Dio mi ha dato la grazia di essere vivo passando attraverso migliaia di pericoli. Perciò sento il rischio della morte che incombe su di me se non finirà la guerra. Figurati allora come sono scontento visto che la guerra non è ancora finita. Mi spiace dirtelo perché in primo luogo non saprò se a causa della censura ti faranno ricevere questa lettera la quale contiene parole che il governo non permette e poi perché non vorrei che tu pensassi troppo che sto soffrendo.

 

Si tratta però di uno sfogo momentaneo che sembra non lasciar tracce per molti mesi quando la corrispondenza con la madre e con i familiari aggiunge semmai alle notizie regolarmente fornite a proposito dell’esperienza di guerra al fronte un insieme di dettagli che gettano luce su quanto essa s’intrecci da un lato con il ricordo di San Paolo continuamente ravvivato da informazioni desunte dalla stampa etnica e con le discussioni da un altro sulla vita che frattanto si viene svolgendo in Brasile. Américo riceve saltuariamente giornali brasiliani e italo paulisti e scambia inoltre una infinità di lettere (alle volte anche 3 o 4 al giorno) con quelli come lui che è riuscito a rintracciare in reparti vicini o lontani dal suo. Non meno indicativi, tuttavia, appaiono, all’interno di una stessa lettera, i cambi improvvisi di lingua con il portoghese che nettamente prevale quando Américo si stia rivolgendo ai fratelli con i quali corrisponde infatti più spesso così ma anche, poi, quando la nostalgia si faccia imperiosamente strada nel suo cuore. Scrive ad esempio “dal fronte, il 12 maggio 1916”

 

Carissimo e amato fratello

 

Oh ricevuto con molto piacere e allegria la tua caralettera e di sentire che state tutti bene di salute, così ti assicuro di me sempre allegro e contento.

Non puoi figura[re] che piacere ho avuto di sentire che sei un bailarino di primo ordine no Barra Funda e di avere già trovato una bella namorata, speriamo a Dio che assiste il tuo matrimonio già che vuoi prendere moglie subito. Enquando io no so se so bailare più, perché già sono 9 mese che non ballo. Que saudade de dançar um valzer no Mascagni [….] spero de um dia se Deus quer ainda de por o pé no Salão Italo Fausta. Namorada não tenho mais, agora namoro e mi quer muito bem, sabe quem è? È a carabina que nunca o abandona..Tenho encontrado hoje um amigo paulista que se chama Finelli Modesto que era barbeiro na rua do Seminario, è do 21° Fanteria, nós dois eravamo socio fundador da Excelsior; elle sauda o Romando Avanzi , meu amigo e seu. O meu amigo Demetrio, que se acha no 79° Fanteria me escreve todos os dias. Muito obrigado das lembrança da senhorita Paulina e sua irmâ Nené no qual sauda por minha parte….

 

Anche le esortazioni rivolte a Eleonora in italiano perché reagisca allo sconforto e non si lasci prendere dalla disperazione sono continue e si mescolano quasi sempre a una serie indicativa di espressioni a mezza via tra il consolatorio e il patriottico in cui già nell’estate del ‘16 comincia a definirsi e a meglio risaltare l’introiezione di alcune nozioni chiave della pedagogia militare a proposito del valore guerresco degli italiani, dello sleale e disumano nemico austriaco, “barbaro” meritevole d’essere ucciso senza remissione, e addirittura della morte in battaglia che, se ci si sia battuti con coraggio e con abnegazione, può anche essere accolta serenamente (sollecitando l’invio di una foto da parte di suo fratello Luigi, Américo noterà del resto all’inizio di agosto del 1916: “Almeno se muoio avrò il suo sguardo che mi accompagnerà al tumulo sacro degli eroi della patria”):

 

Zona di guerra, 12 luglio 1916

Carissima e amata mamma,

 

Scrivo queste poche righe per farti sapere che godo magnifica e buona salute, allegro e contento, così spero sentire di te e dei miei fratelli.

Dunque cara mamma il tempo passa, pochi giorni mancano a un anno che sto lontano di te, ringrazio la “Nossa Senhora da Penha”che mi fa la grazia di io stare bene di salute e di darmi la forza di affrontare qualunque pericolo per la bell’Italia, che oggi con i suoi valorosi figli lottano qui al campo di battaglia per la libertà dei suoi fratelli al gioco barbaro dagli stranieri. Noi valorosi italiani con la baionetta ricacciamo i vili che fanno uso si armi proibiti ai combattimenti, come il gas asfissiante, i liquidi infiammabile, i liquidi lacrimosi, che sono terribili, che ci abbruciano vivi e ci acciecano. Noi sangue italiano non abbiamo paura di questa orribile scena, con la baionetta andiamo avanti, e quando un compagno cade muore contento col sorriso.

L’ultimo combattimento che ho preso parte abbiamo ottenuto una bella vittoria, il nemico furioso di rabbia venne avanti con migliaio di uomini e ci assaltò durante la notte con tadimento di arrendersi prigionieri, venne con le bombe per massacrarci. Felicemente io e come molti abbiamo avuto la fortuna di difenderci colla baionetta e i nostri disgraziati feriti che cadevano, venivano massacrato orribilmente di questi barbari austriaci.

