Triveneto migrante

  1. Introduzione

Alfredo Zardini, formatosi come falegname a Cortina d’Ampezzo, la celebre località ladina in provincia di Belluno dov’era nato quarant’anni prima, emigrava a Zurigo nel marzo del 1971 perché una ditta locale gli offrì un posto di lavoro come carpentiere, presumibilmente meglio remunerato di quello che lasciava in patria. Non sappiamo se Zardini, arrivato da poco in un paese fino ai primi del Novecento di forte emigrazione e che, però, ospitava adesso oltre un milione di immigrati per oltre la metà italiani, fra cui molti veneti giuntivi dopo la fine del Secondo conflitto mondiale, fosse a giorno del clima xenofobo fomentato in Svizzera da un referendum che l’anno prima era stato proposto da James Schwarzenbach, e sia pur senza successo, contro l’“invasione” dei lavoratori stranieri: Schwarzenbach, ammiratore di Franco e Salazar e discendente per parte di madre da una famiglia (i Muralto) di remote origini venete, dopo averne fatto parte per dieci anni aveva abbandonato la formazione politica di estrema destra nella quale militava dal 1961, l’“Azione nazionale contro l’inforestierimento del popolo e della patria” fondando un proprio partito, il Movimento Repubblicano, se possibile ancor più radicale e di cui ignoriamo se fosse sostenitore o semplice simpatizzante Gerhard (Gerry) Schwitzgebel, il manovale trentacinquenne che la mattina del 20 marzo 1971 in un bar sulla Langsstrasse zurighese aggredì e uccise a pugni per odio razziale, sotto gli occhi di pochi avventori rimasti inerti anche quando la vittima fu trascinata e lasciata agonizzante davanti al locale, lo sfortunato Zardini. L’omicida, tre anni più tardi, venne condannato per “eccesso colposo di legittima difesa” a soli 18 mesi di carcere mentre le autorità municipali svizzere si limitarono a rimborsare le spese di trasporto in Italia della salma della vittima peraltro anticipate dai soci del Fogolar Furlan di Zurigo. Tra il 1971 e il 1975, nel giro di pochi anni, per la prima volta i rimpatri in Italia si trovarono a superare, a far data dal 1972 per l’esattezza, le partenze verso i paesi europei divenuti e a lungo rimasti, dopo l’ultima guerra, teatro di una miriade di esperienze dei nostri emigranti “temporanei”. Esse, naturalmente, non furono tutte, e nemmeno in prevalenza, così tragiche e amare come questa di Zardini o tragicomiche ma istruttive come quelle proposte nel 1974 da un bel film di Franco Brusati, proprio sulla Svizzera immigratoria, interpretato da Nino Manfredi (Pane e cioccolata). In Veneto e in Friuli, oltretutto, avevano anche cooperato potentemente col meccanismo delle rimesse e con i risparmi messi da parte in vista del rimpatrio dagli emigranti, alla trasformazione radicale del panorama economico di questa parte nordorientale del Paese assurta a modello (“veneto” si sottolineava un tempo) di virtuoso sviluppo. L’emigrazione postbellica aveva, però, anche qui, alle proprie spalle, una più lunga storia che peraltro non metteva al riparo da egoismi e da tentazioni razziste, registrabili infatti già nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso a contatto con l’arrivo da noi dei primi gruppi consistenti di immigrati stranieri, tanto da meritarsi uno spazio nell’introduzione a un’opera di sintesi alla quale il presente saggio ancor oggi si ispira[1].

Trentino, Veneto e Friuli-Venezia Giulia, che in tal modo si designano separatamente a far data dal 1947, ma che in forma cumulativa, ancorché ufficiosa, da molti vengono tuttora chiamati col nome onnicomprensivo e a volte fuorviante di Triveneto[2] (del quale peraltro, a cominciare dal titolo, faremo uso anche noi qui), possiedono una storia politica abbastanza distinta e sovente difforme. Paradossalmente, peraltro, le fasi “unitarie” di questa storia si svolsero in uno stesso ambito statuale soltanto sotto gli Asburgo, tra il 1815 e il 1866, divaricandosi dopo questa data e ricomponendosi poi, di nuovo solo in parte, nel 1919.

  1. L’antico regime

Al di là delle scontate assonanze linguistiche nelle parlate o di molte affinità culturali dei loro territori, più accentuate negli ultimi due data la loro secolare appartenenza ai domini di terra della Serenissima, già da lungo tempo esistevano ad ogni modo, fra le tre aree geografiche e al di là delle zone di confine, svariati punti di contatto e alcune somiglianze abbastanza evidenti nelle attitudini economiche e produttive delle diverse partizioni provinciali (ovvero agrarie e naturali o ancora d’alta quota, pedemontane, collinari, di pianura ecc.) con un frequente riscontro e notevoli ricadute nelle rispettive dinamiche demografiche non escluse quelle connesse, soprattutto in montagna, alla scelta di molti dei loro abitatori di portarsi periodicamente “all’estero” per motivi di lavoro[3]. Una scelta caratteristica, questa, che in molte località vallive, alpine e prealpine, connotava intorno alla metà dell’Ottocento usanze già da secoli consolidate di partenze e di rientri[4] e quindi ‒ in primis tra le comunità della Carnia, ma poi anche in varie parti del Bellunese, in Cadore e nello Zoldano, nell’Altipiano di Asiago e nel Tesino, nella Val Rendena e in Valsugana ecc. ‒ tradizioni di mobilità nient’affatto effimere, casuali o dovute solo a sovrappopolazione relativa. Esse, infatti, non esaurivano la propria ragion d’essere nella prevalenza di fattori climatico ambientali di per sé “ostili” ed espulsivi o legati alla prevalente miseria dei luoghi benché meno frequenti vi fossero, senza dubbio, le occasioni sistematiche d’impiego per un tipo di manodopera cui non facevano viceversa difetto abitudini, attitudini e competenze cresciute nel tempo e costruite, per così dire, proprio viaggiando e camminando. Al nomadismo o seminomadismo tipico delle “prime popolazioni alpine”[5], su cui per il Trentino, nell’aggiornare le descrizioni e le stime di don Lorenzo Guetti e di Cesare Battisti, s’intratteneva subito dopo la Grande guerra Pietro Pedrotti segnalandone l’ormai definitivo venir meno[6], erano riconducibili tanto i mestieri poveri esercitati dai più vari soggetti[7], emigrando stagionalmente sia in Baviera che in Alta Italia (come i ”paroloti” o calderai della Val di Sole, i segantini e i “moleta” delle Giudicarie, gli arrotini della Rendena, i seggiolai del Primiero, i venditori di statuine di cristallo della Val dei Mocheni, i muratori di Lavarone, gli stessi spazzacamini del Bleggio e del Banale ecc.) quanto le attività di norma un po’ più remunerative dell’ambulantato e del piccolo commercio erratico che lungo l’intero Settecento, facendo centro nel Tesino, avevano dislocato a centinaia, in tutta Europa, i diffusori d’immagini sacre e di altri materiali a stampa contrattati dagli agenti bassanesi della grande tipografia veneta dei Remondini su cui ai giorni nostri molto è stato scritto anche dagli studiosi dell’immaginario moderno[8]. Ancora nella prima metà del secolo successivo, quando l’impresa remondiniana con le sue cartiere e officine calcografiche entrò gradatamente in crisi, su 18.000 emigranti annui censiti nel 1839 (al netto dei clandestini) per i Circoli di Trento e di Rovereto, i “tesini” risultavano essere circa 900 contribuendo con una quota significativa all’11,5% della popolazione maschile (composta all’epoca da 147.000 individui) dedita ai lavori stagionali lontano da casa dove più numerosi di tutti erano solandri e giudicariesi[9]. A un analogo panorama di vecchio regime appartenevano gli offellieri cadorini, i pasticceri e i gelatieri della Val di Zoldo o gli scalpellini e i tagliapietre della Valpolicella, i carbonai e i minatori, gli sterratori e i merciai dei Sette Comuni vicentini diretti, questi ultimi, talora nei Balcani o più di rado in Francia, ma quasi regolarmente in Austria (in Stiria e nel Voralberg), in Germania (in Prussia e in Vestfalia) e in Svizzera dove oltre al resto, notava a fine Ottocento il geografo Bernardino Frescura, “con il loro dialetto [alto]tedesco facilmente si [facevano] intendere”[10]. Mario Rigoni Stern in un suo delizioso romanzo breve narra la parabola tardo ottocentesca, solo in parte diversa, di uno di loro, Tönle Bintarn, l’ex contrabbandiere “cimbro” in lizza continua con la “legge” e costretto perciò a perenne girovagare come venditore di stampe nel cuore del vecchio continente alla maniera di tanti altri “perteganti” [11] i quali, ricorda lo scrittore asiaghese, solevano dire d’essere in procinto di “andar dentro” allorché nei loro viaggi puntavano a Nord verso terre germaniche e di “andar fuori” quando invece intendevano dirigersi a Sud di solito in Lombardia e in Val Padana[12].

Racchiusa fra l’inizio del Cinque e la metà dell’Ottocento mete non dissimili come il Tirolo, l’Austria o la Baviera ebbe poi la più nota (e meglio studiata[13]) delle correnti emigratorie montane, ossia quella friulana dei Cramars carnici i quali, con sulle spalle la cassetta lignea (crame) dai cui prendevano il nome, in qualità di sartori e di tessitori di lino da un lato e da un altro come rivenditori di passamanerie, fustagni, cinture, ecc. (ma anche di spezie, droghe, cremor tartaro e medicinali vari), diedero vita a una intensa circolazione dal distretto montano di Tolmezzo e dalle valli circostanti verso le pianure imperniata su attività professionalmente destinate a scomparire o a modificarsi soltanto alla fine dell’Ottocento. Per farsi un’idea più precisa dell’entità dei flussi che ne erano scaturiti durante oltre due secoli basti pensare all’esito di un censimento fatto fare nel 1679, in tempo di peste, dalle autorità veneziane. Da questo che “costituisce a tutt’oggi il più importante documento sull’emigrazione carnica in Età moderna”[14] si ricava che su una popolazione presuntivamente di 21.000 abitanti già allora risultavano assenti in Carnia, pur con divari consistenti tra villaggio e villaggio, 1690 persone (di cui 49 donne) mancando all’appello più del 25% dei maschi al di sopra dei 15 anni: prova evidente del fatto che l’emigrazione rurale dalla montagna, superando l’idea elementare del passaggio tra due punti dello spazio[15], già disegnava, forse, mappe condizionate non già dal mero bisogno quanto da identità professionali consolidate[16] e risposte razionali a opportunità esistenti e intraviste altrove[17]. Soprattutto i carnielli sfruttavano, come e più di altri migranti provenienti dalla montagna alpina, specializzazioni di mestiere redditizie, perfezionate magari all’estero e, in particolare lungo tutto il Settecento, congiunture di mercato a tratti anche assai favorevoli[18]. Oltre che nelle città d’oltralpe o della pianura padana essi d’altronde usavano portarsi in prima istanza a Venezia, al pari di altri “forestieri italiani” e di molti bergamaschi[19], di solito per rifornirsi di sete locali, fissandosi, assieme ai propri corregionali, nel sestiere di Castello in calli e fondamenta chiamate, come ancor oggi usa, “dei furlani” e obbedendo, secondo Caterina Percoto, a una sorta d’“impulso naturale”:

I Cargnelli appena sono in stato di camminare da sé, emigrano, vanno a Venezia, in quelle lucide botteghe imparano a trattar l’ago e le forbici e ritornano coi costumi e coi vestiti affatto disformi [lasciando] i lor monti e consumando gli anni dell’affetto nel tumulto cittadino, indi ritornano a profanare la semplice lor patria coi vizi della società[20].

La società “contaminatrice”, ovviamente, sarebbe stata quella urbana dove ciclicamente, del resto, i montanari erano esposti alle critiche sommarie dei benpensanti cittadini inclini ad attribuire loro la palma di capifila d’una immigrazione molesta e ad equipararli cioè ai questuanti “con urto” o ai vagabondi più molesti come lamentavano, negli stessi anni, alla vigilia della rivoluzione, in Friuli Giacomo Zambelli e a Venezia l’abate liberaleggiante Jacopo Bernardi. In un momento in cui si stava invertendo il processo di svuotamento della città lagunare per il probabile afflusso di molti immigranti[21], questi ne comparava la sorte a quella di un po’ tutti i centri urbani della pianura veneta recriminando e precisando: «V’hanno gli abitatori montani della Carnia, dell’alto e basso Cadore, de’ Sette Comuni, e d’altre vallate del Tirolo italiano, del Veronese e del Vicentino che nella stagione invernale massimamente si rovesciano sopra i paesi e le città soggette, e fanno del vagabondar mendicando un mestiere»[22].

Lo schema diffamatorio, non c’è da meravigliarsi, sarebbe sopravvissuto a lungo venendo applicato anche altrove e in momenti diversi a soggetti poi dimenticati e comunque assai meno noti come ancora all’inizio del Novecento, per fare appena un esempio, i ladini della Val Badia soliti a trasferirsi per lunghi periodi in città trentine come Rovereto[23], contraddicendo le opinioni correnti sulla capacità del possesso fondiario ereditariamente indivisibile ‒ il maso chiuso germanico (in badioto lüch) – di neutralizzare o quanto meno di porre un freno alla disponibilità ad emigrare degli stessi abitanti del “Tirolo italiano”[24], fra i quali non sarebbero da dimenticare, per le loro specializzazioni artistiche e musicali, i fassani e i fiammazzi.

