Firmamenti sconosciuti. Storia d’Italia, autobiografie e scritture popolari di emigrazione dell’Archivio Diaristico Nazionale

Quando fondò nel 1984 l’Archivio Dia-ristico divenuto poi, a pieno titolo, “nazionale”, nemmeno Saverio Tutino avrebbe potuto immaginarne i successivi sviluppi o, meglio, i diversi esiti che nel volgere di poco più di trent’anni esso avrebbe avuto. Il fondo, alla data della sua uscita di scena nel 2011, comprendeva già un ampio insieme di iniziative editoriali e massmediatiche, compresa, dall’alba del nuovo millennio, una significativa collaborazione con la Sacher Film di Nanni Moretti (i noti Diari della Sacher). Anche così, tuttavia, in virtù del riconoscimento annuale conferito al miglior testo pervenuto a Pieve Santo Stefano nella sede aretina dell’Archivio – un riconoscimento che pour cause aveva agito a lungo da volano capace di farvi affluire da ogni parte d’Italia, in quantità crescente, scritture private e forme differenti di racconto specie d’incolti e semicolti[1] (diari e autobiografie, carteggi ed epistolari, ma anche esperimenti narrativi ai limiti del romanzesco) – le principali ricadute del Premio, a parte quelle filmiche o teatrali (come Il paese dei diari di Mario Perrotta e Paola Roscioli), erano state visibili e a tratti vistose soprattutto in campo giornalistico. Sotto molti aspetti, infatti, benché l’Archivio abbia poi propiziato dal suo seno l’uscita presso editori di rilievo (fra gli altri Archinto, Giunti, Einaudi, Forum, Terre di Mezzo ecc.) di un numero considerevole di volumi “propri” (circa 150 fra il 1986 e il 2018) e quantunque si sia sforzato di favorire un approfondimento delle peculiarità espressive del “self” sul piano della ricerca storica, antropologica e linguistica attraverso conferenze e pubblicazioni di buon livello (come, dal 1998, la rivista semestrale “Primapersona”) – tutte promosse, fra l’altro, oltreché da Loretta Veri e da Tutino, fin che visse, dai componenti di un prestigioso comitato scientifico (Anna Iuso, Quinto Antonelli, Pietro Clemente, Camillo Brezzi, Patrizia Gabrielli, Stefano Pivato, Antonio Gibelli ecc.) – la chiave di volta della sua forza e della sua notorietà sono stati quasi sempre, e vieppiù negli ultimi vent’anni, gli usi appunto giornalistici dei materiali da esso messi a disposizione e di recente anche digitalizzati in modo sistematico nell’ambito di un benemerito progetto di “Impronte digitali”.

Forse non a caso, a breve distanza dalla sua fondazione, era stato del resto Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale, un libro famoso di Miriam Mafai costruito quasi per intero sulla scorta di memorie da poco pervenute a Pieve Santo Stefano, a segnare nel 1987 l’inizio di una pratica di ripresa e di utilizzazione massiccia di testimonianze e di memorie dell’Archivio Diaristico Nazionale (ADN) tesa a proporre la rilettura tendenzialmente “dal basso” di alcune fasi della storia italiana contemporanea sottratte per un momento all’egemonia, in tale settore, non tanto degli storici accademici, quanto delle grandi firme della storiografia divulgativa, oggi diremmo alla Cazzullo, imitatrice o erede, quando andava bene, di Bocca e Montanelli. A voler essere precisi, peraltro, le fasi principali ovvero quelle meglio documentate nell’Archivio di Pieve erano poi le due guerre mondiali del ‘900 che infatti costituivano da sole il tema di oltre la metà dei circa 7 mila diari censiti alla fine del 2014 (e divenuti quattro anni più tardi quasi 8 mila), a discreta distanza quindi dai circa 760 testi allora conservati sull’emigrazione (pari peraltro, questi, a più del doppio dei 360 sulla Grande guerra il cui numero complessivo è presumibile che ammonti, se calcolato altrove, a parecchie migliaia come prova la cospicua attività svolta al riguardo anche solo dall’Archivio Ligure della Scrittura Popolare – ALSP – di Gibelli, Caffarena e Stiaccini e ancor più dall’Archivio della Scrittura Popolare presso il Museo storico del Trentino – AST – di Quinto Antonelli e degli eredi della rivista roveretana “Materiali di Lavoro”, Zadra, Leoni, Rasera ecc.)[2].

A questo argomento emigratorio nella collana del Mulino “Storie italiane”, erede a sua volta di quella intitolata “Diario italiano” tenuta a battesimo da Tutino nel lontano 1991, dedica oggi uno sforzo coraggioso e intelligente di lettura Amoreno Martellini[3] nella speranza che esso possa contribuire, se messo a confronto con le “nuove dinamiche del dramma” rappresentato dagli arrivi di altri migranti nell’Italia d’oggi[4], al recupero di una centralità troppe volte dimenticata o minimizzata, nella storia del nostro Paese, delle esperienze compiute, espatriando, da quasi trenta milioni di connazionali[5]. In tale odierna versione di un antico motto o monito (“Quando a emigrare eravamo noi”)[6] coniato anzitempo, a metà anni ‘90 del secolo scorso e rilanciato, meno di due decenni or sono, ma in un cotesto decisamente meglio predisposto ovvero maggiormente “compromesso” con l’immigrazione straniera, da Gianantonio Stella (“Quando gli albanesi eravamo noi”)[7], Martellini si muove con sobrietà ed eleganza, ma soprattutto con efficacia e con scelte che riscattano, sia detto en passant, anche le prove, simili ma molto meno convincenti, offerte in precedenza, sfruttando le stesse fonti dell’Archivio aretino, sulla Grande Guerra da Nicola Maranesi, Avanti sempre. Emozioni e ricordi della guerra di trincea, 1915-1918 (Bologna, il Mulino, 2014) e a proposito addirittura di due secoli di vita nazionale dall’anonimo curatore di La vita è un sogno. Voci, volti, speranze e battaglie degli italiani dal Settecento al XXI secolo (Milano, Il Saggiatore, 2016[8])

Accettando di definire fonti autonarrative quelle che una volta venivano chiamate più modestamente autobiografie o storie di vita – ma erano i tempi eroici di Bosio, di Montaldi e di Revelli,[9] in cui non ci si curava di designare le varie scritture personali, fossero cronache, diari o lettere, con nomi troppo esotici o impegnativi (egodocuments, écritures du for privé ecc.) – l’autore o, se si preferisce, il coordinatore e regista dell’opera, parrebbe avallare a prima vista una moda connotativa abbastanza prossima e congeniale a quella imposta dai subaltern studies, che ci sono giunti una ventina di anni fa dall’India, dove erano nati negli anni ‘80 del secolo scorso, via il Regno Unito, pressoché ignorando, nonostante i frequenti omaggi alla lezione comune di Gramsci, alcuni decenni di studi europei sulle classi popolari e sulla loro cultura (Burke, Chartier, Poirrier ecc.) riflessa al meglio dai testi in prima persona nei quali l’individuo scrive di sé[10]. E invece, per fortuna, già da sola la particolare formula antologica da lui prescelta e spiegata nella bella introduzione (pp. 7-15) mette al riparo Martellini, per un lato dalle insidie insite nella classica tensione fra storia e memoria che lievitava già in Guicciardini[11] e per un altro dalle contraddizioni, ben più pericolose, che governano i complicati rapporti tra l’io e il noi come oggetti di studio e, nel contempo, come tramiti preziosi di conoscenza per la ricostruzione del passato (non necessariamente, e sempre, ma tendenzialmente, e spesso, alternativi rispetto ad altri[12]).