Stai contenta e tranquilla cara madre che Dio mi aiuterà e se sono destinato a morire a qui al campo di battaglia, muoio contento e tranquillo come se fosse alle tue braccia, e se avrò il riste fine come molti miei compagni che valorosamente hano caduto, ti prego nemmeno pensarci e nemmeno piangere per me […] Fammi saper se ricevi la cartolina che il governo ci passa, cartoline del R. Esercito Italiano in franchigia e si alla medesima paghi la multa.

Spero che la vittoria non sarà a lungo per raggiungerla

 

Ancora più sintomatica, ad ogni modo, appare l’alternanza di toni epici e patriottici e di cadute nella malinconia e nella depressione che a un certo punto faranno balenare davanti ai suoi occhi persino la prospettiva del suicidio come preferibile alla morte – o alla paura della morte – in un assalto all’arma bianca. Lo stesso tipo di azione sanguinosa e cruenta, peraltro, della quale egli discorre disinvoltamente con la sorella a pochi giorni di distanza dalla lettera precedente scrivendole dal campo di battaglia il 15 maggio 1916 per fare il resoconto in portoghese di un contrattacco degli austriaci intenzionati a penetrare nelle trincee difese dal suo reparto di fanteria e ricacciati dagli italiani a colpi di fucile e di bombe a mano mentre

 

a nossa meravigliosa artiglieria fazia fogo de todos os lados e foram batidos com grande perdidas umanas, obtemos a vittoria sem nem um ferido enquando os austriacos centenas de mortos por terra, a nossa esquersda de Monfalcone os nossos valorosos compagneiros defenderam uma nossa trincera que os austriacos com grandes forças que nem formigas que stavam avançando por occupar ella, quasi già em perigo por ser a força pouca os nossos soldato que a defendia si lancia com a baionetta e fazem retroceder o nemigo com terriveis perdidas que soffreram os barbaros austriacos e a posição foi sempre mantida, fizemos muitos prigioneiros. Aqui a nós è um divertimento ver os austriacos pular pelos ares pedaços dos nossos golpos de canhão que arrembtam nas suas trincheras

 

Alla sorella dopo aver decantato con descrizioni dettagliate proprio la riuscita di un attacco italiano, a cui aveva partecipato tra il Carso e Monfalcone, Américo confida di sperare in un buon ritorno in famiglia anche per poter raccontare i numerosi episodi ai quali ha preso parte sottolineando come essi costituiscano “un vero romanzo” cui forse “nessuno crederebbe”, mentre vari mesi più tardi, con un cambio ancor più radicale di toni e di registro, individua da sé e squaderna per intero i motivi che lo rendono schizofrenicamente diviso tra l’Italia e il Brasile, le due patrie del suo cuore dov’è ormai la seconda, nel 1917, quella da cui gli arrivano sempre meno segnali, ma nella quale, personalmente, ha deciso in via definitiva di voler tornare a vivere in futuro

 

Adorata sorella – dice così – non puoi immaginare come sono triste che da molto tempo non ricevo notizie da San Paolo; sono già due lunghi mesi che non ricevo nemmeno una cartolina da nessuno, penso persino che tutti mi hanno dimenticato o addirittura credono che io non esisto più a questo mondo, invece grazie a Dio fino ad oggi vivo ancora dopo aver passato migliaia di pericoli di morte. Ah!… Quando sarà il felice giorno di ottenere la mia libertà per godermi il fiore della mia gioventù , per non soffrire più e non aver bisogno di nessuno? Sogno sempre questo sogno felice, quando sarà? Non lo so, sarà lunga ancora star da solo isolato dalla famiglia, per il mondo. Scrivimi senza fallo così il mio cuore sarà contento, per non dimenticarmi mai e continuare a scrivere come in passato. Aspetto minuto per minuto tue notizie, credo cara sorella che ti dimenticasti del tuo povero fratello così lontano senza nessun conforto e spero con la presente di avere da te compassione e scrivimi di più.

Ti ho mandato a dire che avevo una ragazza che mi piaceva tanto, ma è durato poco questo amore libertino che giorni fa ho deciso di lasciarlo e di non innamorarmi più, perché il mio cuore si è ribellato che devo sposarmi non in Italia ma dove sono nato in Brasile e vicino ai miei cari come hanno fatto i miei fratelli maggiori. Spero se avrò fortuna di tornare e di trovare un buon matrimonio a San Paolo. Saudades e saluti a tutti. E tu ricevi mille baci dal tuo sempre amato fratello che non ti dimentica mai

 

Per Américo le cose andarono, come s’è detto, diversamente ed egli morì combattendo sulla Bainsizza nel secondo giorno dell’undicesima battaglia dell’Isonzo, il 19 agosto del 1917, senza poter coronare il suo sogno di poter rientrare in quella San Paolo il cui ricordo e la cui nostalgia sempre più pungente lo assillavano ormai da molti mesi.