Alla vigilia dell’annessione del Veneto e di gran parte del Friuli al Regno d’Italia, quando questa variegata “emigrazione degli alpigiani” in funzione ormai da secoli non risultava ancora mescolata o alternata con l’esodo transoceanico vero e proprio (peraltro ormai incipiente), presero il via, però, alcune profonde trasformazioni sia del contesto generale e del quadro politico postrisorgimentale sia della natura dei flussi a cominciare proprio dal Trentino dove anche gli emigranti stagionali e gli stessi kròmeri locali, al pari dei venditori di prodotti ottici della Valsugana quantunque meno numerosi dei loro colleghi carnici o di altri “perteganti”, si adattarono man mano a forme più “moderne” di mobilità presto appannaggio e quasi monopolio dei bellunesi e dei friulani. Esse furono dettate e via via rimodellate, fra le decadi 1850 e 1870, dall’andamento dei mercati capitalistici globali e dai cicli dell’edilizia pubblica e privata in progressiva ascesa in vari paesi dell’Europa continentale ossia da circostanze che reclamavano tutte un apporto più ampio e continuativo di forza lavoro svincolata dalle logiche e dalle tempistiche del passato con la conseguenza di revocare in vita le figure inedite di lavoratori manuali periodicamente reclutabili a comando (e a preferenza) appunto nel “Triveneto”, ma più in particolare, merita d’essere ribadito, appunto nel Bellunese e in Friuli. Assecondando ora una diversa stagionalità e pur provenendo sempre più spesso anche dalle basse pianure questi lavoratori errabondi che ne furono interpreti diventarono in breve, come minatori, fabbri, carpentieri, muratori, manovali ecc., il fulcro di una manodopera migrante in continua crescita adibita alla costruzione di ponti e di trafori, di porti e di istmi, di caseggiati e di palazzi ecc., ma soprattutto, per alcuni decenni, di strade ferrate destinate a moltiplicarsi a dismisura tra l’area germanica e quella danubiana[25] (sino alla Siberia divenuta poi sfondo delle peripezie di alcuni operai friulani nel racconto di Carlo Sgorlon La conchiglia di Anataj[26]) dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti[27] allorché quanti attendevano a tali grandiosi lavori ferroviari (in tedesco gli Eisenbahnbauer) presero ad essere chiamati aisempòneri in Trentino ‒ dove il termine, ricorda Grosselli, entrò subito a far parte della “mitologia popolare” ‒ ma anche lisampòneri in Friuli ed esampòneri nel Bellunese e nell’Altipiano di Asiago.

Vere avanguardie di quella che si sarebbe confermata nell’arco di tutto un secolo a venire come la componente più stabile e cospicua dell’emigrazione triregionale in virtù dell’apporto numericamente e costantemente maggioritario fornitole sin dentro agli anni Venti del Novecento dalle province di Udine e di Belluno, le prime leve di questi nuovi emigranti temporanei a cui si aggiunsero a un certo punto molte donne e persino non pochi bambini e minori[28], ebbero per tempo ovvero in tempo (quasi) reale i propri storici ‒ Musoni e Porri, Mantica e Cosattini, Bazolle e Marinelli ecc.[29] È incrociando più volte la strada dei contadini risoltisi a raggiungere l’America e quindi in uscita sempre più massiccia dalle campagne frattanto entrate in fibrillazione o meglio precipitate in uno stato di acuta sofferenza anche a causa d’un forte aumento della popolazione cresciuta fra il 1830 e il 1880 del 40% con moto all’apparenza inarrestabile perché determinato, in larga parte, dallo “spettacolare declino della mortalità infantile”[30].

  1. La grande emigrazione transoceanica

L’avversa congiuntura di fine Ottocento per cui i prodotti agricoli locali si trovarono a dover subire, come tempestivamente segnalava per il Veneto, nell’Inchiesta Jacini, Emilio Morpurgo[31], la sistematica concorrenza di quelli che i nuovi mezzi di trasporto facevano invece giungere in Italia a minor costo da diverse parti del mondo (non esclusa, in prima fila, proprio l’America) mise a nudo le crescenti difficoltà di una economia incapace nel breve periodo di reggere il confronto o meglio la sfida con i mercati internazionali (dei grani, del riso, delle sete ecc.) proprio mentre, complici ulteriori elementi di crisi (creditizi, ambientali, finanziari ecc.), ad alterare gli equilibri già precari della società rurale tradizionale sia in Trentino che in Friuli e nel Veneto “euganeo” intervennero pure altre impreviste circostanze: fermo restando infatti il peso di tutti i ricordati fattori espulsivi la svolta principale venne propiziata, almeno inizialmente ossia nel corso di quasi vent’anni a far data grosso modo dal 1870, dalla effettiva disponibilità di terre “libere” al di là dell’oceano e persino, sebbene in misura largamente inferiore ma comunque simbolicamente significativa, in alcune parti del vecchio continente. Ne diedero prova, dopo il 1878, l’emigrazione trentina in Bosnia a Franijagora e a Mahovlijani, e quella in particolare dei valsuganotti a Ŝtivor, ma anche quella dei veneti a Ciglenica e dei friulani in Croazia[32] (senza trascurare i precedenti “misti” dei predazzesi in Transilvania ad Hermannstadt, Sibiu in rumeno, nel 1851[33] o la successiva serie degli insediamenti veneti e friulani in Moldavia e in diversi punti della Romania[34]) in seguito a progetti di colonizzazione agraria talora incoraggiati dalle stesse autorità austriache[35] e rievocati più tardi ‒ al netto di molte partenze individuali, di vari fallimenti e di alcuni tempestivi rimpatri ‒ nei romanzi trentini di Sandra Frizzera[36]: non a caso quasi tutti contrappuntarono e seguirono a ruota la prima ondata di espatri transoceanici più o meno dalle stesse zone ossia dal Veneto per il Brasile e dal Friuli per l’Argentina, fattasi consistente tra il 1876 e il 1877. Gli impulsi provenienti dall’esterno e in particolare da oltreoceano furono ad ogni modo, di lì in avanti e per molti anni, la causa attrattiva dominante di un fenomeno che senza risparmiare la montagna ben presto dilagò con destinazione prevalente il Rio Grande do Sul brasiliano soprattutto nelle campagne del Veneto centrale (durante il biennio 1876-1877 segnatamente nelle province di Treviso, Vicenza e Verona) nonché in Valsugana e subito appresso in luoghi nei quali prevalevano la piccola proprietà contadina, la mezzadria o l’affitto come nell’antica Patria del Friuli dove, a parità di regimi fondiari[37], a incentivare le partenze per l’Argentina non sarebbe stata quindi soltanto la miseria” ma piuttosto ‒ in linea di massima ‒ “la paura della miseria”[38] sicché l’esodo transatlantico finì pure qui per allargare man mano “la zona di emigrazione a comuni anche senza consuetudine di lavoro all’estero” tanto più quanto più fossero riuscite a diffondervisi notizie certe (e non solo scontate dicerie) sulle condizioni vantaggiose fatte in America agli agricoltori “di buona volontà” e in genere sui livelli più confortevoli di esistenza conseguibili, a certi patti, dagli immigranti in quelle terre senz’altro esotiche. Il meccanismo comunicativo innescatosi allora e rimasto in auge poi per decenni sfruttava del resto una serie di elementi concreti (sul tipo di alcune agevolazioni per il viaggio e soprattutto delle leggi di homestead exemption varate sia dal Brasile che dall’Argentina fra il 1873 e il 1876[39]) anche a prescindere dagli allettamenti della propaganda imbastita dai governi sudamericani e dalle compagnie di navigazione ad essi collegate ovvero grazie alla mediazione delle corrispondenze epistolari dei previous migrants[40] e alla straordinaria efficacia delle prime catene emigratorie[41], benché naturalmente un ruolo le suddette dicerie potessero ugualmente averlo svolto come testimoniavano tra fiere e mercati le canzoni popolari o i ritornelli degli imbonitori e dei loro “fogli volanti” sulle prospettive dischiuse dal decantato approdo al nuovo mondo:

America! America! Si sente cantare/Andiamo nel Brasile, Brasile a popolare – America! America si campa a meraviglia/Andiamo nel Brasile con tutta la famiglia![42]

Negare efficacia e rilevanza alle prospettive mitemiche che dovevano del resto misurarsi anche con i resoconti diretti ma pessimistici e sconfortanti di chi all’estero era andato a parar male[43] (e che per quanto veicolati dalla stampa antiemigrazionista o sostenuti dai conservatori e da buona parte del clero in cura d’anime riscuotevano comunque minori consensi popolari), sarebbe insomma azzardato e in contrasto con un’ampia e annosa casistica[44] in cui trovano posto a metà Ottocento persino i “primi approcci americani” dei perteganti tesini portatisi in Messico e in Centro America[45] o le singole e isolate figure di uomini capaci di muoversi su vari continenti come l’Andrea Lezuo, montanaro giramondo di Arabba, che rimase in contatto “per posta” oltre che dall’Europa, anche dal Brasile e dagli USA con i suoi parenti di Livinallongo per cinque anni tra il 1841 e il 1845[46].

Sia come sia, e dando uno sguardo ai numeri in progressivo aumento già nei rilevamenti pionieristici di Leone Carpi, una volta di più l’emigrazione si rivelava tratto distintivo e in comune fra le grandi aree dell’Italia nordorientale al di là delle contingenze politiche in procinto di ridefinirne l’assetto verso la metà degli anni ‘60 dell’Ottocento quando a consorziare in una sorta di comune bacino ideale le sue componenti ‒ che nella fattispecie veneta e friulana sarebbero poi rimaste per decenni saldamente in vetta alle statistiche dell’emigrazione nazionale ‒ fu la proposta avanzata nella stampa milanese del tempo da un anonimo autore spintosi a “nominare tutto ciò che [colà] ancora manca[va] con unico e appropriato e opportuno vocabolo” ossia “Le Venezie”, “cara parola” suggerita, a suo avviso, dalla geografia, dall’etnologia, dalla storia e, non ultimo, dall’“uso stesso della lingua nostra”[47]. L’ideazione di un “macrotoponimo di prestigio” in grado di riassumere efficacemente, e per intanto, le principali ascendenze venete e romane di tre realtà, al momento ancora disgiunte[48], era stata frutto dell’inventiva d’un linguista presto di gran fama, il goriziano Graziadio Isaia Ascoli, il quale ammise la paternità del testo precisando in vari luoghi che quel suo “articolino” del 1863 intitolato Le Venezie e “primariamente inserito […] in un giornale che potesse portarlo inavvertitamente nella Venezia Tridentina o nella Giulia [era stato] ricopiato o ristampato più volte, ma sempre in modo più o meno scorretto”[49]. Definito ai nostri giorni, dai friulanisti radicali, “croce e delizia” del Friuli “perché nel 1863 ne cancellò la fisionomia etnico-politica e nel 1873 dimostrò l’autonomia della lingua che qui si parla”[50], Ascoli ebbe comunque la possibilità di assistere di persona all’impetuosa ascesa di un tipo di emigrazione radicalmente nuovo e dilagato dopo il 1875 nelle campagne, comprese quelle del suo Friuli, da lui ridenominate come un unico insieme e accomunate ora anche dallo stigma borghese della fuga in massa verso le Americhe di tantissimi “incauti villani”. Ritratti in questa veste e in versi ruzanteschi da Domenico Pittarini alla volta del 1868 come ancora intenti, nelle campagne del Vicentino, a inscenare teatrali proteste “anti italiane” per esecrare a parole l’odiata tassa sul macinato[51], contro cui in altre parti del Veneto e del Friuli (Veronese, Trevigiano, Basso corso del Tagliamento, Cividalese ecc.) stavano già scoppiando invece gravi tumulti e violente manifestazioni di piazza[52], parecchi di loro erano in realtà prossimi e psicologicamente pronti a compiere, al posto di una ennesima rivolta fiscale, il gesto drastico dell’abbandono definitivo dei campi natali pur di raggiungere il Brasile o l’Argentina i cui governi avevano cominciato ad alimentarne le aspettative di “riscatto” così da indurre a eloquenti revirements persino chi, come Giacomo Zanella, voce poetica dei moderati e Rettore dell’Università di Padova, si era fatto in precedenza cantore (nel 1865) dell’epopea migratoria d’un altro “popolo di rustici” in movimento ovvero delle migliaia di “bianchi coloni” irlandesi scampati alla fame (e al giogo degli “alteri britanni”) nelle foreste vergini “del verde Missuri”. Passata appena una dozzina d’anni sarebbe stato lo stesso abate di Chiampo (nel febbraio del 1877) a registrare tra i primi, ma non unico dei letterati veneti[53], in uno col proprio sgomento, le replicate partenze di molti compaesani, neanche tutti disperati o drammaticamente impoveriti, verso remote mete transoceaniche sottolineando nella seconda delle sue due odi su L’emigrazione dei contadini (ossia nella Risposta di un contadino che emigra) soprattutto una delle ragioni che ne avrebbero motivato le scelte dirompenti agli occhi dell’establishment conservatore e dei consorti terrieri, ma in genere anche di tutta la stampa d’informazione borghese[54] impaurita dal senso profondo di una così vistosa “diserzione” demografica: “Odo il vulcan che mormora/Nel fondo e l’ire aduna,/Se pia ricchezza al povero/Non fa miglior fortuna […] Pria che l’ascoso incendio/Sterminator divampi/E di rapina e cenere/Funesti io vegga i campi”.

L’America come alternativa alla miseria e ai rischi della proletarizzazione ovvero come luogo in cui fosse possibile sperimentare forme di vita e di lavoro simili se non migliori di quelle esistite nelle Venezie di un passato remoto (e idealizzato) rappresentava in effetti una enorme novità agli occhi dei contadini delle basse pianure (ma anche degli agricoltori “di montagna” come quegli affittuari trentini i quali al debutto della “smania emigratoria” per il Brasile che condivisero con quella dei friulani per l’Argentina[55] intonavano, al pari dei loro omologhi veneti e mantovani, stornelli classisti significativi ammonendo in canto i loro ex “padroni” : “Quando saremo in Merica/La terra ritrovata/ Noi ghe darem la zapa/ Ai siori del Tirol”). E tutto ciò quantunque per qualcuno (anche di loro) non fossero mancate, dopo il 1815 e in rapporto all’America, occasioni sporadiche d’incontro ravvicinato e non sempre soddisfacente con i paesi che ne costituivano la compagine tuttora, soprattutto nel sud del continente, in via di assestamento sia politico che demografico ed anche perciò sempre più intenzionati ad attirare in gran numero entro i propri confini con iniziative mirate e finanziamenti adeguati agli scopi della colonizzazione agraria o del popolamento (e in Brasile anche dello sbiancamento) intere famiglie di agricoltori europei (preferibilmente anzi, a imitazione di quanto era già successo e ancora stava succedendo negli Stati Uniti, del Nord Europa). Sin dalla prima metà dell’Ottocento si erano del resto delineate qua e là delle parabole individuali oltremodo prefiguranti a questo riguardo e procurate per lo più dal trapianto all’estero di esuli e fuoriusciti, che, sostanzialmente fuggendo dalle Venezie, avevano compiuto, lontano dalla loro terra natale, esperienze singolari e poi spesso dimenticate. Anche volendo ad esempio considerare casuale il fatto che, condannato a morte in Piemonte, il giovane Garibaldi appena rifugiatosi a Rio de Janeiro nel gennaio del 1836 fosse stato qui accolto e a lungo ospitato in casa di Luigi Dalecazi, un mazziniano veronese stabilitosi in Brasile già da un paio d’anni [56], non sarebbe da trascurare, fra il 1848 e il 1866, l’esperienza dell’esilio fatta dai veneti e dai friulani riparati in Francia e in Piemonte (o, alla fine, nello stesso Regno d’Italia) a causa delle proprie idee. Le loro vite, infatti, rimasero profondamente segnate dall’emigrazione “politica” – come sarebbe ancora successo a fine Ottocento a non pochi “sovversivi” anarchici e socialisti oppure, tra le due guerre, a parecchi oppositori, specie friulani, del fascismo ‒ inducendo a ripensare alle più antiche traversie di altri “fuggiaschi” abbastanza in vista sul genere di Lorenzo Da Ponte, il librettista cenedese di Mozart che si era stabilito negli Stati Uniti già in età napoleonica, nel 1805, e che vi morì nel 1838 dopo avere svolto per oltre trent’anni, oltre a quelli d’ambito artistico, letterario o musicale a lui più congeniali, diversi e più prosaici mestieri[57].