Quali tessere plausibili d’un mosaico narrativo sostanzialmente riuscito gli argomenti individuati invece dall’autore, che pur si guarda bene dal farne un uso “politico”, ma che nemmeno arretra, per ciò, di fronte alle disillusioni del “sogno americano”[13] e soprattutto dinanzi al riscontro di alcune “somiglianze” ancor oggi vistose (ad es. le vie e i sentieri montani dell’espatrio “illegale” in Francia dei “nostri” immigranti sino a settanta anni fa e oggi degli stranieri di passo a Ventimiglia o a Chamonix[14]), propongono con parole sue alternate alle parole dei protagonisti dapprima un quadro generale delle cornici di fondo (il “grande esodo” di fine Ottocento, la relativa stasi e l’emigrazione in Francia tra le due guerre, la ripresa delle partenze, specie per l’Europa e massime in Svizzera e in Germania, nell’ultimo dopoguerra) e poi, via via, le caratteristiche e le questioni (o alcune delle questioni) connaturate all’esperienza dell’espatrio e, là dove ci fu e per quanto durò, del “trapianto” all’estero degli emigranti.

Assieme ai rituali della partenza e del “distacco” che implicano passaggi talora umilianti, oltre che dolorosi (dalle visite mediche alla precaria sistemazione nei luoghi di prima accoglienza[15]), rinunciando giudiziosamente alle descrizioni di viaggi o traversate che avrebbero portato via da sole troppe pagine e che comunque risultano le meglio conosciute sin dai tempi di De Amicis[16], Martellini affronta il tema dello straniero in veste di clandestino non tanto a bordo di transatlantici e di navi (già presente nelle pagine di vari testimoni italiani di fine Ottocento o d’illustri autobiografi coevi sul tipo di Robert Louis Stevenson) quanto a ridosso del ricordato confine italo francese ossia in territori da secoli teatro dell’andirivieni illegale di persone d’ogni età e del relativo contrabbando transfrontaliero, percorsi e ripercorsi tuttavia, tra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni cinquanta, da un gran numero di “camminanti”, ben descritti a suo tempo da Sandro Rinauro[17], come il minatore sardo Francesco Ibba le cui memorie a distanza di quarant’anni rispecchiano non meno di altri documenti coevi (inchieste giornalistiche, resoconti riservati di agenti del SIM, carte e manifesti di Comuni) le dinamiche dell’attraversamento alpino, la composizione dei gruppi in movimento e i ruoli logistico-commerciali dei passeurs con in più il senso vivo della drammaticità e delle sofferenze patite dagli emigranti clandestini.

Per non pochi di loro (e anche per qualcuno che in Francia aveva fatto ingresso regolarmente) l’esito paradossale sarà addirittura quello dell’arruolamento più e meno coatto nella Legione Straniera[18] di cui parlano le voci di Antonio Cocco, uno studente veneziano di diciannove anni e di Sante Fazzio un pastore siciliano di poco più anziano, il primo intercettato e arrestato dalla gendarmeria francese e il secondo irretito da un faccendiere napoletano, e quindi da un suo connazionale, bene inserito nella “rete borderline del commercio di uomini” ancora in funzione nell’ultimo dopoguerra.

Ibba, Cocco e Fazzio son solo i primi emigranti, dopo il boscaiolo friulano Raimondo Parutto – da una cui frase sul “firmamento sconosciuto” ha preso spunto Martellini per intitolare il proprio libro – a comparire in qualità di autori della serie robusta di diari, di memorie e di autobiografie (un’ottantina) su cui s’impernia, assieme a una manciata di epistolari[19], l’intelaiatura essenziale di un’opera suggestiva e attenta sin dall’inizio a mettere in giusto rapporto le peripezie individuali dei singoli testimoni con i contesti sovrastanti o se si preferisce con i “retroscena” dei fatti entro cui esse s’incanalarono man mano dando vita in cent’anni a un esodo divenuto così epocale da essere paragonato a una diaspora ma anche, poi, ad un “affare” multiforme e di colossali proporzioni

Il business dell’emigrazione col suo corredo di agenti e di agenzie, di mediazioni e d’interferenze di soggetti terzi sulle scelte di espatrio[20] o sui trasporti, sugli insediamenti all’estero e sugli stessi rimpatri di uomini, di minori e di donne, fa ovunque la propria comparsa nella trama delle rievocazioni di cui Martellini si serve e delle quali sottolinea la rilevanza fornendo di volta in volta, a chi legge, le esemplificazioni memorialistiche più appropriate. Ed è qui, sia detto en passant, che s’intuiscono e si misurano anche le competenze di storico dell’emigrazione marchigiana e italiana maturate dall’autore in molti anni di attività e già riscontrabili nei suoi primi libri di ricerca[21], frutto infatti di una applicazione specialistica spesso sottovalutata in Italia, che non figurano nelle notizie bibliografiche di copertina sul suo conto (dove, a paragone di pur importanti lavori da lui realizzati sull’antimilitarismo, sulla non-violenza e sul ‘68 non se ne parla infatti e dove non si accenna, del resto, neanche ad altri studi, comparsi a sua firma e frutto di una preziosa collaborazione tra lui e Stefano Pivato, sulla storia della canzone italiana).

Molto lungo e troppo difficile da rendere con fedeltà nello spazio breve di una nota sarebbe l’elenco dei casi toccati da una trattazione per exempla narrativi con il conforto di questa sicura conoscenza di prima mano dei fenomeni migratori e cioè appoggiata allo scrutinio di una serie assai vasta di documenti e di fonti “tradizionali” benché, naturalmente, il ricorso a quanto ne ricordano e poi ne scrivono in prima persona a distanza di tempo (o, se per lettera, in tempo reale) coloro che li vissero (o che li stavano vivendo) rimanga fondamentale e getti una luce specialissima, e senz’altro più intensa, su vicende remote e anche meno lontane se protratte sin dentro agli anni ‘70 del Novecento, quali la famiglia e le dinamiche di coppia, il destino delle mogli o delle spose per procura, quello dei figli (bambini al seguito dei genitori o rimasti in patria presso parenti, bambini espulsi, figli irriconoscenti ecc.), la miseria affettiva e sessuale degli uomini soli, lo sfruttamento [22] e la prostituzione di donne e ragazze oppure, sul versante del lavoro di cui la storia dell’emigrazione costituisce un passaggio obbligato e quasi un emblema[23], l’agricoltura nei campi di mezza Europa e delle due Americhe, i cantieri dei trafori e le miniere dell’industria estrattiva con le sue tragedie, soprattutto nel Belgio carbonifero, l’impiego intensivo, quasi ovunque, della manodopera femminile o di nuovo minorile e così via.

Si tratta, insomma, di uno spaccato o di un basso continuo della vita quotidiana protesa verso l’estero e poi passata all’estero dagli emigranti di ogni regione d’Italia tra la fine dell’Ottocento e i giorni nostri attraverso le loro stesse impressioni ovvero, come aveva cominciato a suggerire già molti anni fa Rudolph Vecoli, “in their own words”[24]: uno spaccato affidato certo alla regia del curatore il quale, però, sa dar ragione, spiegandone i risvolti privati o personali, di molti processi di natura economica e sociale generali e di grandissima portata. Essi vengono riassunti altrove dalle statistiche o dalle analisi che di tempo in tempo si sforzano di decifrare andamenti e caratteristiche dei flussi, costi e ricavi delle trasformazioni demografiche e materiali che ne conseguono[25], ma che devono affrontare anche fenomeni a ciò correlati di rigetto e di discriminazione, di integrazioni mancate e integrazioni riuscite, di formazione di doppie identità, di pendolarismi assidui e di consistenti rimpatri ecc. di cui pure fanno parola, foss’anche per frammenti e a modo loro, le testimonianze autobiografiche[26].