 

In attesa di un bilancio più dettagliato che intendo riservare a una stesura definitiva e più ampia di questi miei appunti, credo sia il caso di fermarsi qui nella convinzione, ribadita alla luce degli ultimi brani riprodotti, che lo studio delle lettere dei soldati italo discendenti e dei loro congiunti, apprezzabile sotto i più diversi punti di vista, consente agli storici politici del primo conflitto mondiale un sicuro avanzamento delle conoscenze anche a proposito di scelte, come quella individuale compiuta e poi rimpianta da Américo Orlando, ma spartita con lui da chissà quanti altri “volontari” del Brasile e dell’Argentina, di venire a combattere, soldati in realtà di un’altra patria, nella grande guerra europea.

[1]           Anche se, com’è pure assai noto, in continuità con i secoli precedenti l’evo contemporaneo e con tutto ciò che aveva avuto modo allora di manifestarsi su scala e in quantità forse più ridotta ma spesso già con un indicativo corredo di supporti modellistici. Cfr. Correspondence: Models of Letter-Writing from the Middle Age to the Nineteenth Century, a cura di R. Chartier, A. Boureau e C. Dauphin, Cambridge, Polity Press, 1997; Epistolary Selves: Letters and Letter-Writers, 1600-1945, a cura di R. Earle, Aldershot, Ashgate Publishing, 2005; E. T. Bannet, Empire of Letters. Letter Manuals and Transatlantic Correspondence, 1680-1820, Cambridge, Cambridge University Press, 2005.

 

[2]           Cfr. La correspondance: les usages de la lettre au XIXe siècle, a cura di R. Chartier, Paris, Fayard, 1991, e M. Lyons, The Writing Culture of Ordinary People in Europe (1860-1920), Cambridge, Cambridge University Press 2013.

 

[3]           Sul concetto di sfera pubblica borghese cfr. la prefazione di Jürgen Habermas alla nuova edizione del suo classico studio su Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 2001, ma più in dettaglio, per alcuni aggiustamenti, si vedano anche G. Eley, Nations, Publics and Political Cultures: Placing Habermas in the Nineteenth Century, in Habermas and the Public Sphere, a cura di Craig J. Calohun, Ithaca NY, Cornell University Press, 1992, pp. 289-315, e il dossier Storia e critica dell’opinione pubblica di J. Habermas, “Contemporanea”, 2 (2005), pp. 337-370.

 

[4]           Istruzione, alfabetismo, scrittura. Saggi di storia dell’alfabetizzazione in Italia (sec. XV-XIX), a cura di A. Bartoli Langeli e X. Toscani, Milano, Franco Angeli, 1992.

 

[5]           A. Castillo Gómez et alii, Bibliografía sobre escrituras populares y cotidianas (siglos XIV-XXI), Alcalá de Henares, Seminario Interdisciplinar de Estudios sobre Cultura Escrita, Universidad de Alcalá, 2006

 

[6]           C. Bonnier, Lettres de soldat. Étude sur le mélange entre le patois et le français, Halle 1891 (estr. da “Zeitschrift für romanische Philologie, 15, 1891 pp. 375-428) e F. Lussana, Lettere di illetterati. Note di psicologia sociale, Bologna, Zanichelli, 1913.

 

[7]           Cfr. la lettera dell’affittuale contadino GioBatta Ferretto a Fedele Lampertico, da Colzè, 19 ottobre 1892, in E. Franzina, Appunti in margine al problema storico dell’emigrazione, “Classe”, 11 (1975), pp. 189-190.

 

[8]           F. Lampertico, Carteggi e diari, 1842-1906. Volume I., A-B, a cura di E. Franzina, Venezia, Marsilio 1996. Nell’introduzione, pp. 3-70, tutta dedicata all’analisi delle tipologie epistolari ottocentesche, l’episodio del ritrovamento di cui alla nota precedente veniva storicamente meglio inquadrato e messo in rapporto con una iniziativa che nel 1891 aveva assunto la Società geografica italiana di Roma per la raccolta sistematica di lettere di emigranti e di loro corrispondenti affidata allo statistico Luigi Bodio. Le oltre 700 missive originali da questi recuperate presso i più diversi destinatari, sia detto en passant, andarono poi purtroppo disperse.

 

[9]           E. Franzina, Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti in America Latina, 1876-1902, Milano Feltrinelli, 1979.

 