Esuli solo apparentemente di lusso ma rivelatisi emigranti a tutti gli effetti (e costretti infatti a mantenersi svolgendo lavori manuali o tutt’al più impartendo lezioni di lingua come Daniele Manin rifugiatosi a Parigi dopo la resa di Venezia nel 1849) furono di sicuro i ricordati profughi della diaspora risorgimentale veneta stabilitisi a Torino sino al 1859[58], ma spesso diramatisi poi anche per tutta Europa prima di raggiungere a propria volta in qualche caso, come i loro conterranei contadini, l’America del Sud o gli Stati Uniti. Uomini senz’altro audaci e a volte temerari, questi, i quali dalla scelta rivoluzionaria giovanile e quarantottesca transitarono più tardi a quella professionale del mestiere delle armi che ne portò più d’uno a compiere percorsi addirittura romanzeschi, come potrebbero dimostrare le “molte vite” del bellunese Carlo Camillo Di Rudio, che dopo aver attentato con Felice Orsini alla vita di Napoleone III scampò all’ergastolo dell’Isola del Diavolo prima di finire a combattere con gli Unionisti nella Guerra di Secessione sino a diventare poi ufficiale del Settimo Cavalleggeri di Custer alla battaglia del Little Big Horn (morirà a Pasadena nel 1910 col grado di tenente colonnello dell’esercito statunitense)[59] oppure come potrebbe attestare l’esistenza non meno avventurosa di Adolfo Farsari, vicentino di famiglia borghese che si batté lui pure tra i nordisti assieme a vari altri soldati yankee-veneti, spedendo ai propri genitori numerose lettere dai campi di battaglia della Guerra civile americana, ma che, trasferitosi nel 1874 in Giappone, vi diventò nel giro di pochi anni uno dei più originali e rinomati fotografi del suo tempo[60]. Al novero dei più spericolati si potrebbero equiparare d’altronde, ancora tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, non pochi ulteriori protagonisti, spesso però “involontari”, di vicende altrettanto rocambolesche come in America Latina negli anni Sessanta dell’Ottocento il rodigino Gustavo Minelli medico tanto famoso quanto “improvvisato”[61] o gli stessi 300 contadini del distretto di Conegliano e di varie località a cavallo delle province di Treviso e Pordenone (Francenigo, Codognè, Orsago, Sacile ecc.), reclutati nel 1880 da un avventuriero francese, il marchese De Rays, mezzo agente di emigrazione e mezzo affarista (e truffatore), i quali, diretti in Melanesia, si ritrovarono invece a scrivere, dopo un naufragio e un casuale approdo in Australia, una singolare pagina della colonizzazione agraria italiana ed europea nel nuovissimo continente, in quanto fondatori, loro malgrado, di una “Cea Venexia” agli antipodi, denominata sulle prime, verbatim, “Niu Itali” ovvero la New Venice del Nuovo Galles del Sud posta al centro, cent’anni più tardi, da un nipote del grande Ippolito Nievo, Stanislao, del suo romanzo Le isole del Paradiso ‒ Premio Strega nel 1987 ‒ e raccontata a più riprese anche dal sociologo opitergino Ulderico Bernardi[62]. E la lista si potrebbe, volendo, allungare alquanto aggregando al gruppo dei più vecchi repubblicani, di solito liguri o genovesi, vari altri figli (e nipoti) del Risorgimento veneto/friulano[63], precocemente espatriati soprattutto in Uruguay e in Argentina (dove dal 1861 al 1870 erano già affluiti del resto più di 100 mila italiani) dei quali conosciamo i primi passi compiuti nel mondo del giornalismo italo platense (come nella fattispecie dell’asiaghese Angelo Rigoni Stern che interrotti in patria gli studi di medicina emigrò al Plata per dirigervi importanti settimanali e quotidiani a cominciare da “L’Operaio Italiano” da lui fondato a Buenos Aires nel 1872[64]). Le loro esistenze si svolsero tra Otto e Novecento quasi per intero all’estero spesso nel segno di questa militanza pubblicistica (e più di rado politico-diplomatica) proprio mentre vi si stavano dirigendo in gran numero le schiere (o le coorti) dei contadini e degli operai migranti di modo che non se ne potrebbero disgiungere facilmente le figure (e le sorti) da quelle di tanti loro corregionali proletari e piccolo-borghesi finiti al di là dell’Atlantico o in angoli impensabili del vecchio continente, dove i primi entrarono quasi subito a far parte delle élites immigratorie ipotecando per decenni le sorti dell’associazionismo etnico, veneto e italiano, dei secondi.

Quasi coetanei, e ideologicamente affini tra loro, di tale circostanza fornirono un esempio giovani come il garibaldino arzignanese Luigi Cazzavillan o il repubblicano di Lendinara Adolfo Rossi. Il primo, dopo aver combattuto con Garibaldi in Francia nel 1870, si fissò, venticinquenne, a Bucarest e vi fondò nel 1884 il più moderno dei giornali rumeni (“Universul”) diventando poi, fino al 1903, anno della sua morte, punto di riferimento imprescindibile delle comunità venete così della capitale come del resto del Paese[65] (da dove, durante la Seconda guerra mondiale, i loro componenti e discendenti – sia detto en passant − furono quasi tutti fatti “rientrare” dal governo fascista in Italia[66], o meglio nell’Agro Pontino ormai venetizzato assieme ai valsuganotti delle colonie bosniache sopra ricordate). Il secondo, allievo di Alberto Mario, emigrò invece dal Polesine a ventidue anni nel 1879 e visse per qualche tempo a New York, la città in cui fece anche il proprio apprendistato giornalistico nella minuscola redazione de “Il Progresso Italo-Americano”, poi tra i maggiori fogli etnici, se non addirittura il più importante, degli Stati Uniti, un paese che egli conobbe assai da vicino avendolo girato in lungo e in largo da emigrante e del quale ampiamente parlò nei suoi libri scritti dopo il rientro in Italia (specie nel best seller edito a Milano da Treves nel 1891 Un italiano in America). Giornalista del “Corriere della Sera” nella maturità, Rossi divenne infine ispettore e funzionario del giolittiano Commissariato dell’emigrazione e, intrapresa nel 1908 anche la carriera diplomatica, finì i suoi giorni a Buenos Aires, nel 1921, ministro plenipotenziario del Regno. Di modeste condizioni e di poveri natali, Adolfo Rossi fu, però, anche colui alle cui inchieste e alle cui denunce si dovette, nel 1902, la fine dell’emigrazione sussidiata diretta soprattutto a San Paolo e in Minas Gerais, mete dopo il 1883 di un numero davvero impressionante di lavoratori veneti, soprattutto, come lui, polesani[67].

Quantunque raccolto nel giro di non molti anni, dopo il fallimento de La Boje appunto tra il 1883 e la fine del secolo, l’afflusso nelle zone caffeifere pauliste e mineire dei braccianti delle basse pianure, un po’ oscurando l’epopea gaúcha dei coloni riograndensi, divenne l’emblema dell’emigrazione veneta al Brasile sia per i costi (sociali, lavorativi e umani) che comportò ai suoi nuovi protagonisti sia per la rapida evoluzione che conobbe convertendo parecchi di loro, che avevano avuto il viaggio pagato dai fazendeiros, in operai urbani e in cittadini della grande e vivacissima metropoli di San Paolo (tolti naturalmente i pochi che da braccianti erano diventati invece, a propria volta, proprietari di piantagioni senza quasi mai condividere, peraltro, il grande successo arriso a Geremia Lunardelli, “o Rei do café”, figlio di emigranti trevigiani, nato a Fossabiuba di Mansuè e giunto in Brasile bambino, all’età di due anni, nel 1886).

Tenuto conto del fatto che, sussidiata o meno, la corrente emigratoria diretta al Brasile soprattutto dal Veneto euganeo rimase per quasi trent’anni ai vertici delle graduatorie nazionali, come nell’analizzarne l’andamento in cifre assolute sottolineava nel 1908 Lamberto Paoletti assegnandole tale “primato” e illustrandone i “maggiori incrementi aritmetici” dal 1876 al 1905[68], si capisce meglio perché un tale fenomeno, pur non sopravanzando che in un paio di occasioni (nel 1888 e nel 1891), le dimensioni “bibliche” della concomitante emigrazione temporanea si fosse impresso con forza nell’immaginario dei contemporanei più attenti alle reazioni dei contadini. Per quanto meno studiate queste furono abbastanza uniformi paese per paese dando luogo, fra chi “restava”, a una casistica di reazioni che non sfuggirono ad alcuni osservatori come Francesco Coletti[69] e, più tardi, a non pochi scrittori di vaglia come Luigi Meneghello e Silvio Guarnieri[70]. Anche agli interpreti più prevenuti, d’altronde, non sarebbero dovute sfuggire, al di là degli effetti d’una transizione demografica in atto, le ragioni di scelte che, come quelle fatte dai contadini, avvicinavano e “apparentavano” molti di loro ai nuovi emigranti temporanei, giudicati un po’ l’emblema, in età giolittiana, dell’emigrazione veneta a confronto di quella meridionale[71] e agli operai manifatturieri, target earners, sempre più spesso in movimento e intenzionati a propria volta, complici i vistosi differenziali salariali, a cercar impiego oltreoceano nelle fabbriche e negli stabilimenti industriali del Canada o degli Stati Uniti: che fu poi ciò che fecero ad esempio, e non di rado, i lavoratori tessili dell’Alto Vicentino espatriando da Schio e da Valdagno per il New Jersey o per New York e Toronto con deviazioni verso il Sudamerica più sporadiche o meno frequenti (e dirette in prevalenza a San Paolo e a Buenos Aires), dovendosi considerare a parte i dipendenti dei Lanifici di Alessandro Rossi licenziati all’inizio degli anni Novanta dal senatore protezionista di Schio e indotti a reinventarsi una professione tessile nei pressi di Caxias do Sul e più tardi a Rio de Janeiro e a San Paolo.

Nel primo periodo in cui anche gli studiosi dei giorni nostri hanno suddiviso la storia dell’emigrazione italiana per il Brasile l’area regionale che risulta avere contribuito maggiormente al dispiegarsi del flusso rimane comunque, e di gran lunga, quella veneta (con apporti minori dal Trentino ancora austriaco nonché, come vedremo, dal Friuli) grazie ai suoi oltre 360.000 espatriati in totale dal 1878 al 1914. Per tutto l’ultimo quarto dell’Ottocento, insomma, furono appunto le Venezie, con significative distinzioni provinciali interne[72], a marcare le sorti della presenza italiana in un paese nel quale i picchi raggiunti anno dopo anno dalla nostra emigrazione rimasero nel loro complesso ‒ e molto spesso ‒ elevatissimi, ma sempre grazie alla crescita ininterrotta della corrente in arrivo dal Veneto la quale sfiorò le 20.000 unità nel 1887, le 72.000 l’anno seguente, le 70.000 nel 1891 e le 35.000 nel 1895. Tra questo anno e il 1905, terminus ad quem nei rilevamenti di Paoletti, ossia nel volgere di circa un decennio, pur senza esaurirsi del tutto, la componente veneta cominciò nondimeno a declinare cedendo il passo a quelle meridionali della Campania e della Calabria probabilmente anche in virtù di movimenti robusti di rientro[73] che non valsero a cancellare tuttavia né il ricordo né la consapevolezza delle gigantesche proporzioni raggiunte da un esodo in forza del quale ancora ai primi del Novecento era possibile che si svuotassero dei propri abitanti intere località magari sotto la guida dei loro “pastori” (come successe da Pescantina alla volta di Rio de Janeiro e di Petropolis, dove ad attendere gli emigranti non erano però ubertose campagne da colonizzare, bensì moderni setifici o altri opifici tessili in cui, stando ai ricordi di chi vi lavorò da ragazzo come lo scledense Domenico Marchioro, non erano certo confortanti né confortevoli le condizioni mediamente fatte agli operai[74]).