Le scritture dei protagonisti selezionate fra quelle presenti a Pieve S. Stefano (su 75 in totale più della metà di estrazione geografica centro-settentrionale includendo Marche, Umbria e Toscana con la prevalenza, qui, della provincia di Arezzo, per il resto, una trentina, viceversa del Lazio, delle isole e del sud della penisola) riflettono anche, sia detto di passata, i differenti tassi di alfabetizzazione e il diverso volume degli espatri su scala, regionale o provinciale, nelle zone di provenienza dei migranti scrittori[27]. Rispetto a questo insieme di osservazioni passano talvolta in second’ordine, nella trattazione di Martellini, alcuni dei quesiti a cui più si interessano, di norma, gli esperti delle diverse discipline inerenti l’emigrazione a cominciare dai demografi e dagli economisti, benché pure per loro la ricostruzione del curatore e “regista” riservi poi utilissime conferme e, non di rado, anche alcune novità inaspettate e per così dire “acuite”, massime nelle pagine finali sulla memoria delle due guerre mondiali, ma già prima in quelle riservate ai ricordi della vita “in colonia” nelle terre dell’effimero “impero” fascista (Somalia, Eritrea, Libia ecc.), dalla segnalazione di esperienze poco o mal conosciute perché non messe sufficientemente a fuoco, sin qui, dalla ricerca storica italiana. Tolte quelle escluse a priori perché riguardanti gli spostamenti interni e le migrazioni legate alle bonifiche dell’entre-deus-guerres negli agri, in Maremma e in Sardegna, oppure, per tutt’altri aspetti, quelle che si collegarono a tristi vicende destinate a ripercuotersi momentaneamente sulle relazioni internazionali dell’Italia (si pensi al “contenzioso” gestito dai consoli e più di rado dagli ambasciatori in occasione di espropri, lesioni, uccisioni, linciaggi ecc. ai danni di cittadini italiani espatriati[28]), ciò che da molte altre testimonianze emerge e risalta appare piuttosto inatteso e sovente originale anche quando non risulti esattamente inedito. Valgano per tutti gli spunti offerti dal “mestiere delle armi” abbracciato all’estero da non pochi italiani, che non sarebbe azzardato definire quali nostrani foreign fighters, tali alle volte per cause di forza maggiore, ma più spesso per mero calcolo economico, con esempi che puntano a mettere in evidenza, dopo gli accenni di apertura sugli arruolamenti in Legione Straniera, un nesso anche questo spesso dimenticato tra l’emigrazione e il “lavoro” del mercenario.

Benché Martellini lo collochi “nel cuore della storia” (ovvero della guerra civile americana) anziché nelle “retrovie del Risorgimento” dove lo aveva invece piazzato vent’anni fa Francesco Durante pubblicandone molte lettere ai genitori nella sua monumentale “Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti” (Italoamericana), il vicentino Adolfo Farsari, fuggito dall’Italia e arruolatosi ventiduenne nel 1863, senz’altro “per danaro”, nelle file dell’esercito nordista, figura anche qui osservatore attento e avvincente delle crudeli vicende belliche a cui partecipa da fervente ma scettico abolizionista, attraverso corrispondenze di rara perspicacia politica già note agli storici prima di giungere all’archivio di Pieve[29]. La sua parabola emigratoria, tra le più indicate nondimeno ad esprimere, sulla terribile guerra di secessione, le vedute di uno dei molti italiani che vi presero parte sostanzialmente “per il soldo” (e militando fra l’altro in maggioranza, specie i veterani dell’esercito borbonico, dalla parte dei Confederati), proseguirà dopo il 1867 per qualche tempo a New York. Qui Farsari vivrà un paio d’anni da borghese come agente d’emigrazione imbarcandosi poi di nuovo come militare nella marina USA, ma, congedato, diventerà addirittura famoso come fotografo d’arte in Giappone, suo ultimo approdo tra il 1875 e il 1889, prima del rimpatrio definitivo in Italia, dove morirà nel 1898. Ciò non toglie che la particolarità dell’esperienza emigratoria “in armi” serva a porre in evidenza, nella corretta interpretazione che ne dà Martellini, gli aspetti indicibili e più inquietanti delle guerre e dei combattimenti all’arma bianca assecondati dalle moderne artiglierie anche se questo aspetto prenderà forma compiuta e, se possibile, di maggiore impatto, nella più straordinaria e dolorosa delle trouvailles permesse dallo scandaglio delle fonti di Pieve a proposito di tale argomento ossia quello delle memorie di L.F., il giovane viterbese non ancora ventenne di cui si tace pour cause la precisa identità considerata l’assoluta mostruosità delle circostanze da lui narrate (decollazioni e sgozzamenti, fucilazioni a sangue freddo di prigionieri e di nemici inermi, stupri seriali di donne e di ragazze ecc.) o meglio la crudezza delle frasi con le quali, sessant’anni dopo esservi stato coinvolto a fondo, egli racconta la “guerra nascosta” del Contestado. Meglio noto in Brasile, dove si svolse tra il 1912 e il 1916 in luoghi (i planaltos di Santa Catarina e Paraná) raggiunti da molti nostri connazionali, nel quadro di una lite confinaria tra due parti d’una stessa federazione statale, ma soprattutto tra l’esercito regolare e una massa di diseredati – “caboclos” e “jagunços” – da tempo insediati in territori presi di mira dalla speculazione economico finanziaria del tempo (brasiliana e nordamericana), questo conflitto procurò la morte di centinaia “sertanejos” santacatarinesi vedendo perire, ad esempio nellla “chacina do Iguaçu” del gennaio 1915, fra le vittime della violenza omicida delle truppe di cui L.F. faceva parte, assecondate in tale frangente dai picchetti di “vaqueanos” del famigerato coronel Fabricio Vieira das Neves, un certo numero di immigrati europei, ossia tedeschi, polacchi, spagnoli, ma anche italiani (Santi, Preti, Tress, Facchin, Filippi)[30]. Di loro, tuttavia, L.T. pare non avvedersi né interessarsi, così come non nomina altri italiani che militarono a volte dalla sua stessa parte in veste di coadiutori o scout volontari (“vaqueiros”) dell’esercito. Nel ricordo di “uno che c’era” ampio è invece lo spazio concesso con strabiliante freddezza e gelida indifferenza espositiva ai peggiori misfatti dei militari (solo di quelli a sfondo sessuale, avendo abusato di donne e di giovani ragazze, L.T. ammette di essere stato a sua volta responsabile), mentre le giustificazioni da lui addotte per spiegare l’intransigenza sanguinaria dell’esercito contro i “fanatici”, come vengono definiti i caboclos per il loro indubbio messianismo e per aver dato retta al monaco João Maria di turno, ricalcano tutte quelle strumentali e più care a una rozza propaganda governativa ampiamente già in auge vent’anni avanti durante la bahiana e “sangrenta” guerra di Canudos. Ma L.T. non è certo all’altezza di Euclides da Cunha cronista d’eccezione nei Sertões (1902) dello sterminio, allora, dei seguaci del visionario Antonio Conselheiro (né dei molti altri, cineasti e scrittori, che da Glauber Rocha a Mario Vargas Llosa, ne avrebbero parlato diffusamente più tardi) anche se la capacità di romanzare gli avvenimenti vissuti da osservatore o da protagonista rispettando il “patto autobiografico” alla Lejeune non è, va da sé, una prerogativa obbligatoriamente richiesta ai memorialisti popolari e non[31].