[10]          Per brevità, ma anche per render conto dei progressi compiuti in Italia sulle scritture epistolari popolari sino alla fine del secolo scorso a partire dal 1985 (quando in un convegno sulla grande guerra tenutosi a Rovereto i suoi promotori locali rilanciarono con forza l’idea dell’utilizzabilità di tali fonti con una relazione di G.L. Fait, D. Leoni, F. Rasera e C. Zadra su La scrittura popolare della guerra. Diari di combattenti trentini, poi in La Grande Guerra: esperienza memoria immagini, a cura di D. Leoni e C. Zadra, Bologna, il Mulino, 1986, pp. 105-135) rimando in primissima battuta a E. Franzina, L’epistolografia popolare e i suoi usi, “Materiali di Lavoro”, 1-2 (1987), pp. pp. 21-76 e ai risultati degli anni iniziali di ricerca e di attività editoriale della Federazione degli Archivi di Scrittura Popolare (FASP 1987-1997, su cui cfr. D. Leoni, Per una Federazione nazionale degli Archivi della scrittura popolare, “Movimento Operaio e Socialista”, 1-2, 1989, pp. 45-48 e oggi in sintesi A. Iuso, The role and impact of the “Archivi della scrittura popolare”, “Journal of Modern Italian Studies”, 19, 3, 2014, pp. 241-251) che si articolò in origine nelle sedi di Verona (Università), di Trento e Rovereto (Archivio Trentino), di Genova (Archivio Ligure) e poi di Pieve S. Stefano (oggi il più noto anche per meriti giornalistici e divulgativi ossia l’Archivio Diaristico Nazionale per cui si veda la rievocazione di Antonio Gibelli prefatore di N. Maranesi, Avanti sempre. Emozioni e ricordi della guerra di trincea, 1915-1918, Bologna, il Mulino, 2014, pp. 9-14). In concreto sono da ricordare, a proposito della congiuntura bellica ed emigratoria che qui più ci interessa, la collana sorta per impulso dei due Musei della guerra di Trento e Rovereto “Scritture di guerra” (di cui sono usciti una decina di volumi) e poi, realizzata in collaborazione con questi, prima presso l’editore Marietti e poi presso Scriptorium (Settore Università Paravia) grazie all’iniziativa di vari soggetti, la collana “Fiori secchi “ dove comparvero libri come F. Croci, Scrivere per non morire. Lettere dalla Grande Guerra del soldato bresciano Francesco Ferrari, Torino 1992, C. Costantini, Un contabile alla guerra. Dall’epistolario del sergente di artiglieria Ottone Costantini (1915-1918), ivi 1996, e Selma e Guerrino. Un epistolario amoroso (1914-1920), a cura di Rosalba Dondeynaz, ivi 1992. Una intensa attività di “recupero” delle fonti popolari scritte si è realizzata, ad ogni modo, anche al di fuori degli ambiti scientifici e editoriali ora citati, nella produzione locale e regionale di varie parti d’Italia (di cui ho già dato conto per i primi vent’anni in vari luoghi e specie in E. Franzina, Una patria straniera. Sogni, viaggi e identità degli italiani all’estero attraverso le fonti popolari scritte, Verona, Cierre 1997): sul caso trentino per merito ed impulso in particolare di Quinto Antonelli (del quale son da vedere almeno Storie da quattro soldi. Canzonieri popolari trentini, Trento 1988; Scritture di confine. Guida all’archivio della scrittura popolare, Trento, Museo Storico di Trento, 1999; I dimenticati della grande guerra. La memoria dei combattenti trentini (1914-1920), Trento 2008) e poi di altri autori come, da ultimo, Federico Mazzini (con il libro “Cose de laltro mondo “. Una cultura di guerra attraverso la scrittura popolare trentina, 1914-1918, Pisa 2013), mentre sul caso friulano son da ricordare almeno le opere menzionate nei bilanci di L. Fabi, Scritture di guerra, in Friuli e Venezia Giulia. Storia del ‘900, Gorizia, Editrice Goriziana 1997, pp. 147-158 e Scrittura autobiografica, editoria e memoria della grande guerra in Friuli, in Storie della ritirata nel Friuli della Grande Guerra. (Diari e memorie dell’invasione austrotedesca), a cura di G. Viola, Udine, Gaspari, 1998, pp. 11-14. Sul caso di Brescia, oltre alla silloge citata di Federico Croci, vedi T. Cavalli, Isonzo infame. Soldati bresciani nella guerra ‘15- 18, Brescia, Edizioni del Moretto, 1983. Sui casi liguri e genovesi cfr. invece Storie di gente comune nell’Archivio Ligure della Scrittura Popolare, a cura di P. Conti, G. Franchini e A. Gibelli, Genova, Università degli Studi, 2002 e , più avanti, le numerose indicazioni fornite nei loro lavori di nuovo da Antonio Gibelli, da Fabio Caffarena e da Carlo Stiaccini.

 

[11]          Una prima regestazione del posseduto (sino al 2000) sta in Archivio Diaristico Nazionale. Inventario, a cura di L. Ricci, Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione generale per gli Archivi, 2003.

 

[12]          Cfr. Vite di carta [Atti del convegno “Archivi autobiografici in Europa. Tradizioni e prospettive a confronto”, Rovereto 1998], a cura di Q. Antonelli e A. Iuso, Napoli, L’Ancora, 2004.

 

[13]          Cfr. Cultura escrita y clases subalternas: una mirada española, a cura di A. Castillo Gómez, Oiartzun, Sendoa, 2001; La correspondencia en la Historia. Modelos y prácticas de la escritura epistolar, a cura di C. Sáez e A. Castillo Gomez, Universidad de Alcalá de Henares, Calambur, 2002, e Scritture migranti uno sguardo italo-spagnolo. Escrituras migrantes: una mirada italo-española, a cura di F. Caffarena e L. Martinez Martin, Milano, Franco Amgeli, 2012.

 

[14]          Per una rassegna esaustiva cfr. quanto segnalavo già nella Postfazione apposta alla seconda edizione riveduta e ampliata di Merica! Merica! (comparsa con il sottotitolo lievemente modificato di Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti e friulani in America Latina 1876-1902, Verona, Cierre Edizioni, 1994, pp. 237-270). Per ogni altro approfondimento cfr. invece M. Sanfilippo, Un’occasione mancata? A proposito di un libro di David A. Gerber sulle lettere degli emigranti, “Studi Emigrazione”, 170 (2008), pp. 475-488.