Andando in cerca delle origini di un fenomeno tanto “grandioso” che impressionò i contemporanei colti nonché molti economisti borghesi, ma che rimase forse anche più impresso nella memoria delle popolazioni subalterne le quali ne ricavarono alla lunga benefici sovente nemmeno previsti come quelli legati al “rifacimento” d’interi borghi e villaggi montani pagato con i risparmi fatti in America o con le rimesse dell’emigrazione temporanea (secondo una prima descrizione abbozzata dopo la Grande guerra per il Trentino da Angelico Prati) ci si imbatte dunque con una certa regolarità, come si è appena accennato qui sopra, nell’opera interessata degli agenti di emigrazione e dei “richiami” in arrivo da oltreoceano i quali mettevano a profitto gli ovvi presupposti di un disagio contadino generalizzato e ben riassunto, secondo un possidente “illuminato” come il trevigiano Gregorio Gregorj, dal proverbio “vecchio quanto il mondo: chi sta bene non si muove[75]. Si tratta di una circostanza trattata ampiamente in varie sedi dagli storici (da noi Sori, Brunello, Martellini, Freda ecc.) che merita però qualche approfondimento anche qui perché collegata a episodi embriogenetici “condizionanti” e capitati inizialmente più nel Trentino asburgico che non nelle province venete o nella Patria del Friuli finite “sotto i Savoia” a riprova del fatto ‒ revocato in forse dalle vulgate venetiste di fine Novecento ‒ che la “fuga” dei contadini dal Veneto e dalla provincia di Udine per l’America non fu una conseguenza del loro distacco dall’Impero di Francesco Giuseppe (a cui rimasero comunque fedeli sin dentro al Primo conflitto mondiale la maggior parte degli emigranti trentini in Brasile[76]), bensì il prodotto di condizioni analoghe di disagio e da opportunità del tutto simili di porvi riparo emigrando dove sembrava potesse essere più conveniente. Ad aprire in effetti la strada del Brasile nel Triveneto erano state le iniziative promosse da Pietro Tabacchi, un imprenditore trentino stabilitosi in Espirito Santo sin dal 1851. Assecondato dalle autorità provinciali capixabas egli aveva chiesto al Governo imperiale brasiliano di essere autorizzato a introdurre in terre di sua proprietà nel municipio di Santa Cruz alcune centinaia di agricoltori “tedeschi o del Nord Europa”[77] i quali si convertirono ben presto nei 388 contadini valsuganotti e, in numero più ridotto, veneti partiti il 3 gennaio 1874 da Genova a bordo di un bastimento a vela e approdati dopo 45 giorni di navigazione al porto di Vitoria. L’esito finale del “trapianto” ai tropici di questo contingente, precedente di poco la “spedizione” di un gruppo di famiglie emiliane, mantovane e venete organizzata con esiti imprevisti a Rio de Janeiro da un’esule mazziniana, Clementina Tavernari, bene introdotta a Corte e molto apprezzata dall’Imperatore Dom Pedro II[78], non fu dei più felici (sommosse e rivolte dei coloni che si ritennero raggirati, malattie ed epidemie che ne diminuirono il numero, loro dispersione finale in altre colonie ecc.), ma l’esempio dato si rivelò presto gravido di conseguenze. L’impresa lasciata a mezzo dal Tabacchi e imitata di lì a poco in Paranà da Sabino Tripoti, un altro spregiudicato “arruolatore” attivo in Paraná sulla pelle di alcune centinaia di emigranti veneti e abruzzesi, venne ripresa con ben altri mezzi e “migliori” risultati, dal brasiliano José Joaquim Caetano Pinto il quale sin dal 1870, associandosi a una compagnia di colonizzazione tedesca (la Holtzweissig & Cia) aveva raggiunto con il governo della Provincia di Sao Pedro do Rio Grande do Sul un accordo per introdurvi da 20 a 40.000 immigranti europei. Nel corso del 1874 Pinto alzò il tiro e riuscì a stipulare, stavolta con il governo imperiale, un altro contratto per far affluire in Brasile 100.000 agricoltori europei in dieci anni e ad onta della volontà dichiarata di approvvigionarsi solo di agricoltori “nord-europei” (e cioè austriaci, tedeschi, svizzeri, baschi belgi, svedesi e francesi), concentrò quasi tutti i suoi sforzi, orchestrati non senza dispendio di mezzi, in Veneto e in Trentino con il supporto di alcune compagnie di navigazione di Marsiglia e di Havre. Pinto non impiegò molto a costruire una prima rete di agenzie e di agenti tanto più che le maggiori spese dovevano essere sostenute, in realtà, dagli stessi emigranti così contattati e “convenzionati”. Il giro d’affari da lui messo in piedi garantì la sostanziale riuscita, nell’arco di circa tre anni e sia pure con pause e interruzioni di qualche conto, dell’intera operazione. Essa dotò quindi molte località del Veneto italiano e del Trentino austriaco, con diramazioni più esigue in Lombardia, di un primo piccolo esercito di subagenti minori i quali uscivano dalle più diverse categorie sociali giungendo a comprendere figure non sempre scontate (ad esempio sacerdoti sul tipo del parroco di Fastro Domenico Munari o come il cappellano di Campese don Angelo Cavalli di cui narrano le suggestive memorie di Giulio Lorenzoni[79]) ma quasi sempre vicine, per tanti versi, alle classi rurali da interessare all’espatrio, quelle cioè degli agricoltori piccolo proprietari (e degli affittuari minori) desiderosi di continuare ad esser tali[80] (o a diventarlo per la prima volta) in America.

Pinto dal suo quartier generale di Parigi, spostato a Genova negli anni caldi dell’arruolamento (1876-1877), aveva realizzato una sorta di joint venture con gli emissari locali, nelle Venezie e in Austria, attraverso le società marittime transalpine di cui si serviva anche grazie all’appoggio del Vice Console brasiliano Da Costa Saraiva a Marsiglia. Di qui si diramavano verso le succursali veronesi e trentine, i materiali pubblicitari e quelli per le pratiche di arruolamento destinate agli ingaggiatori di villaggio. Mentre i vertici dell’organizzazione trattavano ad alto livello con le autorità amministrative e di governo, cercando di assicurarsi la disponibilità di una parte almeno della stampa italiana, agenti e subagenti provvedevano a “fertilizzare” in un’ottica emigrazionista vasti territori concorrendo potentemente a sbozzare una prima versione “brasiliana” del nuovo mito dell’America. Indagini di polizia e verbali d’inchieste e d’ interrogatori, sia italiani che austriaci, alcuni risalenti già al 1875, mostrano con sufficiente chiarezza i risvolti di tale intensa attività sviluppata per il Veneto a Verona dalle Agenzie Depas di René (Rosalindo) Camon e di Vincenzo Bramati e per il Tirolo italiano a Trento dal loro omologo Augusto Nardelli, anche se emissari minori come il roveretano Pacifico Rella e i valsuganotti Antonio Gasperi e Antonio Broilo, di cui discorre con dovizia di supporti documentari Renzo Grosselli in vari luoghi, non dovettero esercitare una influenza minore. Contrasti e dissapori interni all’organizzazione condussero nel 1876, considerato in Italia l’anno d’inizio dell’emigrazione transoceanica di massa, a un cambio di questi uomini chiave di Pinto a Marsiglia con il passaggio al servizio dell’arruolatore brasiliano della Ditta di Antonio Badin e a Genova con la nomina di un suo nuovo rappresentante generale, quel Clodomiro De Bernardis assai noto alle cronache, anche epistolari, dell’esodo rurale in Brasile dalle Venezie[81]. Alle sospensioni provvisorie di alcuni mesi del 1876 e del 1877 fecero seguito varie riprese sino al maggio del 1878 quando questa prima fase dell’attività del Pinto si esaurì (un’altra successiva alle dipendenze del governo provinciale di Santa Catarina si prolungò invece sino al 1883) senza conseguire in pieno i suoi obiettivi originari, ma procurando l’inoltro nel sud del Brasile, in poco più di tre anni, di circa 35.000 emigranti dell’Italia settentrionale (con isolati apporti di agricoltori di nazionalità spagnola, francese e svizzera) e soprattutto fissando, appunto nel Veneto e in Trentino, un’ampia costellazione, collaudata ed efficiente, di terminali commerciali per l’emigrazione oltreoceano in grado di rimanere in funzione, con altri interlocutori, anche negli anni a venire servendo in un certo senso, da piattaforma e da modello per le più tarde iniziative, post 1880, delle grandi società “promotrici” dell’immigrazione di São Paulo o di Minas Gerais e, soprattutto, dei grandi intermediari italo-brasiliani, come la ditta Fiorita & C., genovese di origine e carioca per destino, che svolsero su loro mandato (e a loro spese) una immane opera di raccordo tra l’Europa e l’America come procacciatori d’emigranti in collegamento sempre più stretto con le maggiori compagnie di navigazione, ora veri e propri colossi, coinvolte nel fiorente business atlantico dei trasferimenti, in andata e in ritorno, dei lavoratori europei[82]. Basti pensare che nella fase più acuta, dal 1887 al 1897, si ebbero nell’intero Veneto, su un totale comprensivo dei “temporanei” di oltre un milione (1.050.924), ben 288.853 emigranti diretti al Brasile e 52.484 verso l’Argentina, parte dei quali – ad esempio di sicuro la maggioranza di quelli partiti dal Polesine per San Paolo – con viaggio gratuito o prepagato[83].

Data l’entità e la durata dei flussi destinati, almeno in parte, ad alimentare un processo di colonizzazione agraria che in vaste zone sudamericane ancora per lo più “vergini” e poco abitate fu all’origine della vistosa “venetizzazione” di porzioni consistenti di quei loro territori (ad esempio nel sud del Brasile in Santa Catarina e nel Rio Grande do Sul)[84] in cui furono “accuditi” per tempo dai missionari per lo più veneti della congregazione fondata nel 1887 dal vescovo di Piacenza mons. Giovanbattista Scalabrini e da preti precursori come il bassanese Pietro Colbacchini [85], fu quasi inevitabile che in essi avessero luogo da un lato fenomeni abbastanza rapidi di modernizzazione capitalistica e da un altro persino casi, per quanto sporadici, di contatto e di contrasto violento degli immigrati, bianchi e “pionieri”, con le popolazioni indigene originarie. Fatti ed episodi, questi ultimi, quasi tutti poi rimossi o minimizzati per consentire la nascita di un mito positivo della frontiera[86] che, forte del sostegno offerto non poche volte proprio dal clero cattolico, riuscì anch’esso ad attecchire e a svolgere una funzione efficace di supporto alle campagne promozionali o di richiamo in atto nel Veneto di fine Ottocento e ancora nei primi anni del secolo successivo.