A tali questioni delle autobiografie in bilico tra testimonianza e finzione, su cui da trent’anni s’interrogano e si affaticano molti altri specialisti – critici letterari, studiosi d’ermeneutica, linguisti ecc.[32] – dedica un breve spazio, in appendice, Laura Ferro che oltre a fornire alcuni dati essenziali su provenienze, mete e tipologie testuali delle scritture d’emigrazione conservate a Pieve, non a caso si avvale, per sottolineare la problematicità talvolta di quelle autobiografiche autentiche sì, benché non sempre veridiche, delle ammissioni di Raul Rossetti. Questi chiamato in causa e interpellato da “Primapersona” riconobbe nel 2000 di aver fatto ricorso nel proprio racconto in buona parte “di miniera” – Di un qualunque terzo piano concepito a metà degli anni cinquanta e proposto già nel 1963, senza esito, a molti editori ma infine premiato a Pieve e pubblicato da Einaudi nel 1989 col titolo di Schiena di vetro – a più di qualche aggiunta di fantasia “a fin di bene” ossia fatta per attenuare l’impatto delle memorie più scabrose. Una preoccupazione, questa, estranea, a cominciare dal viterbese L. T., alla maggior parte degli autobiografi presentatisi o presentati da altri al concorso aretino dove in ogni caso a influenzare le giurie bastavano e avanzavano le preferenze di qualcuno dei giurati di maggior prestigio più inclini a riconoscere i meriti letterari dei candidati (come, nel caso di Rossetti, Natalia Ginzburg che peraltro contribuì nel 1990 a far vincere anche un semicolto – sgrammaticatissimo al pari del poi più noto Vincenzo Rabito – ma anch’egli di rara e straordinaria potenza espressiva come Tommaso Bordonaro il cui testo di emigrazione venne edito quasi subito, un anno dopo e sempre da Einaudi, col titolo de La spartenza). La predilezione della Ginzburg si capisce e si giustifica tanto più quanto più si consideri che la convergenza fra il pregio estetico e il valore euristico di un testo come oggi si usa dire “autonarrativo” non può essere brandita per revocarne in forse l’“autenticità” come fonte il che si constata facilmente, ad esempio, nel caso di Rossetti, se solo si pensi a come ha potuto parlare di lui persino qualche storico del lavoro (per saper descrivere la miniera e la vita sotterranea in fondo ai pozzi – ha osservato Stefano Musso [33] – “bisogna essere dei bravi narratori. È forse per questo che, nonostante le mie molte interviste con minatori, di quel mestiere è riuscito a farmi capire di più un letterato, Rossetti, lui stesso un tempo minatore di carbone in Belgio”).

Mentre è perdonabile lo storico che scambia per letterato un abile memorialista non privo di doti e munito comunque di una diretta conoscenza dei fatti e proprio per ciò in grado di conferirvi una veste narrativa esteticamente apprezzabile, non lo sarebbe altrettanto quello che nel servirsi di una documentazione autobiografica o epistolare suggestiva in sé o per la notorietà di chi ne fosse stato l’autore, omettesse di andare a fondo e di approfondire sin dove possibile le circostanze raccontate e il loro contesto. Tutti o molti conoscono, per fare un esempio appropriato, le lettere private di Bartolomeo Vanzetti dai primi del Novecento alla morte, ma pochi sanno dei loro antecedenti o fanno caso al fatto che esse, volendo rimanere sullo stretto dell’esperienza epistolare, andrebbero messe a confronto come minimo con quelle spedite del pari dagli USA in Piemonte, vent’anni avanti da suo padre Giovanni rimastovi a lavorare abbastanza a lungo sul finire dell’Ottocento[34]. Se qui saranno le storie di famiglia ad assumere un rilievo necessario per meglio inquadrare la successione di certi avvenimenti, altre volte saranno i luoghi e i tempi nei quali ci si trova a scrivere una lettera o una memoria a risultare condizionanti e meritevoli d’essere tenuti in debito conto dal lettore. Sicché considerata l’anagrafe e la provenienza geografica di Rossetti, di famiglia piemontese originaria di Chivasso e tuttavia cresciuto nell’ultimo dopoguerra a Vicenza a stretto contatto, da popolano adolescente, con il suo coetaneo e amico Goffredo Parise (erano entrambi del 1929) al tempo de Il ragazzo morto e le comete tra le macerie di una città semidistrutta e in attesa, personalmente, di emigrare in Belgio (come si evince dalle prime pagine del suo Schiena di vetro), verrebbe quasi voglia di chiamare in causa l’atmosfera dei luoghi che al pari di altri, in Italia (da Parma a Ferrara a Trieste) sembrerebbero ispirare o incoraggiare maggiormente la scrittura di sé nonché, a seguire, la stessa scrittura artistica e letteraria. E del resto se si pensi che a Vicenza, la città di Fogazzaro, di Piovene e di Parise, rimandano, fra quelli finiti poi a Pieve, anche altri scriventi o scrittori come il Farsari già ricordato sopra o come, non menzionata qui da noi, ma spesso utilizzata da Martellini, la Etty Suglich di Ecco tutto era cominciato per gioco, non parrebbe stravagante chiedersi, con una domanda irrituale, che cosa sarebbe successo se nel 1963, l’anno di esordio dell’omonimo Gruppo di neoavanguardia letteraria,

Rossetti avesse trovato subito una casa editrice di sufficiente rilievo in grado di cogliere e di valorizzare le similitudini picaresche della sua prosa memorialistica senz’altro paragonabili a quelle, fresche di stampa, della Storia di Teuta, uno dei brani più avvincenti delle Autobiografie della leggera di Montaldi, comparsa in prima battura sulle pagine della rivista “Nuovi Argomenti” (e consultabile oggi in originale nella stesura manoscritta del suo effetttivo estensore, Aldo Delindati, fra le carte del comunista “eretico” cremonese[35]).

Il che, ossia l’imbattersi in un editore di rango nazionale, capitò invece con Feltrinelli, dietro suggerimento di Giorgio Bassani, a Luigi Meneghello, classe 1922 e vicentino anche lui, con la sua opera prima Libera nos a Malo. Trent’anni più tardi, avendo congegnato anch’egli sul filo della memoria un libro di emigrazione come Il dispatrio che racconta la storia del suo passaggio nel 1947 in Inghilterra – dove sarebbe rimasto a vivere e a lavorare per circa quarant’anni – chissà se mandandolo a Pieve Meneghello sarebbe mai andato in finale, vincendo magari il primo premio, e se ai giorni nostri Martellini lo avrebbe poi potuto ragionevolmente inserire fra quelli meritevoli di essere presi in considerazione. Tenuto conto del fatto che si trattava di una storia di emigrazione intellettuale non diversa agli inizi da quella di molte decine di migliaia di giovani italiani, che se ne vanno ancor oggi dal bel Paese in cerca di miglior sorte[36], il gioco controfattuale meriterebbe d’essere fatto e varrebbe forse la candela, ma in ogni caso servirebbe a ribadire l’imprescindibiità nella ricostruzione del nostro passato emigratorio delle testimonianze e delle memorie di quanti si trovarono in prima fila a tesserne le trame e a raccontarle, a tempo debito, con parole proprie.

[1]           Per la definizione cfr. Paolo D’Achille, L’italiano dei semicolti, in Storia della lingua italiana, a cura di Luca Serianni e Pietro Trifone, II (Scritto e parlato), Torino, Einaudi, 1994, pp. 41-79.