 

[15]          A. Petrucci, Scrivere e no. Politiche della scrittura e analfabetismo nel mondo d’oggi, Roma, Editori Riuniti, 1987, e A. Bartoli Langeli, La scrittura dell’italiano, Bologna, il Mulino, 2000.

 

[16]          A. Petrucci, Scrivere lettere. Una storia plurimillenaria, Roma-Bari, Laterza, 2008.

 

[17]          “Dolce dono graditissimo. La lettera privata dal Settecento al Novecento, a cura di M. L. Betri e D. Maldini Chiarito, Milano, Franco Angeli, 2000.

 

[18]          A. Custodero, Addio lettere e cartoline: posta dimezzata in cinque anni, “La Repubblica”, 8 ottobre 2014.

 

[19]          M.N. De Luca e I.M. Scalise, La fine della penna, “La Repubblica”, 25 novembre 2014, ma cfr. anche le ragionevoli obiezioni dello scrittore Tommaso Pincio: Ma siamo proprio sicuri che la scrittura a mano sia destinata a sparire?, “Il Venerdì”, 21 novembre 2014, p. 31.

 

[20]          S. Garfield, To the Letter. A Journey Through a Vanishing World, Edimburgh, Canongate Books, 2013, e S. Husher, L’arte delle lettere. 125 corrispondenze indimenticabili, Milano, Feltrinelli, 2014.

 

[21]          M. Corti, Ombre dal fondo, Torino, Einaudi, 1997.

 

[22]          M. Lyons, A New History from Below? The Writing Culture of European Peasants, c.1850 – c.1920, in White field, black seeds: Nordic literary practices in the long nineteenth century, a cura di A. Kuismin e M.J. Driscoll, Helsinki, Finnish Literature Society, Studia Fennica Litteraria, 2013, pp. 13-25.

 

[23]          All’interno di una lettura, peraltro prudente, com’è quella suggerita, sulla scorta di un’ampia documentazione, da Martin Lyons in quello che rimane uno dei suoi lavori più convincenti sull’argomento: French Soldiers and Their Correspondence: Towards a History of Writing Practices in the First World War, “French History”, 17 (2003), pp. 79-85.

 

[24]          Prendo a prestito la definizione da Y. Frénette e Gabriele Scardellato, The Immigrant Experience and the Creation of a Transatlantic Epistolary Space: A Case Study, in More than Words: Essays in Transport, Communication and the History of Postal Communication, a cura di J. Willis, Ottawa, Canadian Museum of Civilization, 2007, pp. 189-202, notando che anche le comunicazioni private dipendenti dall’emigrazione transoceanica nel loro progressivo ampliarsi generarono qualcosa di simile a ciò che con molto anticipo era successo (per lessico, struttura, frasari, modelli ecc.) nell’ambito pur diverso delle corrispondenze commerciali (cfr. P. Hudson, Correspondence and Commitment: British Traders’ Letters in the Long Eighteenth Century, “Cultural & Social History”, 11, 4, 2014, pp. 527-553).

 

[25]          E. Franzina: La guerra lontana. Il primo conflitto mondiale e gli Italiani d’Argentina, “Estudios Migratorios Latinoamericanos”, 44 (2000), pp. 57-84 ( poi anche in Al di qua e al di là del Piave. L’ultimo anno della Grande Guerra, a cura di G. Berti e P. Del Negro, Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 91-122 ); Un fronte d’oltreoceano: italiani del Brasile e italo brasiliani durante il primo conflitto mondiale (1914-1918), in 1916 – La Strafexpedition, a cura di V. Corà e P. Pozzato), Udine, Gaspari Editore, 2003, pp. 226-247; Italiani del Brasile ed italo brasiliani durante il primo conflitto mondiale (1914-1918), “História. Debate e Tendências. Brasil – Itália. Travessias” (Passo Fundo , RS), 5 (2004), pp. 225-267; Volontari dell’altra sponda. Emigranti ed emigrati in America alla guerra (1914-1918), in Volontari italiani nella Grande Guerra, a cura di F. Rasera e C. Zadra, Rovereto, Museo Storico della Guerra, 2008, pp. 215-237; Emigranti ed emigrati in America davanti al primo conflitto mondiale (1914-1918), in Stati Uniti e Italia nel nuovo scenario internazionale, 1898-1918, a cura di D. Fiorentino e M. Sanfilippo, Roma, Gangemi Editore, 2012, pp. 135-156; Concorrentes, antagonistas e adeversários: a rejeição do “inimigo” entre os imigrantes europeus no Brasil da Grande Guerra (1914-1918), Conferencia e mesa redonda, coordenação Claudia Musa Fay e Antonio de Ruggiero, Porto Alegre, PUCRS, 30 de maio de 2014.

 

[26]          E accolto, mi sembra, con scetticismo da molti studiosi accademici: E. Franzina, La storia (quasi vera) del Milite ignoto, raccontata come un’autobiografia, Roma, Donzelli editore, 2014.