Rilievi analoghi sulle basi dei meccanismi – materiali e ideologici ‒ di attrazione valgono, visti in dettaglio e sia pure con una minore incidenza dei miti di fondazione pionieristici, pure per il Friuli da dove tuttavia si partì per mete americane sostanzialmente solo durante alcuni periodi abbastanza distinti e circoscritti: dal 1878 al 1880, negli anni della prima “febbre platense”[87] e poi tra il 1883 e il 1889 verso l’Argentina[88] (e, in minor misura, verso il Brasile[89]) e dal 1906 al 1914 con varie riprese dopo la fine della Grande guerra sino alla chiusura degli sbocchi emigratori, intorno alla metà degli anni Venti, anche verso il Canada e gli Stati Uniti[90]. L’emigrazione transoceanica friulana verso l’America Latina, per il suo essor quasi improvviso e per il modo con cui si collegò alla crisi agraria e alle paure dei grandi possidenti, presentò certo notevoli affinità con quanto succedeva sia in Trentino che nel resto del Veneto[91]. Grazie, però, all’attivismo di una maglia pure qui esistita, ma se possibile anche assai più fitta, di agenti d’emigrazione essa s’incanalò soprattutto verso l’Argentina coinvolgendo interi nuclei familiari e paesani convinti a superare le iniziali paure di fronte ai rischi del viaggio e del trapianto all’estero. L’Associazione Agraria Friulana, il sodalizio degli agrari locali e singolarmente alcuni dei suoi esponenti di maggior peso (Pecile, Biasutti, Morgante ecc.) si occuparono a fondo di un fenomeno alla cui descrizione diedero anzi un fondamentale contributo promuovendo anche la raccolta e la pubblicazione di lettere provenienti da oltreoceano. La loro azione, peraltro, era ispirata a criteri di cauto restrizionismo che confliggevano con l’orientamento liberista e, più decisamente, con quello non da ora emigrazionista in modo risoluto di un uomo autorevolissimo anche per i suoi trascorsi patriottico risorgimentali come Pacifico Valussi. Schierato sulle posizioni a lui care e attento al problema dell’emigrazione in America era d’altronde il “Giornale di Udine” che si distingueva anche in ciò dalla progressista “Patria del Friuli”. Di fronte alla fuga che sembrava dovesse essere inarrestabile dei sottani e dei coloni dalle campagne, tutta la stampa liberale negli anni di punta fra il 1878 e il 1880, non risparmiò critiche e ammonimenti unendosi sovente al coro dei più spaventati fra gli osservatori. Costoro, moderati e clericali in testa, oppugnavano l’emigrazione sia nel Friuli italiano sia in quello austriaco, dove essa pure si verificava nella Contea di Gorizia, ricorrendo a immagini le quali colpivano forse non meno delle lusinghe degli arruolatori la fantasia dei contadini. I primi contatti della cultura popolare col mito dell’America avvennero d’altronde anche qui all’insegna di tale duplice immaginario, positivo e negativo, che le dicerie per un verso e gli interventi, soprattutto del clero, per un altro, valsero fosse come fosse a radicare fra la gente. Questa se aveva già con l’emigrazione europea e in genere con le pratiche migratorie una notevole dimestichezza, del nuovo mondo ignorava pressoché tutto ma si uniformava, nei comportamenti, alla media di quello che anche altrove stava accadendo (o che si stava dicendo) così in alta Italia come nei domini asburgici. Non solo in provincia di Udine infatti, ma anche a Gradisca e nel Goriziano, in Val di Resia e nelle valli del Natisone, si ripeterono abbastanza spesso scene di adesione entusiastica ai progetti di colonizzazione platensi, ma pure, qua e là, di sgomento (come quelle colte da un corrispondente del “Giornale di Udine” nel 1879 a Podgora dove la terrificante descrizione dell’America inserita da un sacerdote nel suo sermone scatenava la reazione isterica delle fedeli: “parecchie donne, raccapricciando a quella dipintura davano in pianto dirotto; ve ne fu pure taluna che svenne”[92]). Sebbene la stampa clericale, a cominciare dal “Cittadino” di Udine, si attestasse su posizioni di netta ripulsa dell’esodo definitivo, giudicandolo, diversamente da quelli di tipo temporaneo, economicamente e moralmente riprovevole, l’orientamento del clero in cura d’anime, che tanta influenza aveva sulla parte più religiosa della popolazione, non fu comunque uniforme e anzi contemplò, come del resto in Veneto, più d’un esempio di promozione diretta o indiretta delle partenze sine animo redeundi da parte di parroci e sacerdoti. Il movimento di esodo dalle campagne indusse così, nel giro di pochi anni, parecchie migliaia di friulani a stabilirsi come pionieri dell’ultima frontiera latino americana nelle colonie agricole del Chaco e di altre zone dell’Argentina: a Resistencia, dove affluirono nel 1878 numerosi abitanti di Fagagna e poi a Reconquista, a Villa Libertad (Entre Rios), a Candelaria (Santiago del Estero) e a Caroya (Cordoba), senz’altro il nucleo friulano per eccellenza al Plata[93], finì quindi per fissarsi il grosso di un’emigrazione che risultava riconducibile, in origine, a diversi fattori d’indole economica ma anche psicologica e culturale. Le solerti inchieste avviate nel 1878 dal “Bullettino dell’Associazione Agraria Friulana”, ne fornirono più di una prova anche se non stentarono ad appurare fra le cause dell’emigrazione oltreoceano le più ovvie ragioni occupazionali. Non trascurarono, tuttavia, nemmeno altre e diverse motivazioni: la momentanea crisi dell’emigrazione temporanea ad Osoppo, la concomitante disoccupazione a Mereto di Tomba, il sogno piccolo proprietario dei contadini a Martignacco, “un certo fanatismo” dei coloni a Reana del Royale ecc. ecc. Le stesse indagini ufficiali promosse dal Maic e dalla Direzione di Statistica del Regno confermano questi dati a cui sarebbe da aggiungere, come al solito, l’azione svolta dal torrente di lettere e di corrispondenze americane che presero ad affluire in Friuli trovando nella stampa locale una cassa di risonanza non indifferente (persino i giornali in lingua italiana d’America come “La Patria” e “L’Operaio Italiano” di Buenos Aires o «L’Italia al Plata» di Montevideo espletarono una tale funzione se non altro perché venivano letti “per strada” anche a Udine dove stavano «sovente esposti nelle vetrine dei negozi» del centro cittadino[94]). Le edizioni di lettere realizzate dai Di Caporiacco[95] e anche da chi scrive in Merica! Merica! offrono una vivida testimonianza in proposito documentando il rapporto che si instaurò a un certo punto fra l’immaginario popolare dei friulani e l’America di cui si narravano sì le mirabilie, ma di cui non si tacevano, peraltro, nemmeno le disillusioni e le molte asperità incontrate, massime in Argentina. Pochissime continuano ad essere, in questi primi anni, le lettere in arrivo da altre parti del nuovo continente. Alcuni friulani, se ne deduce, approdano nel 1877 in Brasile, dove si ferma, ad Espirito Santo, un piccolo contingente di contadini originari di Caneva. Altri friulani sono nel gruppo dei 450 italiani che nel 1881 il «Giornale di Udine» segnala presenti (e scontenti del loro stato) in Texas sui lavori ferroviari della celebre ditta Telfener (la celebre “Macaroni Railroad). Ma la destinazione dei friulani in America è sempre, prevalentemente, “platense” come ha modo di verificare di persona e di riferire già nel 1886 Luciano Ostani in un viaggio Attraverso l’Atlantico che si svolge a bordo del Sirio e, al ritorno, del Senegal, quasi sulle orme di Edmondo De Amicis[96]. Ostani, come De Amicis con i suoi piemontesi, compie un tour argentino nelle città e nelle zone abitate, da Rosario a Entre Rios, dai propri conterranei. È un altro contributo della stampa emigrazionista locale, qui nella fattispecie il “Giornale di Udine”, alla formazione di un’immagine di nuovo mondo particolarmente aperta alle speranze e alle aspirazioni dei friulani. Anch’essi, scrive ispirato nel 1885 Pacifico Valussi, “devono avere la loro parte di America”[97] ma il sogno di un “nuovo Friuli sulle rive del Plata”[98], preconizzato dallo stesso “Giornale di Udine” sin dal 1878, non riuscirà mai ad avverarsi, almeno nelle forme vagheggiate dai suoi incauti formulatori[99]. Dopo le fiammate della decade 1880, del resto, l’emigrazione friulana in America del Sud segna per qualche tempo il passo. Le cifre del ventennio compreso fra il 1881 e il 1900 in proposito parlano chiaro. Tolte alcune punte, inferiori peraltro alle cinque migliaia, a fine secolo (una media annua di circa 4600 fra il 1887 e il 1889, poco più di 2000 nel 1892 e nel 1895), l’emigrazione oltreoceano rallenta e durante alcuni anni sembra anzi scemare e quasi scomparire del tutto sicché, se messa poi a confronto con quella “europea”, si conferma in Friuli come una opzione per così dire “di minoranza”. Il minimo storico si tocca proprio al passaggio del secolo nel 1900 quando altrove, e non solo nel Veneto euganeo, si inneggia alla terra promessa del Brasile “là dov’è la raccolta del caffè”, e a fronte di 43.256 emigranti temporanei dalla provincia di Udine se ne contano, in partenza per l’America, appena 302 (di cui più della metà, 172, diretti in Argentina). La risalita sarà lenta all’inizio dell’età giolittiana facendo, però, registrare una impennata degli imbarchi per oltreoceano tra il 1906/1907 e il 1913/1914 quando le cifre torneranno ad essere più che ragguardevoli (con picchi rispettivamente di 16.070/14.577 e di 25.072/17.907 unità) mettendo così in evidenza la natura ora assai specializzata e spesso autoselezionata di un flusso non più solo rurale e non più tanto diretto al Sud del continente americano, quanto soprattutto al Nord negli Stati Uniti e in Canada. Gli agenti della Canadian Pacific Railways, in questo periodo, aprono ad esempio i loro uffici a Udine[100] e fanno presto cadere nel dimenticatoio le figure dei vari Chiodoni, Colajanni, Modesti, Laurens ecc. ‒ i grandi agenti reclutatori che avevano imperversato nella «caccia» ai coloni per l’Argentina appena vent’anni prima – agevolando tra i friulani la familiarità con le nuove destinazioni nordamericane. Si tratta spesso, comunque sia, di migliaia di persone caratterizzate da un alto tasso di professionalità desunto di solito da esperienze pregresse di sistematica emigrazione continentale, soprattutto “nelle Germanie”: fornaciai, scalpellini, capimastri, terrazzieri, mosaicisti e, più di rado, operai e manovali già attivi nei cantieri ferroviari del settentrione costituiscono ora il nerbo di una ulteriore diaspora friulana che lascerà tracce di sé, per quanto esili, in molte città degli Stati Uniti e del Canada.

 

  1. Dopo la Grande guerra

Un sommario bilancio della fase di maggiore espansione dei flussi temporanei veneti e friulani, prima che la Grande guerra e, a distanza di sette anni dalla sua conclusione, la chiusura quasi ermetica degli sbocchi emigratori determinassero la loro più severa limitazione, certificava l’entità e le prevalenti destinazioni estere come segue[101]:

  1876 1890 1900 1914 1925
Emigranti (totale

generale)

34.584 67.676 104.910 113.974 67.261
Verso l’Europa centrale 26.816 51.542 81.499 68.370 2.217
Verso la Francia e la Svizzera 2.850 8.064 12.987 19.283 51.969
Verso Paesi

balcanici

124 881 3.238 5.093 319

L’incidenza sul totale dell’emigrazione italiana delle correnti per l’Europa in uscita dal Veneto e dal Friuli era emersa, però, con plasticità già allo scoppio del Primo conflitto mondiale quando il subitaneo rimpatrio degli emigranti aveva fornito un’idea precisa dell’importanza strategica assunta dall’emigrazione nell’economia e nella vita d’intere province[102]. Sin dall’agosto del 1914 gran parte di quanti si trovavano allora nei paesi europei coinvolti per primi nell’immane scontro armato fecero in fretta ritorno a casa provocando nelle diverse zone di origine un memorabile intasamento di forza lavoro e di famiglie che risultò più imponente in quelle parti del Veneto e del Friuli da cui abitualmente e più spesso ci si recava per lavoro all’“estero vicino”[103]. In una fase iniziale durata sino ai primi di ottobre del 1914, soprattutto qui fu dato di assistere al rientro precipitoso di oltre 160 mila emigranti “continentali” pari a un terzo del mezzo milione di uomini, di donne e di ragazzi così rimpatriati in Italia[104] e accuditi in particolare dalle parrocchie e dai missionari dell’Opera Bonomelli ‒ ora guidati da un vescovo veneto[105] ‒ nonché da molti segretariati socialisti dell’emigrazione per la regia, da Milano, della Società Umanitaria, ma particolarmente attivi nel Nordest italiano in cui, inevitabilmente, crebbe a dismisura la disoccupazione:

Rimpatriati e disoccupati per causa di guerra nel 1914-1915, emigranti nei paesi europei nel 1913, popolazione presente e assente nel 1911 nelle province venete[106]

Provincia Rimpatri Disocc. Pop.1911 Em.eur. Em.trans. Em.1913 %rimpatri %emigr.
BL 27502 20683 235328 16536 2254 18790 11,69% 7,98%
UD 66880 44030 726445 33708 10345 44053 9,21% 6,06%
VI 26047 13258 520235 14268 5145 19413 5,01% 3,73%
PD 10679 5720 528970 8877 1658 10535 2,02% 1,99%
VR 9663 4094 486274 9902 2308 12210 1,99% 2,51%
VE 4555 2850 467157 3149 529 3678 0,98% 0,79%
RO 1355 537 261771 2265 1068 3333 0,52% 1,27%

Senz’altro si trattò di un rientro tumultuoso da luoghi trasformatisi all’improvviso in scenari di guerra verso altri che ne sarebbero presto divenuti a loro volta teatro creando intanto, per alcuni mesi, un ingorgo impressionante di gente priva di lavoro riassorbito e metabolizzato parzialmente solo sul finire del 1914. Dal rovesciarsi del “ritmo normale dell’emigrazione” derivarono ad ogni modo, assieme all’incremento netto della disoccupazione, un macroscopico squilibrio destinato a generare alcune delle proteste antimilitariste più accese verificatesi in Veneto nel periodo della neutralità italiana[107] e al tempo stesso la rivalutazione nostalgica, da parte di molti emigranti, dei paesi già di accoglienza dove pure essi erano stati fatti oggetto molte volte di discriminazioni perché considerati soggetti pericolosi, rumorosi, arroganti, da guardare con sospetto ecc.[108], ma dove avevano anche trovato quasi sempre il modo di occuparsi con profitto. Se all’estero, nei paesi belligeranti, non mancarono sulle prime, anche ai danni dei veneti, “gravi fenomeni di intolleranza” e se un diffuso disagio penalizzò molti di loro innanzitutto in Austria e in Germania (ma pure in Francia e nella Svizzera tedesca)[109], d’altro canto fra i lavoratori rimpatriati, dopo anni trascorsi lontano da casa, e massime nelle province montane ai confini con l’Impero asburgico (dove sino all’ultimo si lavorò alle fortificazioni austriache anche grazie all’ausilio di manodopera italiana “rimpatriata”), si manifestarono e sovente prevalsero atteggiamenti di netto rifiuto della guerra[110]. E non furono pochi coloro che pensarono di poter esprimere le ragioni del proprio risentimento per l’improvvisa fine dell’emigrazione con motivi di protesta antimilitarista misti a una sorta di singolare gratitudine verso i paesi che in passato li avevano più volte “ospitati”. Durante la guerra, quanti erano rimasti a vivere all’estero in nazioni tenutesi alla larga dal conflitto come l’Argentina o, sin quasi alla sua conclusione, il Brasile ebbero, soprattutto a San Paolo e nel Rio Grande do Sul, alcuni attriti ‒ modesti, ma significativi ‒ con gli immigrati trentini che si schierarono invece, il più delle volte, a fianco della duplice monarchia[111]. L’opzione genericamente filo italiana della maggioranza degli immigrati veneti fu comunque abbastanza evidente anche se non si tradusse poi, tra i maschi in età di farlo, nella scelta (compiuta infatti da pochi tra i loro figli o nipoti) di rimpatriare per arruolarsi nel Regio Esercito foss’anche solo nei momenti in cui le montagne e intere zone delle Venezie stavano rischiando di cadere nel 1916 (o cadevano di fatto nel 1917) in mano al nemico e quando all’esperienza antica dell’emigrazione si sovrapponeva dolorosa, ad esempio nell’Altipiano di Asiago e in Friuli, quella del profugato delle popolazioni civili. Segnalato di passata il dettaglio, è necessario rilevare come all’indomani dell’armistizio e delle conferenze di pace il desiderio e il bisogno di emigrare si riproponessero da subito pressoché immutati, per dirla con l’incipit d’una canzone, “ fra il ‘19 e l’anno ‘20” in un contesto profondamente però alterato e in cui anche il Trentino entrava infine a far parte del Regno alla vigilia del biennio rosso e dei grandi cambiamenti economici e politici determinati dall’affermazione dei partiti di massa ma anche dall’ascesa, divisiva e bellicosa, del fascismo.