 

[2]           La storia degli archivi italiani della scrittura popolare, all’avanguardia in Europa sin dalle origini di questo tipo di raccolte e di documentazioni avviate da noi intorno alla metà degli anni ‘80 del Novecento, è stata raccontata più e più volte dai suoi stessi protagonisti (Gibelli, Zadra, Antonelli ecc.: di quest’ultimo si vedano in particolare le ricostruzioni contenute in Cento anni di Grande guerra. Cerimonie, monumenti, memorie e contromemorie, Roma, Donzelli Editore, 2018) e recentemente richiamata in sintesi anche da altri studiosi. Per i quali si confrontino le singole voci del dossier della rivista di storia e storiografia on line “Storia e futuro”, 33, novembre 2013, su Testimonianze autobiografiche: archivi della memoria e centri di ricerca (prima parte), a cura di Patrizia De Luca e Luca Gorgolini, con i contributi appunto di Antonelli per l’ AST e di Caffarena e Marrone per l’ALSP. Vedi inoltre nel numero successivo (34, febbraio 2014) quello di Camillo Brezzi per l’ADN. A riprova della perdurante vitalità e operosità dell’AST potrei citare l’ultimo istruttivo convegno il 6 e 7 dicembre 2018 su Cronache della Guerra in casa. Scritture dal Trentino e dal Tirolo, 1914-1918. Personalmente, poi, ho a lungo dialogato e nei limiti del possibile pure collaborato alle attività “istituzionali” di questo e di altri archivi della scrittura popolare e non solo per la parte di mia “competenza” almeno dal 1976 ossia quella “emigratoria” legata alle scritture epistolari dei contadini e dei semicolti stabilitisi in America Latina dopo il 1876. Sino alla fine del secolo scorso, infatti, ho spesso cercato di approfondire anche molti altri aspetti dei fenomeni di circolazione della cultura di tanta “gente comune”; cfr. Emilio Franzina, Autobiografie popolari fra età giacobina e Restaurazione, introduzione a Maurizio Zangarini, Raccolta storica cronologica di Valentino Alberti (Verona 1796-1834) (Il diario dell’oste), Verona, Associazione Veneta per la Storia Locale, 1997, pp. IX-XXXVII. Tali aspetti sono stati via via ampiamente illustrati in mezzo mondo da specialisti quali Antonio Castillo Gomez, David Gerber, Martin Lyons, Verónica Sierra Blas, Xosé Manoel Núñez Seixas, ecc; da noi anche con il supporto di validi filologi studiosi della lingua e storici della scrittura (Petrucci, Bartoli Langeli, Renzi, Trifone ecc.). Ancora di recente ho cercato di dar conto di tali percorsi – in un’opera peraltro semi clandestina – prendendo spunto dalle fonti, rivelatesi presto debordanti, relative alla Prima guerra mondiale in Italia e all’estero: Al caleidoscopio della Gran guerra. Vetrini di donne, di canti e di emigranti, 1914-1918, Isernia, Cosmo Iannone Editore, 2017.

 

[3]           Amoreno Martellini, Abasso di un firmamento sconosciuto. Un secolo di emigrazione italiana nelle fonti autonarrative, con un saggio di Laura Ferro, il Mulino, Bologna 2018.

 

[4]           Per cui si vedano con profitto il saggio di Sandro Rinauro, Italian illegal emigration after the Second World War and illegal immigration in Italy today: similarities and differences, in The History of Migration in Europe. Prospectives from economics, politics and sociology, a cura di Francesca Fauri, London-New York, Routledge, 2015, pp. 173-193, e il recente Michele Colucci, Storia dell’immigrazione straniera in Italia. Dal 1945 ai giorni nostri, Carocci, Roma, 2018.

 

[5]           Cfr. la breve recensione a Martellini di Umberto Gentiloni, Andavamo a camminare il mondo, “la Repubblica” 7 novembre 2018.

 

[6]           Macaronì e vu’ cumpra: emigrazione e immigrazione nella storia d’Italia. Mostra didattica su “quando a emigrare eravamo noi”, a cura di Emilio Franzina (Milano, Teti Editore, 1995) compendiata in 30 grandi pannelli fatti girare attraverso l’Italia per alcuni anni con la presentazione e i commenti di Ada Lonni. Il percorso espositivo e fotografico riprendeva le linee guida già da me esposte nel saggio omonimo (Emigrazione e immigrazione nella storia d’Italia) comparso un anno prima negli atti di un convegno bresciano del 1992, poi pubblicati dallo stesso editore del “Calendario del Popolo”: La riscoperta delle Americhe. Lavoratori e sindacato nell’emigrazione italiana in America Latina 1870 1970, a cura di Vanni Blengino, Emilio Franzina e Adolfo Pepe, Milano, Teti, 1994, pp. 685-697.

 

[7]           Sottotitolo del best seller L’orda (Milano, Rizzoli, 2002) del quale furono vendute, in diverse edizioni, più di un milione di copie e il cui merito non ultimo fu quello di portare i fenomeni migratori fra Otto e Novecento alla ribalta e stavolta sì quasi al centro dell’attenzione di un’opinione pubblica nazionale sin lì più che distratta e dimentica. A ben vedere senz’altro una discreta svolta per l’Italia che tuttavia non influì poi sul meccanismo di trasmissione e di circolazione delle notizie accertate riguardo al nostro passato emigratorio essendo rimasto macchinoso e poco efficace il loro passaggio dall’ambito della ricerca storica a quello della divulgazione e del consumo pubblicistico lasciando fra l’altro gli specialisti del settore nel limbo ovvero ai margini della storiografia più accreditata sia in accademia (dove sono assai poche, se non latitano del tutto le cattedre di Storia dell’emigrazione) sia nella stampa e nelle televisioni. Al libro di Stella, primo di una piccola serie sua in materia, tennero dietro viceversa, e si collegano tuttora, molti articoli ospitati da una tribuna alquanto influente come il “Corriere della Sera” e svariate iniziative musicali, teatrali e mediatiche nonché un sito specifico (“Siamo tutti emigranti”, http://www.orda.it/rizzoli/stella/home.htm) in funzione da quasi vent’anni. Anche per chi scrive, in certo modo, la svolta del 2002 coincise con l’avvio di un impegno nel campo della comunicazione abbastanza diverso, e assai più in piccolo a dir la verità, con vari spettacoli musicali o lezioni di storia cantata assieme al complesso degli Hotel Rif, il principale dei quali – Esuli, profughi, rifugiati e(in una parola)migranti – culminava nella lettura delle testimonianze e delle lettere di alcuni immigrati (e immigrate) giunti sempre più numerosi alla fine del secolo XX in Italia. A una parte di costoro, arrivati in varie province venete provenendo dagli Stati meridionali del Brasile raggiunti cent’anni prima dai loro antenati originari proprio del Veneto o del Trentino, va da sé che avevo pure dedicato, dirigendole o coordinandole tra il 2002 e il 2011, non poche indagini e interviste confluite in saggi e in libri redatti con l’aiuto di collaboratori esperti come il veneto-discendente brasiliano João Carlos Tedesco (professore dell’Università di Passo Fundo da me invitato quale scholar e poi visiting professor nell’ateneo veronese in cui all’epoca insegnavo), di cui citerò qui solo quelli più ancorati alle storie di vita e alle corrispondenze epistolari; João Carlos Tedesco, Migrações Internacionais Contemporâneas: brasileiros na Itália, in Anais II Congresso Sul Americano de História, I, Passo Fundo, UPF, 2005, p. 72-82; Id., L’ultima America: brasileiros na região de Vêneto e Emilio Franzina, Italianos no Brasil e brasileiros na Italia: actualidade duma história, in L’ultima America. Emigrazione postbellica in Brasile e Argentina: studi provinciali di caso (Verona e Vicenza). Primi rapporti, dati e materiali su partenze, permanenze e “rimpatri” (1945-2005), Dueville (Vicenza), Agorà & Factory, 2007; Id., Cenários do processo migratório internacional: trabalhadores brasileiros na Itália, in II Seminário (Re)Pensando o Trabalho no Contexto Produtivo Atual, I, Passo Fundo, UPF, 2007, pp. 1-16; Id., Estrangeiros, extracomunitários e transnacionais: paradoxos da alteridade nas migrações internacionais. Brasileiros na Itália, Porto Alegre, EdiPUCRS, 2010; Id., Do Brasil à Itália: interfaces histórico culturais de um novo processo migratório, in História e Imigração, a cura di Vania Beatriz M. Herédia e Roberto Radünz, Caxias do Sul, Educs, 2011, pp. 351-372.