 

[27]          Per lo specifico del traffico postale militare in Italia tra il 1915 e il 1918 cfr. B. Cadioli e A. Cecchi, La posta militare italiana nella prima guerra mondiale, Roma, Ufficio storico – Stato Maggiore dell’Esercito, 1978.

 

[28]          Cfr. ad es. A. Gibelli, Emigrantes y soldatos. La escritura come prática de masa en los siglos XIX y XX, cit., e di nuovo M. Lyons, Los soldados franceses y su correspondencia. Hacia una historia de las practicas de la cultura escrita en la primera guerra mundial, in La conquista del alfabeto: Escritura y clases populares, a cura di A. Castillo Gomez, Gijón, Ediciones Trea, 2002, pp. 225-245.

 

[29]          Per i soldati e per il caso italiano cfr. F. Caffarena, Lettere dalla Grande Guerra. Scritture del quotidiano, monumenti della memoria, fonti per la storia. Il caso italiano, Milano, Unicopli, 2005 ma anche M. Lyons, Amor, muerte y escritura en el frente italiano, 1915-1918, in Cinco Siglos de Cartas. Historia y practicas epistolares en las epocas moderna y contemporanea, a cura di A. Castillo Gomez e V. Sierra Blas, Huelva, Universidad de Huelva, 2014, pp. 291-309; A. Gibelli, La guerra grande. Storie di gente comune, 1914-1919, Roma-Bari, Laterza, 2014, e soprattutto, ora, Q. Antonelli, Storia intima della grande guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati dal fronte, con un dvd del film di Enrico Verra “Scemi di guerra”, Roma, Donzelli 2014. Segno vistoso della importanza che il ricorso alle fonti popolari scritte e in particolare alle lettere dei semplici soldati hanno finito per avere nella ricostruzione storica della grande guerra sono le ricadute e gli usi, sovente disinvolti per non dir peggio, del loro apporto e del peso che detengono nelle opere divulgative allestite da giornalisti e da storici improvvisati, sedicenti di complemento, particolarmente oggi nel clima diffuso di commemorazioni, come che sia, del primo conflitto mondiale. Per comodità, ma quale esempio eclatante del genere, merita d’essere menzionato a tale proposito almeno il libro di Aldo Cazzullo, La guerra dei nostri nonni, Milano, Mondadori 2014 pubblicizzato per ogni dove in Italia, fra ottobre e dicembre del 2014, nei maggiori quotidiani e nelle principali radio e televisioni del paese (con lunghe ospitate dell’autore in talk show, telegiornali, trasmissioni d’intrattenimento mattutine, pomeridiane, notturne ecc.).

 

[30]          Sintomaticamente, in Italia, non se ne trova traccia, infatti, nemmeno nei più recenti dizionari di grande formato dedicati così all’emigrazione come alla grande guerra i quali non fanno espressamente parola dei volontari venuti a combattere in Europa da oltreoceano (o anche solo dai luoghi di emigrazione europei): cfr. le opere dirette sulla prima dalla giornalista Tiziana Grassi (Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo, Roma, SER, 2014) e sulla seconda dallo storico Nicola Labanca (Dizionario storico della prima guerra mondiale, Roma Bari, 2014, anche se qui figura un contributo pregevole di Carlo Stiaccini: Scrivere dal fronte, pp. 301-310).

 

[31]          Sui francesi degno di nota è il libro di Hernán Otero, La guerra en la sangre. Los franco-argentinos ante la Primera Guerra Mundial, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 2009.

 

[32]          J.F. Bertonha, Non tutti gli italiani sono venuti dall’Italia. L’immigrazione dei sudditi imperiali austriaci di lingua italiana in Brasile, 1875-1918, “Altreitalie”, 46 (2013), pp. 4-29

 

[33]          O. Compagnon, L’adieu à l’Europe. L’Amérique latine et la Grande Guerre, Paris, Fayard, 2013

 

[34]          Lettere del tempo di guerra, in appendice a A. Palombarini, Cara consorte. L’epistolario di una famiglia marchigiana dalla grande emigrazione alla grande guerra, Ancona, Il Lavoro Editoriale, 1998, p. 131.

 

[35]          G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra. Con una raccolta di lettere inedite, Torino, Bollati Boronghieri, 20002 (di qui ovvero dall’appendice Lettere, pp. 409-412, 422,426-427, 438-439,445-448 tutte le citazioni più avanti nel testo).

 

[36]          L. Spitzer, Italienische Kriegsgefangenenbriefe. Materialen zu einer Charakteristik der volkstümlichenn italienische Korrespondenz, Bonn, Hanstein Verlag 1921, poi nella traduzione di Renato Solmi, Lettere di prigionieri di guerra italiani, 1915-1918, Torino, Boringhieri, 1976. Tuttora inedito è l’altro lavoro di Spitzer sulle circonlocuzioni per designare la fame (Die Umschreibungen des Begriffes “Hunger” im Italienischen. Stilistich-Onomasiologische Studie auf Grund von Unveroeffentlischtem Zensurmaterial, Halle, Druck von Karras, Kroeber & Nietschmann 1920).