L’eredità della stagione giolittiana di riforme che, accudendolo da presso, avevano come incapsulato il movimento dell’emigrazione regionale in una complessa rete di istituti pubblici e privati d’orientamento diverso ma tutti indirizzati a sostenere sul piano informativo/burocratico ed anche sindacale e assistenziale gli emigranti “regnicoli” (il Regio Ufficio dell’emigrazione per il Veneto insediato a Treviso, gli Uffici provinciali del lavoro, i segretariati socialisti, le “‘opere” cattoliche e missionarie, le associazioni di tutela parrocchiali più numerose proprio nel Veneto “bianco” ecc.[112]) aveva conferito da ultimo un ruolo fuori dell’ordinario al Commissariato Generale dell’emigrazione (il Cge istituito dalla fondamentale Legge 21 gennaio 1901) diretto adesso da Giuseppe De Michelis e da lui piegato a rigide finalità di controllo e di gestione “dall’alto”. La razionalizzazione e la centralizzazione dei pubblici servizi parve entrare in rotta di collisione, in un primo momento, con le politiche liberiste del ministro veronese Alberto De Stefani privilegiate dal governo presieduto dopo la Marcia su Roma da Mussolini che personalmente affettava a parole la massima attenzione verso gli emigranti intesi però come “buoni lavoratori” minacciati dal restrizionismo straniero (soprattutto statunitense) e quindi da professionalizzare e da istruire a dovere per poterne “inviare in America” ancora molti “al punto di vista tecnico specializzati e dal punto di vista sociale tranquilli”. Un obiettivo, questo, difficile da conseguire fin tanto che le condizioni economiche e del mercato internazionale della forza lavoro fossero rimaste quelle delineatesi proprio all’inizio degli anni Venti. Misurato statisticamente, su impulso del governo, dagli uffici romani del CGE lo squilibrio sempre più vistoso in Italia tra domanda e offerta d’impiego si era infatti allora consolidato un po’ dovunque. Nelle Venezie, in particolare, possidenti e prefetti auspicavano pubblici provvedimenti di sostegno mirati, ma soprattutto una ripresa, “incentivata” in ogni maniera possibile, delle antiche correnti di espatrio. La natura di una tale aspirazione che non riusciva a trasformarsi in concreto progetto sottovalutava le capacità autoregolatrici del fenomeno ma non era del tutto velleitaria anche se le autorità ora alle prese con le rivendicazioni di tanti reduci illusi dagli slogan sulla “terra ai (soldati) contadini” e, per altri versi, con le pretese del nascente “fascismo agrario” realisticamente si rendevano poi conto per prime, come notava ad esempio un Prefetto veronese, che “le mutate condizioni di parte dell’Europa Centrale, ove prima della guerra si dirigeva di preferenza l’emigrazione, specie la temporanea” avrebbero reso difficile ricostituirvi in breve tempo “quello stato di fatto che in passato rendeva facile l’assorbimento della sovrappopolazione [locale] da parte della Svizzera e della Germania”. Di qui l’incremento conosciuto da destinazioni, come il Belgio e la Francia, in passato meno frequentate da veneti e friulani. Complice a partire dal 1921 l’inasprirsi della crisi occupazionale postbellica che l’aveva collocato al terzo posto nella classifica di sofferenza nazionale dietro a Lombardia ed Emilia (mentre sino al 1925 proprio grazie all’emigrazione il Trentino sarebbe stato “una delle province italiane in cui la disoccupazione era più contenuta”[113] ), il Veneto fu poi la regione “più lenta a riaversi” ma anche quella nella quale si ebbe il maggior incremento della mobilità interregionale[114] mentre si ribadiva pure qui, e non solo nel sud della penisola, la tendenza a considerare ancora l’emigrazione all’estero quale ideale “valvola di sfogo” ed unica praticabile via d’uscita dalle difficoltà del momento che ben presto, inoltre, presero a complicarsi a causa della concomitante chiusura degli sbocchi emigratori americani[115]. Nel corso della decade 1920 sul cui finire essa si materializzò, dopo gli USA che ne erano stati i battistrada, persino in Brasile e in Argentina (dove sino al 1928, pur tra dubbi e polemiche[116], erano ancora tornati a dirigersi singolarmente o in gruppi, talvolta pure folti, molti veneti e friulani in alternativa proprio agli Stati Uniti e alle nuova mete dal Canada all’Australia[117]) vennero compiuti vari tentativi al fine di sottoscrivere trattati bilaterali con paesi potenziali “importatori” di manodopera italiana ad esempio mediante accordi mirati dei quali si discusse tra le altre cose nel I Convegno Triregionale per l’Emigrazione, tenutosi a Padova nel luglio del 1923, per bocca di relatori come il feltrino Giacomo Guarnieri e il trentino Piero Pedrotti, ma anche attraverso l’effettiva attivazione di contratti ideati su misura per le nostre cooperative[118]. I più vantaggiosi di tali contratti, tra i pochi stipulati nel 1924, riguardarono non a caso le cooperative venete e friulane, di cui fu caldeggiata, come a Tolmezzo ad opera del “federale” Piero Pisenti, la politicizzazione in senso fascista, un destino che attendeva, a priori o meglio sulla carta, anche gli insediamenti coloniali coevi tentati in America Latina su iniziativa del gerarca marosticense Ottavio Dinale da piccoli gruppi di emigranti friulani come quelli goriziani e isontini fissatisi a Villasboas nel dipartimento uruguaiano di Durazno e altri ancora studiati da Pantaleone Sergi[119]. La maggior parte di queste imprese, dopo il conseguimento di alterni risultati, finirono tuttavia per abortire o per confondersi tutt’al più nell’azione sviluppata da enti governativi di nuovo conio come l’Istituto nazionale di credito per la Cooperazione mentre per altri ambiti o settori rimase prevalente l’iniziativa privata come accadde più spesso e più facilmente in Francia.

La disponibilità del vicino paese, spopolato dalla guerra in molte sue regioni, a ricevere in grande quantità coloni e in genere manodopera rurale (e operaia) straniera, che per l’Italia proveniva di solito, storicamente, dal Piemonte, fu tempestivamente sfruttata da numerosi agricoltori e lavoratori sia bergamaschi che veneti. Questi ultimi, per alcuni anni, si ritrovarono anzi all’avanguardia di un movimento di esodo piccolo-proprietario nel sudovest francese[120] inizialmente guardato con preoccupazione, ma alla fine anche lasciato scorrere dalla polizia e dai prefetti, forse perché fortemente sostenuto dalla Chiesa e dall’Opera Bonomelli[121], istituzione “benemerita” che nel 1928, tuttavia, proprio il regime decise, quasi di punto in bianco, di sopprimere[122] come del resto fece subito appresso anche con il CGE sostituito qualche tempo più tardi, nel 1931, da un inedito Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna[123], meglio corrispondente o più conforme all’idea fascista degli emigranti quali “italiani all’estero”[124], rilanciata dall’obiettivo rarefarsi, per quanti avessero nutrito l’eventuale intenzione di sfruttarle, delle tradizionali occasioni d’impiego tanto in Europa quanto in America e già comunque superata dalla netta preferenza accordata da Mussolini agli esperimenti d’ingegneria “coloniale” che si sarebbero concretizzati più “in grande” nelle terre di bonifica della penisola durante i successivi anni Trenta. Il sospetto che “ambigui risvolti motivazionali” si fossero insinuati tra le cause dei flussi provenienti dalle Venezie e diretti in Francia fu coltivato, non senza ragioni, dagli organismi polizieschi di controllo del regime mussoliniano benché l’incedere della ricerca a questo proposito abbia chiarito ancora di recente come verso il paese transalpino, rimasto quasi unico tra quelli europei in grado di accogliere forza lavoro straniera entro i propri confini, si fossero davvero diretti, nell’entre-deux-guerres, quali figure miste, sia normali emigranti economici sia non pochi sovversivi e antifascisti militanti. Dal 1919 al 1939, ad esempio, tra quelli di loro presenti in Francia stando ai rilievi degli estensori del Casellario Politico Centrale, su 21.671 schedati per l’intera Italia, i veneti sarebbero stati 1.863 a conferma del fatto, avallato anche da altre cifre (per gli Stati Uniti 215 su 6.485, per la Svizzera 286 su 2.890, per l’Argentina 170 su 2.863 ecc. pari al 7,5% del totale nei paesi d’accoglienza ossia 3.496 su 46.276 )[125] che gli “esuli” veneti facevano parte a pieno titolo, come “profughi d’Italia”, per dirla stavolta con versi di Pietro Gori, del più ampio contingente immigratorio nazionale. Un contingente che per quanto concerneva l’insieme generale dei migranti rimase ad ogni modo rilevante sino al 1931: tenuto conto della diversa ampiezza della popolazione e delle ripercussioni tra il 1929 e il 1932 della prima grande crisi economica che determinò dal 1933 al 1940 un calo verticale delle partenze per l’estero (sia dall’Italia che dal Triveneto) la situazione statistica delle Venezie, comprensiva infine, dal 1921, anche dei dati relativi al Trentino, si prospettava come descritto in queste tabelle elementari e sommariamente riassuntive:

La popolazione del Triveneto

Popolazione del Veneto ai censimenti del 1921 e del 1931
dicembre 1921 3.318.532
aprile 1931 3.487.109
Popolazione del Friuli ai censimenti del 1921 e del 1931
dicembre 1921 1.178.485
aprile 1931 1.175.584
Popolazione del Trentino ai censimenti del 1921 e del 1931
dicembre 1921 660.847
aprile 1931 666.283

Emigranti del Triveneto per regioni d’origine 1919-1931

Anno Trentino Veneto Friuli Venezia Giulia Triveneto
1919 0 10.852 4.531 15.383
1920 0 33.780 26.857 60.387
1921 3.026 10.335 24.598 37.979
1922 2.932 26.675 38.061 66.678
1923 6.803 43.744 42.681 93.228
1924 8.925 53.539 40.461 102.925
1925 5.848 39.905 29.525 75.278
1926 4.790 32.550 24.463 61.803
1927 5.263 24.918 20.977 51.158
1928 2.356 13.242 17.756 33.754
1929 3.076 17.213 23.233 43.522
1930 6.246 25.349 26.048 57.643
1931 4.214 16.813 18.616 39.643

L’attenzione pressoché morbosa prestata alle opinioni o alle posizioni politiche degli emigranti dai nuovi detentori del potere si confermò pour cause persino nella selezione che essi, anche attraverso il neonato “Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna”, cercarono di attuare sforzandosi di promuovere nel corso della decade 1930, con l’apporto di tecnici di valore (Serpieri, Petrocchi, Beneduce ecc.), assieme a una vasta opera di bonifica erede di quella già intrapresa in Veneto e Friuli tra la fine del secolo precedente e i primi anni Venti, la messa a coltura di terreni così ricavati negli agri laziali, in Sardegna e lungo le coste tirreniche in vari punti della penisola. E anche qui la maggioranza dei contadini e dei lavoratori impiegati prima come operai (scariolanti) e poi come coloni furono fatti arrivare (o giunsero per conto proprio) soprattutto dalle province venete, previa, però, una sommaria valutazione della loro affidabilità ideologica[126]. Il processo di colonizzazione interna e delle “città di fondazione” che ne scaturirono, affidato all’Opera Nazionale Combattenti e collegato alla logica autarchica delle battaglie del grano avviate in tutto il paese intorno alla metà degli anni Venti, era stato ovviamente approvato e condiviso da Mussolini che lo sostenne anzi, enfaticamente, esaltandolo sempre con estremo vigore[127], specie nell’Agro Pontino e nel suo cuore urbano a Littoria, l’odierna Latina, mentre gli uomini, le donne e i gruppi familiari chiamati in vari modi a popolarne le campagne man mano “redente” e i borghi intitolati ai luoghi “sacri” della Grande guerra, provenivano in effetti, assieme a emiliani e romagnoli, in larga prevalenza dal Friuli e dal Trentino (sia a Latina che ad Aprilia assieme ai “reduci” dalla Bosnia e dalla Romania o nell’Agro Romano a Pomezia), ma soprattutto dal Veneto euganeo[128]. Veneti poi furono quasi compattamente coloro che non solo a Pontinia e a Sabaudia o di nuovo nell’Agro Romano a Maccarese, ma anche a Carbonia e ad Arborea in Sardegna o ad Alberese in Toscana concorsero a forgiare nuove realtà offrendo tuttavia le basi ovvero i pretesti per la rigenerazione di un mito ruralista corroborato dalla persistenza di usanze, di parlate e di dialetti dell’Italia nordorientale. Esso inglobò da subito, comprensibilmente, il mito paterno del Duce[129] e al pari di quello brasiliano/gaúcho del Rio Grande do Sul venetizzato (nonché ricollocato in parallelo anche da alcuni studi accademici su città “lontane ma gemelle” come Farroupilha – ex Nuova Vicenza ‒ e Latina[130]), finì per ribadire e delimitare, ancora una volta grazie all’emigrazione, i confini o i contorni di una particolare interpretazione dell’identità regionale[131] non priva tuttavia di contraddizioni e passibile infatti di narrazioni autobiografiche diverse tanto romanzesche quanto teatrali come quelle, in continuità paradossale tra loro, dei due Pennacchi, l’Antonio “fasciocomunista” di Latina autore di Canale Mussolini (d’origini polesane per parte di madre) e l’Andrea padovano attore e inventore ai giorni nostri di Pojana e i suoi fratelli e delle saghe, a “Propaganda Live”, di un immaginario Pojanistan (sc. il Veneto contemporaneo).

Guardando un po’ meglio dentro alla storia dei movimenti emigratori, ad ogni modo, si potrebbero cogliere lo stesso alcuni presupposti di tali contraddizioni anche solo facendo caso alla composizione iniziale dei nuclei familiari portatisi ad esempio nell’Agro Pontino e provenienti in ordine dalla Marca Trevigiana (340), dal Friuli (308) e dalle province di Padova (276), di Rovigo (233), di Vicenza (228), di Verona (220), di Venezia (114) e di Belluno (29) dove l’esiguità degli ultimi due contingenti rimandava non tanto a una condizionante matrice lagunare o montana dei rispettivi bacini di reclutamento quanto al timore di poter incappare nell’attingervi, data la larga incidenza al loro interno di socialisti e comunisti o quanto meno di soggetti politicizzati e “avversi al regime”, in emigranti per così dire “problematici”. Nel quadro di una stagione marcata prima dall’affievolirsi progressivo, eccettuate le destinazioni francesi, delle usuali correnti di espatrio e poi, una volta scoppiato il Secondo conflitto mondiale, dalla loro inevitabile scomparsa, una ripresa significativa del “modello pontino” ovvero dell’emigrazione diretta e regolata dall’alto che ne aveva preso il posto surrogandole solo in minima in parte, fu costituita fra il 1937 e il 1943 (con trascinamenti sporadici e individuali sino al 1945) dall’invio in Germania, concordato dal governo di Mussolini con quello nazionalsocialista hitleriano, di circa mezzo milione di lavoratori italiani[132] da occupare pro tempore nelle campagne e nelle fabbriche tedesche. Di questo corposo spostamento di uomini “guidato” dai sindacati fascisti “a passo romano”[133], è necessario fare parola sia perché da un lato fu, in quel breve arco di tempo, l’unico esempio di “uscita” consistente di forza lavoro veneta e friulana per l’estero sia perché, da un altro, inaugurò un metodo che, riveduto, “migliorato” e corretto, una decina di anni più tardi si sarebbe ritrovato alla base degli accordi stipulati dal governo repubblicano di Roma con quello democratico di Bonn per orientare verso la Germania occidentale, dopo il 1955, il maggior flusso emigratorio italiano dell’intero dopoguerra. Anche a prescindere dalla connotazione ideologica dell’operazione oltre a quanto essa implicò per tutto il resto (clausole d’ingaggio unilaterali e presto deteriorate, rapido peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei migranti in camicia nera o in sahariana blu, anticipazioni dei salari sempre più spesso a carico dell’Italia ecc.) si può ben dire che rappresentò “il primo passo dell’alleanza militare” con l’Italia fascista “perseguita da Hitler e sancita nel 1939”[134].