 

[8]           Naturalmente non mancano nella collana delle “Storie italiane” altri volumi, utili e ben fatti come quello di Martellini, per esempio i libri dedicati da Patrizia Gabrielli alle donne nella seconda guerra mondiale e al boom economico, da Massimo Baioni alle scritture private nell’Italia unita e da Luigi Ganapini alle voci della guerra civile 1943-45.

 

[9]           Di Bosio, lungo una linea che arriva sino a Casellato e agli oralisti dei giorni nostri attraverso Bermani, Coggiola e Portelli, si può ricordare il ruolo senz’altro pionieristico (cfr. Antonio Fanelli, Tra classe e soggettività. Le voci e i suoni dei ‘senza storia’. Fonti autbiografiche negli Archivi e nella storia dell’Istituto Ernesto de Martino, “Storia e futuro”, 33, novembre 2013, e anche Contro canto. Le culture della protesta dal canto sociale al rap, prefazione di Alessandro Portelli, Roma, Donzelli Editore, 2017); di Danilo Montaldi e di Nuto Revelli, invece, non sarebbero mai da dimenticare alcuni libri che aprirono la strada nella valorizzazione dell’uso di lettere e di autobiografie popolari come, tutti editi a Torino da Einaudi, le Autobiografie della leggera (1961) e i Militanti politici di base (1970) del primo e L’ultimo fronte, lettere di soldati caduti o dispersi nelle II guerra mondiale (1971) del secondo, autore più tardi anche di interviste e storie di vita di forte impatto non solo narrativo quali, ancora presso Einaudi, Il mondo dei vinti (1977) e L’anello forte (1985). Sulla contiguità delle storie di vita sollecitate dalle domande di ricercatori interattivi e le prove memorialistiche a sé stanti degli autobiografi popolari esiste naturalmente tutta una letteratura sociologica (cfr. Emilio Franzina, Storia orale e storiografia italiana nel secondo Novecento, in Voci parole memorie. Testi e suoni nei percorsi della cultura popolare. Studi, materiali e argomenti per la lettura etnografica e l’analisi sociale, Atti del seminario di Villa Ghirlanda, Cinisello Balsamo, 2003) ed esiste altresì una tradizione che non esclude, a un certo punto, nemmeno il confronto fra i dati raccolti dagli oralisti e quelli ricavabili dalle archiviazioni tradizionali (ma anche non tradizionali se si pensi, ad esempio, alle testimonianze rese dai militanti politici di partiti/chiesa come il Partito Comunista poi edite e commentate da Marco Fincardi e Mauro Boarelli). Naturalmente uno sforzo di tipo comparativo potrebbe spingersi ancora più in là mettendo a paragone con quelle dei migranti popolari anche solo le rievocazioni professionali riferite al periodo fra Otto e Novecento di qualche speciale categoria di testimoni dello stesso passato stanziati su opposte sponde (ad es. le scritture autobiografiche di poliziotti e questurini, per cui cfr. Marco Soresina, Le memorie dei funzionari di polizia italiani nell’età liberale in una prospettiva comparata, “Studi Storici”, 58, 4, 2017, pp. 1097-1131). Analizzando del resto per una delle fonti popolari di criminali e di devianti internati e spediti dal fascismo al confino, il problema affrontato da Danilo Montaldi rispetto al rapporto instauratosi fra costoro e i “politici” costretti a uno stesso tipo di detenzione e di isolamento, un giovane ricercatore ha osservato di recente come lo studioso cremonese avesse sviluppato quella che si potrebbe a buon diritto ritenere “una delle sue più interessanti riflessioni in assoluto” ovvero “una lettura comparata delle riflessioni, su fenomeni analoghi, dei detenuti comuni della ‘leggera’ e di Gramsci, durante il loro confino ad Ustica. Proprio in un tale confronto Montaldi propone non solo un criterio integrato tra resoconti colti e popolari ma, proprio a partire da ciò, anche un filtro di lettura critica delle fonti ufficiali e dominanti: fonti quale quella – ad esempio – del prefetto Mori. In linea con gli spunti dei Subaltern Studies [sic!] Montaldi propone cioè una modalità critica di elaborazione delle fonti per una storia dei subalterni: vede in una vera e propria comparazione tra vissuti popolari e riflessioni intellettuali la possibilità di un’integrazione critica e di classe delle fonti ufficiali. Oltre a ciò, acutamente […] Montaldi rintraccia in Gramsci e nella sua proposta di rapporto organico e pedagogico tra masse e intellettuali, le basi stesse di un metodo in grado di valutare «lo studio e l’analisi dei particolari più sintomatici e rivelatori” (Fabrizio Fasulo, Inchieste sociali e subalternità. Dal concetto gramsciano di «subalterno» alle storie di vita di Scotellaro e Montaldi. Rappresentazione e intervento politico contro i rischi di una “orientalizzazione interna”, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Palermo, Dottorato internazionale di Studi Culturali Europei”, ciclo XXIV, anni 2011-2013, tutor Clotilde Bertoni – cotutor Mauro Pala, p. 505).

 

[10]          Studi europei a parte – oggi più sviluppati in Francia e in Spagna – basterebbe rifarsi per le autobiografie ma soprattutto per le lettere a quelli italiani (Maldini Chiarito, Betri, Croci, Caffarena, Giuseppe Antonelli, Casalena ecc.) dei quali ho dato conto io stesso di tempo in tempo fra il 1987 e il 2017 spesso segnalandone l’avanzamento e sia pur continuando ad occuparmi in prevalenza di casi americani (cioè di Brasile, Argentina e USA)) per cui rimando ancora all’incipit di Emilio Franzina, L’epistolografia popolare e i suoi usi, “Materiali di lavoro”, 1-2 (1987), pp. 21-76.

 

[11]          Com’è stato ricordato da Giovanni Ciappelli, Memoria e storia: il ruolo degli egodocumenti, “Nuova Rivista Storica”, 102, 2 (2018), pp. 699-728.

 

[12]          Di tale opinione, sin dal titolo di una sua recensione del libro di Martellini, sembra essere Giorgio Fabre, Migranti. Una fonte alternativa della storia nazionale, “Alias Domenica” (“Il Manifesto”), 16 dicembre 2018.

 

[13]          Che nel libro di Martellini compare rievocato solo a tratti seguendo ovviamente le notazioni di alcuni autobiografi ma che non riguarda solo gli anni “d’oro” della grande emigrazione (per cui cfr. Emilio Franzina, Le traversate e il sogno: viaggi per mare degli emigranti attraverso le fonti memorialistiche, in Il Sogno italoamericano, a cura di Sebastiano Martelli, Napoli, Cuen (Pubblicazioni dell’Istituto Suor Orsola Benincasa), 1998, pp. 23-48, e L’Amérique, in L’Italie par elle-méme. Lieux de mémoire italiens de 1848 à nos jours, a cura di Mario Isnenghi, prefazione di Gilles Pecout, Paris Editions Rue d’Ulm/Presses de l’Ecole normale supérieure, 2006, pp. 441-475), bensì pure quelli dell’ultimo dopoguerra quando le porte d’ingresso d’oltreatlantico erano rimaste assai più chiuse che aperte (cfr. Sandro Rinauro, Sognando l’America: mete dell’emigrazione italiana negli anni della Ricostruzione tra desiderio e realtà, in Città regione territorio. Studi in memoria di Roberto Mainardi, a cura di Guglielmo Scaramellini, Milano, Cisalpino, 2003, pp. 201-230, e Immaginare e rappresentare il Nuovo Mondo nel XX secolo: l’immagine degli Stati Uniti d’America tra gli emigranti italiani nel secondo dopoguerra, in Conoscere il mondo: Vespucci e la modernità. Atti del Convegno di studi, 28-29 Ottobre 2004, a cura di Maria Tinacci Mossello, Cristina Capineri e Filippo Randelli, Firenze, Società di studi geografici, 2005, pp. 101-110).

 

[14]          Su cui si veda ancora S. Rinauro, Italian illegal emigration after the Second World War and illegal immigration in Italy today, cit.