 

[37]          E. Forcella e A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968, p. IX. Vale la pena di notare, en passant, che questo libro giustamente famoso e più volte ristampato sino ai giorni nostri si apriva con la rievocazione di una drammatica vicenda accaduta a S. Eusebio di Bassano in vicinanza del fronte pochi giorni dopo Caporetto. Ne era stato protagonista, e vittima perché poi processato e fucilato per disfattismo, un aspirante ufficiale che, in tempo di pace, lavorava a bordo dei transatlantici in rotta per gli Usa dalla Germania, dove egli era anche nato e risiedeva, ma da dove aveva scelto di rientrare allo scoppio del conflitto ritenendo “suo dovere ritornare in Italia “. Benché eccentrico rispetto al tema epistolare, l’episodio merita di essere ricordato di sfuggita in questa sede riguardando uno di quei 300 mila italiani emigranti o figli di emigranti rimpatriati dall’estero dopo il maggio del 1915 il cui contingente, secondo Forcella, sarebbe stato strumentalizzato dal fascismo, circostanza questa del tutto vera, nonostante la “stragrande maggioranza dei renitenti” provenisse dalle file dell’emigrazione (il che, viceversa, non risulta affatto provato).

 

[38]          Potrebbe apparire pleonastico ricordarlo, ma va da sé che nelle corrispondenze private dei soldati la componente affettiva e quella familiare occupano quasi sempre, inevitabilmente, un posto di riguardo come insegnano anche solo gli esempi più remoti dei frammenti epistolari di età antiche o antichissime che ci siano pervenuti (a cominciare dalle lettere del II e III secolo d.C. dei legionari romani di Vindolanda lungo il Vallo di Adriano o del soldato egizio Aurelius Pollio inquadrato nella II Legio Auditrix di stanza in Pannonia, recuperate e decifrate in tempi recenti dagli archeologi). Sulla dimensione familiare riflessa nelle lettere di corrispondenti europei separati dagli oceani sin dagli albori della grande emigrazione cfr. il libro di Sarah M. S. Pearsall, Atlantic Families. Lives and Letters in the Later Eighteenth Century, Oxford et New York, Oxford University Press, 2008.

 

[39]          Ne ho dato conto abbastanza ampiamente in Franzina, La guerra lontana, e in Un fronte d’oltreoceano, cit.

 

[40]          Valga per i primi l’esempio offerto dalle ammissioni di Mussolini sugli “alti comandi [che] trasmettevano in copia ai comandi ancora più alti i testi di ignominiose canzoni maledicenti la guerra “ (in Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, Bologna, il Mulino 1990, p. 39 cit. in M. Isnenghi, Ritorni di fiamma. Storie italiane, Milano, Feltrinelli 2014, p. 311) e per i secondi la lettera del marzo 1917 di mons. Pellizzo, vescovo di Padova, al Pontefice Benedetto XV per segnalargli il dilagare nelle campagne di canti antimilitaristi dotati di “una potenza magica per produrre l’esaltamento nelle masse” come quella raccolta dal prelato fra Piove di Sacco e Crespano Veneto e intonata dalle giovani reclute delle classi 1898 e 1899 che recitava “Per colpa dei signori / la guerra è andata avanti / mettiamoci d’accordo! per mazzarli tutti quanti!” (I Vescovi e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, a cura di A. Scottà, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, I, pp.132-133).

 

[41]          D. Gazzi, Storie di vita e strategie familiari di emigranti, in Con la valigia in mano. L’emigrazione nel feltrino dalla fine dell’Ottocento al 1970, a cura di F. Padovani, Feltre, Libreria Editrice Agorà, 2004, p. 39.

 

[42]          História da escola dos imigrates italianos em terras brasileiras, a cura di A. Terciane Luchese, Caxias do Sul, Educs, 2014.

 

[43]          Le stime ufficiali oscillano fra le 8 e le 10 mila unità (cfr. Franzina, Un fronte d’oltreoceano, cit.) che a mio avviso dovrebbero essere oggi aumentate, seppur di poco, sino alla quota di 12 mila. Del resto per capacitarsene basterebbe compiere una verifica random negli archivi municipali di regioni che dal 1875 avevano dato, come il Veneto, un enorme contributo di emigranti al Brasile. Per fare appena un esempio relativo al Comune di Portogruaro recenti indagini archivistiche sulle liste degli iscritti di leva nati all’estero, rientrati in Italia allo scoppio della guerra e deceduti a causa di essa, hanno appurato che la maggioranza, una decina, erano nati appunto nell’interior di São Paulo, cfr. I.R. Pellegrini, U. Perissinotto e R. Sandron, Portogruaro e la Grande Guerra. Memorie del conflitto, Portogruaro, s.a., 2008 e Emigrazione dal Veneto Orientale tra ‘800 e ‘900. Storia e antologia, Venezia, Mazzanti, 2010.

 

[44]          Si ricordi, nel XXVII capitolo de I promessi sposi, l’excursus manzoniano sulle corrispondenze tra analfabeti costretti a servirsi, a rischio di continui fraintendimenti, dei servizi di uno scrivano.

 

[45]          Cfr. E. Franzina, L’immaginario degli emigranti. Miti e raffigurazioni dell’esperienza italiana all’estero fra due secoli, Paese (TV), Pagus Edizioni, 1992, pp. 226-227.