  1. Dopo la Seconda guerra mondiale

Al netto delle vicissitudini a cui andarono incontro gli emigranti non solo a causa degli eventi bellici, si trattò d’un caso forse a sé stante ma molto emblematico di una altrettanto emblematica congiuntura. Nel suo svolgersi, specie dopo l’estate fatale del 1943, tra fabbriche e campagne (o tra campi di lavoro e campi di concentramento), sotto l’occhio vigile di autorità prima sindacali e poi sempre più spesso militari, con il solo supporto di un clero missionario “nazionale” preparato per assistere gli emigranti “americani” e sbalzato invece, proprio malgrado, come gli scalabriniani di Bassano (veneti in 8 casi su 10), in un territorio molto vasto ormai flagellato ovunque dalla guerra, si consumava una delle più complicate e controverse incarnazioni della parabola immigratoria dei lavoratori friulani e veneti in terra straniera come si potrebbe ricavare a mo’ d’esempio dalla storia di vita di uno di loro, l’operaio trevigiano Luigi Meneghel, quasi omonimo dello scrittore maladense, ma vent’anni più giovane di lui, prima sovversivo, poi simpatizzante fascista e giunto carico di aspettative in Germania nel 1941, fissatosi nel 1942 a Berlino ma rimpatriato solo nell’agosto del 1945 avendo nel frattempo cambiato di nuovo idea politica ed essendosi quindi “riconvertito” al comunismo[135]. Di cinque anni passati in Germania da immigrato/alleato Meneghel rammenta nella propria autobiografia ben poche cose in dettaglio dalle quali si capisce tuttavia quanto precarie fossero state le sue condizioni e quanto particolare fosse risultata, in definitiva, l’esperienza dei nostri fremdarbeiter nel Reich nazista. Anch’essa, pur nella evidente eccezionalità del contesto, confermava tuttavia, con gradazioni diverse, il peso delle nuove caratteristiche assunte dal fenomeno migratorio del Novecento già dopo la conclusione del precedente conflitto mondiale e dimostratesi frutto di una stessa logica: sempre più lontani dall’epoca in cui aveva prevalso su scala continentale, quasi per tutti, la piena libertà di muoversi e di oltrepassare le frontiere per lo più senza bisogno di autorizzazioni, di “carte” e persino di passaporti, gli emigrati temporanei, orfani anche loro del “mondo di ieri” amaramente rimpianto nel 1941 a Petropolis nei suoi ricordi da Stefan Zweig esule in Brasile, sperimentavano la rigidità di un metodo teso adesso a controllare e a orientare in ogni suo passaggio l’atto dell’espatrio e dell’inserimento all’estero di chi avesse voluto o si fosse trovato (leggi costretto) a compierlo. Quella dell’emigrazione “assistita” e orientata era, in certo modo, una eredità del dirigismo di guerra presente o da poco trascorso e pour cause assorbito senza grande sforzo innanzitutto dagli apparati di regime degli Stati totalitari, ma destinato a ripresentarsi con minime variazioni pure altrove a distanza di appena pochi anni. Un sistema di accordi bilaterali presiedette infatti anche alla confusa ripresa delle correnti emigratorie italiane verificatasi già tra la fine del 1945 e il 1946 verso la Francia, il Belgio e il Lussemburgo e subito dopo verso la Svizzera (che da allora e per più di vent’anni avrebbe assorbito quasi il 50% dell’emigrazione in uscita dalla penisola[136]), ma inizialmente soprattutto nel senso che consentì a tutti questi paesi, che maggiormente ora ne beneficiavano, di regolare a proprio vantaggio (e a proprio piacimento) l’entità e la tempistica degli ingressi e soprattutto il loro costo finale nonostante le perplessità della Cgil unitaria e degli altri nuovi sindacati, ma venendo incontro, sotto sotto, alle diffuse aspettative del ceto politico italiano, non solo di governo (si pensi anche solo alla scelta emigrazionista del Pci[137]), che da Roma, seguendo le raccomandazioni di un premier trentino come De Gasperi e di alcuni suoi ministri e collaboratori veneti come il giovane Mariano Rumor, auspicava caldamente che l’antico esodo potesse rianimarsi e addirittura, quanto prima, irrobustirsi[138]. Un obiettivo, questo, che nel breve periodo fu raggiunto a livello nazionale soltanto in parte con il concorso decisivo, però, delle partenze dal Triveneto le quali da sole tra il 1946 e il 1955 coprirono oltre la metà del totale di tutto il centro nord[139]. Se nel primo quindicennio del Novecento, è stato osservato “il saldo migratorio italiano aveva superato le quattrocentomila unità annue, quello del primo decennio postbellico a stento [giunse a toccare] le cento trentamila unità e ciò a fronte di ben il 49 per cento della popolazione maschile adulta che – come rilevavano sin dal 1946 i sondaggi d’opinione della Doxa – desiderava ardentemente emigrare” [140].

Emigranti del Triveneto per regioni d’origine 1946-1958

Anno Trentino Veneto Friuli

Venezia

Giulia

Triveneto
1946 2.749 28.009 10.158 41.316
1947 5.487 54.769 21.207 81.463
1948 6.353 60.193 24.474 91.020
1949 3.695 37.569 17.178 58.442
1950 2.819 26,798 14.389 44.006
1951 5.218 47.455 22.308 74.981
1952 4.449 47.773 17.126 69.348
1953 3.417 38.898 14.631 56.946
1954 2.703 30.576 15.630 48.909
1955 3.050 35.197 21.228 59.475
1956 3.598 39.813 20.099 63.510
1957 3.181 36.957 19.033 59.171
1958 2.345 27.929 12.615 42.889

 

Ai lavoratori piemontesi, lombardi e di altre zone del Nord Italia che erano sempre state un tradizionale serbatoio di forza lavoro per l’economia transalpina, per quella svizzera o, più di recente, per l’industria estrattiva carbonifera belga, non costituì certo una sorpresa che si aggiungessero dunque, in buon numero, gli emigranti veneti e friulani privati di ogni ipotetico sbocco centro europeo ed espatriati in Francia anche loro spesso a piedi, e quindi non di rado clandestinamente, attraverso il Piccolo San Bernardo, il Frejus e gli altri valichi alpini[141]. Pur con tutte le limitazioni del tempo in cui esso aveva cominciato a delinearsi tra le due guerre, il loro radicamento era già stato piuttosto significativo oltre che nel Sud Ovest agricolo e in altri punti dell’Hexagone soprattutto a Parigi e nell’Île-de-France come successe, tanto per fare un esempio fra molti, a Grigny, nel Dipartimento dell’Essonne, dove già negli anni Venti si erano stabiliti parecchi lavoratori dell’Alto Vicentino e di altre province del Veneto che nel 1931 fornivano, assieme, più della metà della popolazione locale. Anche questo tipo di presenza per quanto sporadica aveva “aiutato” consentendo qui ed altrove che si attivassero da subito, dopo la fine dell’ultima guerra, alcune elementari catene emigratorie entrate in funzione con qualche anticipo rispetto alla stessa firma, nel febbraio del 1946, del “primo limitato trattato migratorio” tra l’Italia e la Francia con il quale si concordava l’assunzione di ventimila minatori, una categoria ben presto destinata a irrobustirsi nelle analoghe trattative intercorse col Belgio nel giugno dello stesso anno in virtù di clausole umilianti (un sacco da 200 chili di carbone all’Italia per ogni immigrato) e mai più dimenticate [142]. Tra il 1946 e il 1947 amplissimo spazio venne fatto sulla stampa di tutto il Triveneto a questo risveglio emigratorio carico di speranze ma anche, come al solito, di sofferenze e documentato da cifre eloquenti riassunte ad esempio, tra l’altro per difetto, dal “Gazzettino”[143]. Esso non riguardò solo mete europee bensì pure, a partire dal 1947, l’America Latina e più in particolare l’Argentina di Peron verso cui si volsero sino al 1949 piuttosto che in Brasile ‒ in qualcuno dei cui Stati (Bahia, Minas Gerais, São Paulo) vennero fatti peraltro, tra il 1950 e il 1954, vari tentativi di colonizzazione agraria quasi tutti però falliti ‒ le principali correnti immigratorie provenienti dal Veneto, dal Friuli e dal Trentino grazie alla regia (e ai finanziamenti) del CIME, il Comitato intergovernativo per l’emigrazione europea[144]. Altri accordi che spianarono la strada dell’estero lontano (nel 1947 del Canada, nel 1951 dell’Australia e del Venezuela) non solo ai veneti o ai trentini (alcuni dei quali emigrati nel 1949 in Cile), ma anche ai friulani[145] e soprattutto ai triestini e ai profughi giuliani i quali in 250.000 abbandonarono l’Istria per una diaspora tanto forzosa quanto dolorosa e drammatica[146], concorsero a definire il quadro della situazione emigratoria triregionale nella prima metà degli anni Cinquanta della cui entità danno un’idea i numeri elementari delle statistiche ufficiali e delle cui problematiche, come già dell’esodo istriano, si occupò in veste di responsabile della Direzione generale dell’emigrazione alla Farnesina l’ambasciatore veronese Justo Giusti del Giardino. Dopo quattro anni di accorta gestione – dal 1951 al 1954 – non fu lui tuttavia che si trovò a sovraintendere al nuovo corso dei rapporti tra Roma e Bonn per l’introduzione di forza lavoro italiana in Germania occidentale attraverso tre porte o centri di raccolta e di smistamento uno dei quali dislocato proprio a Verona[147].

Punto chiave o, se si preferisce, di svolta, assieme alla perdurante attrattività della Svizzera, per l’emigrazione italiana dopo il diradarsi dei flussi verso la Francia e dopo il crollo, seguito alla tragedia di Marcinelle, di quelli diretti in Belgio, fu dunque il ripristino delle relazioni italo tedesche pattuito nel dicembre del 1955. Esso inaugurò un periodo per molti versi cruciale in materia d’immigrazione nel vecchio continente destinato a durare almeno altri vent’anni durante i quali si verificarono numerosi e poderosi cambiamenti a cominciare ovviamente dall’avvio nel 1958 del processo di unificazione europea. Esso agevolò di lì a non molto, negli anni del miracolo economico italiano, la vistosa trasformazione del nord del paese che, compreso stavolta il Triveneto, migliorò decisamente le proprie condizioni e le proprie strutture produttive inizialmente anche grazie alla meridionalizzazione dei flussi, sia interni che diretti all’estero. In tale contesto il Trentino, forte dal 1948 di una larga autonomia (ribadita e irrobustita nel 1972) diminuiva man mano il proprio apporto alle correnti triregionali in uscita dalla penisola, differenziandosi così dal Friuli e dal Veneto da dove sino almeno all’inizio degli anni Settanta, continuarono invece a prodursi e a riprodursi, sia pur anche qui in calo progressivo dopo il 1966, le partenze verso paesi stranieri ormai quasi esclusivamente europei (nonostante la riapertura nel 1964, dopo quarant’anni, dei confini statunitensi) e anche se si era fatta sempre più sensibile, tra le decadi 1950 e 1960, l’incidenza di altri tipi di emigrazione non ultima quella interna con il concorso massiccio di donne e di ragazze (per lavori stagionali come quello delle mondariso sino alla fine degli anni Cinquanta, ma poi sempre più spesso per impieghi e lavori di fabbrica nel fiorente triangolo industriale) smentendo stereotipi e luoghi comuni modellati sulla base di precedenti esperienze ma ancora rilanciati dalla cinematografia coeva sui veneti e sui friulani in patria e all’estero (o meglio sulle venete e sulle friulane passate da balie a serve domestiche per antonomasia)[148], cui reagivano, però, quanto meno i nuovi animatori dell’associazionismo emigratorio e postemigratorio sorto non solo in Friuli a rinforzo dei preesistenti Fogolars Furlans o delle Fameis Furlanis, dopo la nascita a Udine dell’Ente “Friuli nel Mondo”, ma anche in tutte le province venete, tra il 1953 e il 1972 (con i “Vicentini nel Mondo”, i “Bellunesi nel mondo”, i ”Trevisani nel mondo” ecc.) talora per impulso di preti e di sindacalisti, ma di regola sempre a ridosso delle Camere di Commercio e del potere politico democristiano o, tra il 1998 e il 2002 e sino ad oggi, con i “Veneti nel mondo” all’ombra di quello leghista. La loro esistenza e il loro attivismo, tramite una stampa dedicata, influirono progressivamente sui lasciti memoriali dell’antica emigrazione e sui modi stessi di emigrare dal Veneto e dal Friuli una volta diminuite e, dopo il 1975, addirittura spente le “tradizionali” correnti di espatrio regionali in attesa peraltro che se ne ripresentassero, all’alba del nuovo millennio, delle significative reviviscenze – modificate per tipologie ma numericamente non trascurabili ‒ ormai però in coabitazione, da quarant’anni in qua, e in tutte le Venezie, con una massiccia immigrazione straniera[149].


[1]           Emilio Franzina, Storia dell’emigrazione veneta dall’Unità al Fascismo, Caselle di Sommacampagna (VR), Cierre edizioni, 2005.

[2]           Michele A. Cortelazzo, Appunti su Venezia, Venezie e Veneto, a cavallo del Novecento, in particolare nell’uso dei linguisti, in «L’ornato parlare». Studi di filologia e letterature romanze per Furio Brugnolo, Padova, Esedra, 2007, pp. 787-796, e Valeria Mogavero, La Venezia e le Venezie: retrovie ideologiche della Grande guerra, “Venetica”, 2017, n. 2, pp.137-158.

[3]           Il Veneto. Storia della popolazione dalla caduta di Venezia a oggi, a cura di Gianpiero Dalla Zuanna, Alessandro Rosina e Fiorenzo Rossi, Venezia, Marsilio, 2004.

[4]           Gianpiero Dalla Zuanna e Marzia Loghi, Popolazione e popolazioni. Studi territoriali preliminari alla storia della popolazione veneta (1856-1911), Padova, Cleup, 1997.

[5]           Pur con le distinzioni sui generi di vita preindustriali già individuate per il Friuli da Olinto Marinelli e poi precisate da Giuseppe Barbieri (cfr. Francesco Micelli, Emigrazione friulana (1815-1915), “Qualestoria”, 1982, n. 3, p. 8).

[6]           Pietro Pedrotti, Superstiti caratteristiche correnti dell’emigrazione trentina, Trento, Scottoni & Vitti, 1923.