 

[15]          A cui dedicò le pagine inziali della propria autobiografia di giovane popolano piemontese partito per l’America all’inizio degli anni cinquanta e divenuto solo più tardi studioso accademico (e acutissimo “interprete”) dell’emigrazione e della cultura italiana e argentina Vanni Blengino, Ommi! l’America. Ricordi d’Argentina nel baule di un emigrante, Reggio Diabasis, 2007.

 

[16]          Emilio Franzina, Dall’Arcadia in America. Attività letteraria ed emigrazione transoceanica in Italia (1850-1940), Torino Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1996, e Traversate. Le grandi migrazioni transatlantiche e i racconti italiani del viaggio per mare, Foligno, Editoriale Umbra, 2003

 

[17]          Cfr. Sandro Rinauro, Il cammino della speranza. L’emigrazione clandestina degli italiani nel secondo dopoguerra, Torino, Einaudi, 2009; Emigranti e clandestini nel secondo dopoguerra, in Storia d’Italia. Annali 24. Migrazioni, a cura di Paola Corti e Matteo Sanfilippo, Torino, Einaudi, 2009, pp. 388-406; La frontière irrésistible: l’immigration irrégulière des Italiens en France après la Deuxième Guerre mondiale, “Migrations société”, 141-142 (2012), pp. 13-25, e L’émigration illégale des Italiens en France et en Suisse après la Deuxième Guerre mondiale, “Journal of Modern European History”, 12 (2014), 1, pp. 84-106.

 

[18]          Cfr. in via generale Sandro Rinauro, Diari e memorie degli emigranti italiani arruolati nella Legione straniera francese, “Altre modernità”, 2 (2009), pp. 9-19.

 

[19]          Per la compatibilità delle due fonti, memorialistica ed epistolare, rinvio a quanto persuasivamente notato da Giralda Seyfert, Cartas e narrativas biográficas no estudo da migração, in Estudos migratórios – perspectivas metodológicas, a cura di Zeila B.F. Demartini e Oswaldo Truzzi, São Carlos, Edufscar, 2005, pp. 13-51.

 

[20]          Non a caso nella esigua letteratura esistente sull’argomento (di recente ripilogata per l’Italia da Dolores Freda, “Trafficanti di carne umana”. Gli agenti di emigrazione all’alba del XX secolo, “Historia et ius. Rivista di storia giuridica dell’età medievale e moderna”, 8, 2015, paper 17) spicca proprio un contributo di Amoreno Martellini, Il commercio dell’emigrazione: intermediari e agenti, in Storia dell’emigrazione italiana, vol. I, Partenze, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Roma, Donzelli Editore, 2001, pp. 293-308. Su questo tema cfr. ad ogni modo anche Emilio Franzina, La storia altrove. Casi nazionali e casi regionali nelle moderne migrazioni di massa, Verona, Cierre edizioni, 1998, pp. 37-89, e Paulo Cesar Gonçalves, Mercadores de braços. Riqueza e acumulação na organização da emigração europeia para o Novo Nundo, São Paulo, Casa Editorial Alameda, 2008.

 

[21]          Cfr. specie monografie come Fra Sunnyside e la Nueva Marca. Materiali e modelli per una storia dell’emigrazione marchigiana fino alla grande guerra, Milano, Franco Angeli, 1999 e I candidati al milione: circoli affaristici ed emigrazione d’élite in Alerica Latina alla fine del XIX secolo, Roma, Edizioni Lavoro, 2000.

 

[22]          Più in generale sul tema dell’emigrazione femminile diventato oggi quasi un argomento “alla moda” ricorderei di buon grado, per il loro ancoraggio a fonti popolari scritte, non ultime quelle all’epoca disponibili a Pieve Santo Stefano, il mio vecchio studio su Donne emigranti e donne di emigranti. Memorie e scritture popolari dell’emigrazione femminile italiana fra due secoli, “Annali dell’Istituto A. Cervi”, XII, 1990, pp.237-263, ripreso assieme ad altri nuovi in Emilio Franzina, Se anche la donna è mobile. Profili, canti e immagini dell’emigrazione femminile dall’Italia e in Italia, Dueville, Agorà Factory, 2013 (libretto di scena per accompagnamento alla visione e all’ascolto della conferenza spettacolo “Esuli, profughi, rifugiati e(in una parola)migranti” portata in scena a Padova a conclusione, il 13 dicembre 2013, del convegno internazionale di studi “Far from home. Italian Women and global diaspora in the 20th century/Lontane da casa. Donne italiane e diaspora globale nel XX secolo”; (con a pp. 115- 173 la “bozza di un copione” per Suoni e canti dell’emigrazione femminile dall’800 a oggi). Gli atti del convegno padovano videro poi la luce a cura di Stefano Luconi e Mario Varicchio, Lontane da casa. Donne italiane e diaspora globale dall’inizio del Novecento a oggi, Torino, Centro Altreitalie, Accademia University Press, 2015. Vedi inoltre sul tema le valutazioni storiografiche di Paola Corti, Temi e problemi di storia delle migrazioni italiane, Viterbo, Sette Città, 2013 (Quaderni di ASEI), e Matteo Sanfilippo, Nuovi problemi di storia delle migrazioni italiane, Viterbo, Sette Città, 2015.

 

[23]          Cfr. Ercole Sori, Il lavoro globalizzato. L’emigrazione intercontinentale europea (1800-1914), “Memoria e ricerca”, 14 (2003), pp. 98-158. Per come io la veda, sull’intera questione, cfr. anche Emilio Franzina, La storia delle migrazioni come storia del lavoro, in Il lavoro cambia, a cura di Ariella Verrocchio e Elisabetta Vezzosi, Trieste, Istituto Livio Saranz – EUT, 2013, p. 39-54.

 

[24]          [Rudi J. Vecoli ], In Their Own Words: Immigrant Autobiographies, “Spectrum” (Bollettino dell’“Immigration History Research Center” di Minneapolis), Summer 1983, n. 2.

 

[25]          Francesca Fauri, Storia economica delle migrazioni italiane, il Mulino, Bologna, 2015.

 

[26]          Emilio Franzina, Autobiographical Writings and Official History, in Merica. A Conference on the Culture and Literature of Italians in North America, a cura di Aldo Bove and Giuseppe Massara, New York, Stony Brooke – Forum Italicum Publishing, 2006.

 