 

[46]          Cfr. A. Trento, Italiani immigrati, mondo operaio e stampa anarchica a São Paulo tra Otto e Novecento, “Scritture di storia”, 3, 2003, pp. 77-114, e L. Biondi, Classe e nação. Ttrabalhadores e socialistas italianos em São Paulo, 1890-1920, São Paulo, Editora Unicamp 2011.

 

[47]          Lettere del tempo di guerra, in Palombarini, Cara consorte, cit., pp. 105-106

 

[48]          Palombarini, Cara consorte, cit., p. 42.

 

[49]          Lettere del tempo di guerra, ibidem, p. 125.

 

[50]          I testi epistolari del Meneghello sono stati pubblicati a cura di Francesco Selmin nel saggio “Italiani della nostra razza”. Lettere sulla guerra di un emigrato veneto in Brasile (1917-1918), “Venetica. Rivista di storia delle Venezie”, 7 (1987), pp. 127-138 (ed ora anche in Venetica Colllection, 1984-2014. Trent’anni di storia regionale, a cura di P. Pasini, G. Sbordone e G. Zazzara, “Venetica”, 30, 2014, pp. 37-52), a cui si rinvia per tutte le citazioni.

 

[51]          E. Franzina, Frammenti di cultura contadina nelle lettere degli emigranti, “Movimento operaio e socialista”, n.s., IV, 1-2 (1981), pp. 52-53.

 

[52]          Penso soprattutto al discreto numero di edizioni a livello locale sul tipo di quelle delle quali io stesso mi son servito in abbondanza, recentemente, ne La storia (quasi vera) del Milite ignoto, cit. (cfr. qui, a pp. 303-312, la Bibliografia di testi in ordine (più o meno) di comparsa).

 

[53]          Cfr. Antonelli, Storia intima della grande guerra, cit., pp. 291-300

 

[54]          G. Denti, Siamo qui come le foglie. Lettere, immagini e note dal fronte e dalla prigionia, 1915-1918, a cura di R. Anni, Brescia, Grafo edizioni 1997, p. 93, cit. in Caffarena, Lettere dalla grande guerra, cit., p. 51

 

[55]          I.G. Tóth, The correspondence of illiterate peasants in early modern Hungary, in Cultural Exchange in Early Modern Europe, III, Correspondence and Cultural Exchange in Europe, 1400-1700, a cura di F. Bethencourt e F. Egmond, Cambridge, Cambridge University Press, 2007, pp. 303-332.

 

[56]          One Family, Two Worlds. An Italian Family’s Correspondence Across the Atlantic, 1901-1922, a cura di S.L. Baily e F. Ramella, New Brunswick-London, Rutgers University Press, 1988. Il numero d’ordine delle lettere già pubblicate in retroversione inglese viene segnalato da noi a fianco della data di ogni missiva (Lett. ..) con l’avvertenza che esso figurerà in corsivo ogni volta che il testo italiano qui ripristinato contenga brani non presenti nell’edizione a stampa americana (il che accade sovente per le osservazioni e le riflessioni d’ordine politico espresse dai corrispondenti essendo stato a suo tempo diverso l’interesse degli editori e del traduttore); nei pochi casi in cui le lettere risultino del tutto inedite mancherà ovviamente ogni indicazione numerica.

 

[57]          Cfr. E. Papadia, Di padre in figlio. La generazione del 15, Bologna, il Mulino 2013, e C. Papa, L’Italia giovane dall’Unità al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2013

 

[58]          Franzina, La storia (quasi vera), cit.

 

[59]          M. Silva Rossi, Mia cara mamma. Lettere dal fronte di Americo Orlando, Pescara, Linea Blu, 2007.

 

[60]          F. Croci, “Come desidero tornare presto a San Paolo”. Identidade nacional e filiações culturais: a experiência de guerra de um ítalo-brasileiro, 1915-1918 – Rio de Janeiro, Seminario Internacional Momento Itália Brasil (2011-2012), TUCA, Pontifícia Universidade Católic, São Paulo – Rio de Janeiro UERJ, 13-17 maggio 2012.

 

[61]          Fondo Orlando, Lettere, in Archivio Ligure della Scrittura Popolare, Genova.

 

[62]          Un fatto, questo, che realmente talvolta si verificò ancorché non nella misura enfatizzata dalla madre di Américo come potrebbe dimostrare il caso di un altro “volontario” italo brasiliano, Olynto Sanmartin, il quale, riformato per malanni contratti al fronte e quindi “rimpatriato” (ma nel Rio Grande do Sul dov’era appunto nato nel 1895 da una famiglia di emigranti valdagnesi), ne avrebbe diffusamente parlato in un resoconto autobiografico appoggiato al proprio diario del 1915-1916 e pubblicato da lui stesso quarant’anni dopo la conclusione del conflitto. In tale testo, redatto interamente in portoghese e rintracciato da Antonio De Ruggiero che ne sta curando a Porto Alegre una versione annotata che dovrebbe vedere la luce nel 2015 in Italia, l’autore ripercorre a memoria le tappe del suo anno di guerra (luglio 1915-luglio 1916) lungo l’Isonzo e nel Veneto: O. Sanmartin, Escola da Morte. Memórias da Grande Guerra de 1914-1918, Porto Alegre, Livreria do Globo, 1957.