[27]          E un poco anche delle zone di arrivo e di più o meno protratta permanenza degli immigranti. Visti dall’altra parte delle Alpi, del Mediterraneo o dell’oceano Atlantico, infatti, i resoconti redatti da chi vi fosse vissuto o ci avesse a lungo lavorato possono recare impronte diverse dove residuano sì l’originalità dei punti di vista popolari e l’antagonismo delle vedute che di norma essi rispecchiano rispetto alle vulgate ufficiali delle classi alte e di potere, ma dove possono altresì insinuarsi – massime ai giorni nostri – elementi di retorica etnica e persino, a tratti, di sottile razzismo (cfr. Emilio Franzina, Memoria familiar y región en las migraciones italianas a Brasil. Apuntes sobre el caso “padano-veneto”, 1875-1905, in Perspectivas regionales de las migraciones españolas e italianas al Cono Sur. Siglos XVIII a XX, a cura di Carina.Frid (nr. speciale di “Estudios Migratorios Latinoamericanos”, 58, 2005, pp. 461-482, poi ripreso in italiano nel primo capitolo del volume a mia firma L’America gringa. Storie italiane d’immigrazione tra Argentina e Brasile, Reggio Emilia, Diabasis,2008, p. 25-60). Quasi sempre per l’America Latina ne ho fornito più di un esempio nei miei lavori degli anni ‘90 del secolo scorso e ancora sino a poco tempo fa nell’ambito di una produzione destinata peraltro a cerchie ristrette di interlocutori e specialisti (come ad es. Camilla Cattarulla, autrice di un pregevole saggio in argomento Di proprio pugno, Autobiografie di emigranti italiani in America Latina, Reggio Emilia, Diabasis, 2008), ma per tutto ciò cfr. in ordine: Emilio Franzina, Emigrazione per immagini: storie di vita, lettere e scritture autobiografiche dei piemontesi in Argentina, in C’era una volta la Merica. Immigrati piemontesi in Argentina, a cura del Cemla di Buenos Aires, Cuneo, L’Arciere, 1990, pp. 209-22; Scritti autobiografici di emigranti italiani in America Latina: il caso brasiliano, in I luoghi della scrittura autobiografica popolare, Trento, Ed. Materiali di Lavoro, 1990, pp.185-222; Autobiografie e diari dell’emigrazione: esperienza e memoria nelle scritture autobiografiche di emigranti e immigrati in America tra otto e novecento, in Studi sull’emigrazione. Un’analisi comparata, a cura di Maria Rosaria Ostuni, Milano, Electa 1991, pp. 221-241 e in traduzione spagnola in “Historia Social”, 14 (1992), pp. 121-142; Archivi e fonti dell’emigrazione veneta, in Emigrazione veneta fra otto e novecento (nr. monografico di “Venetica”, n.s., I), Verona, Cierre, 1992, pp.17-42. La maggior parte di questi lavori, assieme ad altri invece inediti, confluirono nell’ultimo titolo di una collana – “I fronti della storia” – diretta tra il 1991 e il 1992 da Mario Isnenghi presso un editore di Treviso alle prime armi che, sia come sia, aveva già accolto libri di Giorgio Rochat, Nicola Labanca, Mìmmo Franzinelli, Camillo Zadra e Gianluigi Fait, ma che ugualmente scomparve all’improvviso lasciando in incognito il Veneto e rendendo in pratica introvabile di fatto e consultabile soltanto in poche biblioteche italiane il mio volume, quinto della serie, ovvero L’immaginario degli emigranti. Miti e raffigurazioni dell’esperienza italiana all’estero tra due secoli, Pagus, Paese, 1992: di questo libro, che considero uno dei miei migliori, vorrei sottolineare come in molte sue parti si basasse su tutte le autobiografie sino a quel momento disponibili a Pieve Santo Stefano, quasi una decina, in parte o una parte di quelle stesse oggi utilizzate anche da Martellini (Parutto, Daniani, Del Bove, Grossi, Riccobaldi e Rossetti). Anche se disturbato dall’imprevisto non smisi certo di interessarmi al tema delle scritture del self in emigrazione che ritornò ancora, di lì in avanti, in molti dei miei studi e in maniera più esplicita nei seguenti saggi: L’émigration et l’immaginaire: France du rêve France du souvenir, in L’intégration italienne en France. Un siècle de présence italienne en trois régions françaises (1880-1980), a cura di Antonio Bechelloni, Michel Dreyfus e Pierre Milza, Paris-Bruxelles, Éditions Complexe, 1995, pp.127-155; Il “colono immaginato” di Bortolo Belli, in Dal Piemonte allo Stato di Espirito Santo. Aspetti dell’emigrazione italiana in Brasile tra otto e novecento. Atti del seminario internazionale, a cura di Mauro Reginato, Torino, Regione Piemonte, 1996, pp. 25-53; Una patria straniera. Sogni, viaggi e identità degli italiani all’estero attraverso le fonti popolari scritte, Verona, Cierre, 1997; I ricordi e il lavoro, in Rêves d’Italie, Italie de rêve. Imaginairees et réalités de la présence italienne au Luxembourg et dans la Grande Région, Luxembourg, Université de Luxembourg, 2008, pp. 40-48; L’immigrazione veneta in Rio Grande do Sul nelle memorie di Giulio Lorenzoni, introduzione a Giulio Lorenzoni, Le memorie di un emigrante italiano, a cura di Emilio Franzina, Roma, Viella, 2008; Viaggi per terra e viaggi per mare. Le meraviglie della mobilità nelle memorie dell’emigrazione italiana, in Migrazioni di ieri e di oggi, Roma, Irsifar, 2009, pp. 47-57; “Io, lavorando come un cavallo alla fabbrica di maccarone…”, in Lasciare una traccia. Scritti su “La spartenza” e un’intervista a Tommaso Bordonaro, a cura di Nicola Grato e Santo Lombino, Palermo, Adarte Editori, 2009, pp. 97-101; A imigração italana no Rio Grande do Sul nas memórias de Júlio Lorenzoni (1877-1928), in Migrantes ao Sul do Brasil, a cura di João Carlos Tedesco e Maria Chitolina. Zanini, Santa Maria (Rs), Editora Ufesm, 2010, pp. 63-85; La terra ritrovata. Storiografia e memoria della prima immigrazione italiana in Brasile, Genova, Stefano Termanini Editore e Cisei, 2014, pp. 167-294.

 

[28]          Cfr. ad es. studi come quelli di Marco Soresina: Un italiano trucidato in Brasile…. e numerose piste false, in Libri e altro. Nel passato e nel presente per Enrico Decleva, a cura di Grado G. Merlo, Milano, Dipartimento di scienze della storia e della documentazione storica-Fondazione Mondadori, 2006, pp. 677-690; Italian emigration policy during the Great Migration Age, 1888-1919. The interaction of emigration and foreign policy, “Journal of Modern Italian Studies”, 5 (2016), pp. 723-746; The «Little History» of an Italian Murdered in Rio Grande do Sul, “Altreitalie”, 55 (2017), pp. 57-73.

 

[29]          Per debito di concittadinanza, ma anche per avere tentato invano, a più riprese fra il 1992 e il 1996, di trovarle un editore, va da sé che la storia personale di Adolfo Farsari e delle sue lettere fortuitamente ritrovate da Elena Dal Pra mi era ben nota, tanto che di alcune di queste sue corrispondenze dal fronte della guerra di secessione scelsi di riprodurre il testo anche nella mia “Storia dell’emigrazione italiana in America”: Gli italiani al Nuovo Mondo, 1492-1942, Milano, Mondadori, 1995, pp. 17 e 129-130.

 

[30]          Emilio Franzina, Entre duas Pátrias. A Grande Guerra dos imigrantes italo-brasileiros, 1914-1918, Belo Horizonte, Ramalhete, 2017, pp. 162-165.

 

[31]          Cfr. Emilio Franzina, Emigrazione e letteratura. Brasile: fra storia e romanzo, “Altreitalie”, 5 (1991), pp.2-6 e 19-31, poi in La letteratura dell’emigrazione. Gli scrittori di lingua italiana nel mondo, a cura di J.J. Marchand, Torino, Edizioni della Fondazione G. Agnelli, 1991, pp.213-228.

 

[32]          Per il versante storico, cfr. Matteo Sanfilippo, The Debate on Personal Sources for the History of Italian Emigration, in From the Records of my Deepest Memory. Personal Sources and the Study of European Migration, 18th-20th centuries, a cura di Óscar Álvarez Gila e Alberto Angulo Morales, Bilbao, Universidad del País Vasco, 2016, pp. 123-136.

 

[33]          Nel suo Tra fabbrica e società: mondi operai nell’Italia del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 280.

 

[34]          Cfr. Franco Ramella, I documenti personali e la storia dell’emigrazione. Le lettere americane di Giovanni Battista Vanzetti, contadino cuneese, “Il presente e la storia”, 57 (2000), pp. 95-169.

 

[35]          Archivio Danilo Montaldi, a cura di Costanza Bertolotti, Cremona, Archivio di Stato di Cremona, 2005, p. 17.

 

[36]          Enrico Pugliese, Quelli che se ne vanno. La nuova emigrazione italiana, Bologna, il Mulino, 2018.