[7]           Passati poi in puntuale rassegna da Renzo M. Grosselli, L’emigrazione dal Trentino dal Medioevo alla Prima guerra mondiale, Trento, Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina, 1998, pp. 17-50.

[8]           Oltre che dagli studiosi dell’universo alpino e del colportage in età modena (Merzario, Albera, Viazzo, Guichonnet, Fontaine ecc.) in particolare da Elda Fietta Ielen, Con la casséla in spalla. Gli ambulanti di Tesino, Ivrea, Priuli & Verlucca, 1987. e dagli storici dell’immaginario come Gian Piero Brunetta, Il viaggio dell’icononauta. Dalla camera oscura di Leonardo alla luce dei Lumière, Venezia, Marsilio 1997.

[9]           Cfr. Umberto Corsini, Per uno studio del fenomeno migratorio trentino nella prima metà del secolo XIX, in Atti del I Convegno storico trentino: relazioni fra il Trentino e le province veneto-lombarde nel secolo decimonono, Rovereto, Manfrini, 1955, pp. 117-139, e Casimira Grandi, Verso i paesi della speranza. L’emigrazione trentina dal 1870 al 1914, Abano Terme, Francisci Editore, 1987, pp. 215-216. Una certa difficoltà di ottenere dati statistici riguardanti espressamente l’emigrazione temporanea trentina da mettere a confronto, almeno sino al 1865, con quella coeva veneta e friulana dipende dall’esiguità dei rilevamenti specifici ad opera delle autorità austriache tanto più lamentabile quanto più in contrasto con l’abbondanza d’informazioni assicurata invece su altri aspetti dell’analisi demografica sui movimenti della popolazione nelle diverse province dell’Impero (cfr. Fiorenzo Rossi e Antonio Zanolla, La popolazione del Veneto e del Tirol-Vorarlberg nelle Tafeln zur Statistik der Österrechischen monarchie (1827-1865), Padova, Cleup, 2011, p. 21).

[10]          Bernardino Frescura, L’altopiano dei Sette Comuni vicentini. Saggio di monografia geografica, Firenze, Tipografia M. Ricci, 1894.

[11]          Per la plausibilità di una fonte letteraria come la Storia di Tönle (Torino, Einaudi, 1978) anche ai fini di una concreta conoscenza dei fenomeni migratori nell’Altopiano di Asiago in età contemporanea, cfr. Mauro Varotto, Altopianesi nel mondo: la diaspora emigratoria tra Otto e Novecento, in L’Altopiano dei Sette Comuni, a cura di Id. e Patrizio Rigoni, Caselle di Sommacampagna (VR), Cierre edizioni, 2009, pp. 312-323.

[12]          Mario Rigoni Stern, Dall’Altipiano verso l’Europa centrale, in Col bastone e la bisaccia per le strade d’Europa. Migrazioni stagionali di mestiere dall’arco alpino nei secoli XVI-XVIII, Bellinzona, Edizioni Salvioni, 1991, pp. 155-162.

[13]          Cfr. Gino di Caporiacco, L’emigrazione dalla Carnia e dal Friuli, Udine, Ente Friuli nel Mondo, 1983, e soprattutto Alessio Fornasin, Ambulanti, artigiani e mercanti. L’emigrazione dalla Carnia in età moderna, Caselle di Sommacampagna (VR), Cierre, 1998.

[14]          Giorgio Ferigo e Alessio Fornasin, Le stagioni dei migranti. La demografia delle valli carniche nei secoli XVII-XVIII, in Cramars. Atti del convegno internazionale di studi su “Cramars. Emigrazione, mobilità, mestieri ambulanti dalla Carnia in Età moderna, a cura di Iid., Udine, Arti Grafiche Friulane 1997, p. 100.

[15]          Paul-André Rosental, Paure e statistica: l’esodo rurale è un mito?, “Quaderni Storici”, 1991, n. 3, pp. 845-873.

[16]          Laurence Fontaine, La costruzione delle identità sociali nell’epoca moderna. Il caso dei venditori ambulanti, in Identità regionali nelle Alpi, a cura di Stuart Woolf e Agostino Amantia, nr. monografico di “Protagonisti”, 73 (1999), pp. 27-37.

[17]          Giorgio Ferigo, “La natura de cingari”. Il sistema migratorio dalla Carnia durante l’età moderna, in Le cifre, le anime. Scritti di storia della popolazione e della mobilità in Carnia, a cura di Id. e Claudio Lorenzini, Udine, Forum, 2010, pp. 121-137.

[18]          Mistrùts. Piccoli maestri del Settecento carnico, a cura di Giorgio Ferigo, Udine, Forum, 2006.

[19]          Andrea Zannini, Venezia città aperta. Gli stranieri e la Serenissima, XIX-XVIII sec., Venezia, Marcianum Press, 2009, pp. 137-144.

[20]          Caterina Percoto, Lis cidulis. Scene carniche, Trieste, Papsch e C., 1845, citata da Giacomo Zambelli, Economia pubblica – Dell’emigrazione, “L’Amico del Contadino”, 45 (7 febbraio 1846).

[21]          Renzo Derosas, La demografia dei poveri. Pescatori, facchini e industrianti nella Venezia di metà Ottocento, in Storia di Venezia. L’Ottocento e il Novecento, 1797-1918, 2002, a cura di Mario Isnenghi e Stuart Joseph Woolf, VIII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, pp. 711-770.

[22]          Jacopo Bernardi, La pubblica beneficenza ed i suoi soccorsi alla prosperità fisico-morale del popolo, Venezia, Cecchini 1845, p. 143.

[23]          Una variante della “satira dell’emigrante” si riscontra ancora ai primi del Novecento nei versi in dialetto di Gustavo Chiesa, il padre del “martire” Damiano e autore peraltro di studi sulla immigrazione settecentesca dei montanari della Val Badia e di Livinallongo a Rovereto (su di lui cfr. Fabrizio Rasera, Per un ritratto di Gustavo Chiesa (1858-1927), in I “buoni ingegni della patria”. L’Accademia, la cultura e la città nelle biografie di alcuni Agiati tra Settecento e Novecento, a cura di Marcello Bonazza, Rovereto, Accademia Roveretana degli Agiati, 2002, pp. 331-348) il quale così effigia i badioti occupanti dalla metà del ‘700 una serie di povere abitazioni roveretane nel “gran casamento di Via Loreto” (cfr. Cesare Coriselli, I Badioti a Rovereto, “El Campanon”, 1943, pp. 523-526): “Ah i Badioti, l’è ben ‘na pora zent!/Sti stupidi ‘ntratant che noi dormim,/i laora da mati a ‘l fret, a ‘l vent,/ en te le case e sora su ‘l camin/Lori i fa tut e se per azident/se rote qualche roda de molim/o qualcoss’altro che fa moviment/gh’è pront ‘l so badiot come ‘n foim/I vegn da San Giosepe e i va ‘n Badia/i g’a ‘n vestito solo e do, tre cepe/e no se i vede mai a l’ostaria […]” (La storia de Roveredo contà da ‘n filator. Zento soneti en dialet roveretam, Rovereto, Libreria Editrice G. Giovannini, 1911, p. 84).

[24]          Per le diverse ripercussioni del sistema ereditario germanico rispetto a quello latino molti sono i rilievi compiuti da Luciana Palla nei suoi studi sulle valli ladine mettendo ultimamente a confronto l’emigrazione nel corso del Novecento dai comuni di Colle S. Lucia, Livinallongo e Rocca Pietore (Movimenti di emigrazione dall’Alto Agordino nella prima metà del Novecento, “Protagonisti”, 118, 2020, ma cfr. altresì Giorgio Mezzalira, Alto Adige – Südtirol: i fenomeni migratori in un’area alpina in età moderna e contemporanea, “Archivio storico dell’emigrazione italiana”, 5, 2009, pp. 167-182).

[25]          Tra le analisi più convincenti della nuova configurazione assunta dalle migrazioni temporanee divenute compiutamente “dopo il 1860 un fenomeno di massa” quelle di Manlio Fracca, allievo alla Bocconi di Milano di Francesco Coletti e laureatosi sotto la sua guida subito dopo la Grande guerra con una tesi (La forza di espansione della popolazione veneta) pubblicata dall’Istituto Federale di Credito per il Risorgimento delle Venezie (Venezia, Officine Grafiche C. Ferrari, 1924, pp. 5-53).

[26]          Sgorlon, peraltro, era stato preceduto nel racconto da vari storici locali, da Lodovico Zanini a Novella Cantarutti, e anche da qualche studioso accademico (cfr. Mario Arpea, Lavoratori friulani in Siberia e Manciuria, “Affari Sociali Internazionali”, 1982, n. 3, pp. 81-108).

[27]          Mirella de Martini Tihanyi, L’emigrazione operaia dalle Venezie e dalla Lombardia alla Slovacchia, Padova, Edizioni Erredici, 1985.

[28]          Su ragazze e ragazzi, “ciode e ciodeti”, dei quali si faceva “un vero e proprio mercato sulla piazza del Duomo a Trento” ovvero, nella parlata e “nel frasario delle popolazioni trentine El marcà dei putei, el marcà de le matelòte” si vedano Lavoro ed emigrazione minorile dall’Unità alla Grande guerra, a cura di Bruna Bianchi e Adriana Lotto, Venezia, Ateneo Veneto, 2000, e Matteo Ermacora, La scuola del lavoro. Lavoro minorile ed emigrazione in Friuli (1900-1914), Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, Udine 1999.

[29]          Cfr. Franzina, Storia dell’emigrazione veneta, cit. ad nomina.

[30]          Alessandro Rosina, Maria Rita Testa e Adelaide Pretato, Non solo emigrazioni: strategie di risposta alla crisi di fine ‘800 in Veneto, “Popolazione e storia, 2000 p. 98. Naturalmente i dati relativi a questo e ad altri fenomeni dovrebbero essere messi in rapporto con le diverse zone altimetriche essendo sino alla fine del secolo XIX, nel caso ad es. della mortalità infantile, ancora più elevati della media in Polesine e nelle basse pianure (cfr. Mila Tommaseo, Contributo allo studio della mortalità infantile del Veneto nell’ultimo secolo (1880-1980), in Trasformazioni economiche e sociali nel Veneto fra XIX e XX secolo, a cura di Antonio Lazzarini, Vicenza, Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa, 1984, pp. 591-595).

[31]          Antonio Lazzarini, Contadini e agricoltura. L’Inchiesta Jacini nel Veneto, Milano, Franco Angeli, 1983.

[32]          Mariarosa Sartorelli, Ai confini dell’impero. L’emigrazione trentina in Bosnia, 1878-1912, Trento, Provincia Autonoma, 1995, e Alessandro Vigevani, Friulani fuori di casa in Croazia e in Slavonia, Udine, Del Bianco, 1950.

[33]          Marco Felicetti e Renzo Francescotti, Sulle ali di una rondine. Storie di migrazioni, [Trento, Cromopress], 2012.

[34]          Su questo mosaico di storie a lungo trascurato dalla storiografia italiana, se non proprio da quella friulana (cfr. Lodovico Zanini, Friuli migrante, Udine, Doretti, 1964, pp. 94-105) molto di più ci sarebbe oggi da dire come si ricava dalla produzione degli ultimi trent’anni per la quale hanno fornito di recente una guida informata Tiziana Tomat (Lemigrazione friulana in Romania nel XIX e XX secolo, “Archivio multimediale della Memoria dell’emigrazione regionale”, www.ipac.regione.fvg.it › index_tree) e ricostruzioni davvero esaustive Olivia Simion (Immigranti italiani nella Moldavia romena tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (1876-1916), tesi di dottorato, Università di Padova, Venezia e Verona, 2018). Cfr. Ecaterina Negruti, Travailleurs italiens en Roumanie avant la première guerre mondiale, “Revue Roumaine d’Histoire”, 1986, n. 3, pp. 225-239; Oscar Gaspari, Una comunità veneta tra Romania ed Italia (1879-1940), “Studi Emigrazione”, 89 (1988), pp. 2-25; Rudolf Dinu, Appunti per una storia dell’emigrazione italiana in Romania nel periodo 1878-1914, in Dall’Adriatico al Mar Nero: veneziani e romeni, tracciati di storie comuni, a cura di Grigore Arbore Popescu, Roma, CNR, 2003, pp. 245-260; Antonio Ricci, Emigranti italiani in Romania. Documenti e testimonianze di una comunità dimenticata, “Studi Emigrazione”, 159 (2005), pp. 661-680; Nicolae Luca, L’emigrazione storica dei friulani in Romania, Villa Santina, Imbellinum, 2006; Roberto Scagno, Paolo Tomasella e Corina Tucu, Veneti in Romania, Ravenna, Longo, 2009.

[35]          Ma anche sollecitata in qualche caso (benché senza successo) da previous migrants magari usciti dalle file dell’esulato risorgimentale come successe con il tentativo di Marco Antonio Canini, un patriota veneziano peraltro letterato e filologo di grande valore, di proporre nell’autunno del 1878 alle autorità di Bucarest la colonizzazione con “elementi italiani” di alcune “parti salubri” della Dobrugia, in procinto allora di essere annessa alla Romania. Un progetto simile fu inizialmente tentato, con alterna fortuna, anche da un proprietario terriero moldavo, Dimitrie Anghel, che nel 1879 appoggiandosi a un reclutatore italiano attivo in Polesine fece in effetti arrivare nelle campagne di Corneşti una cinquantina di famiglie bracciantili originarie quasi tutte di Trecenta in provincia di Rovigo (cfr., nonostante una claudicante traduzione, Alina Dorojan, L’assistenza dello Stato italiano riguardante una colonia agricola italiana di Romania (1879-1941), “Studii şi Materiale de Istorie Modernă”, XXVII (2014), pp. 149-171).

[36]          Cfr. ad es. Sandra Frizzera, Stivor odissea della speranza, Trento, Editrice Innocenti, 1976.

[37]          Bianca Maria Pagani, L’emigrazione friulana dalla metà del secolo XIX al 1940, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1968, pp. 45-120, e Gino Di Caporiacco, Storia e statistica dell’emigrazione dal Friuli e dalla Carnia, Vol. I, Dall’età veneta al 1915, Edizioni Friuli Nuovo, Udine 1967.

[38]          Javier Grossutti, Non fu la miseria, ma la paura della miseria. La colonia della Nuova Fagagna nel Chaco argentino (1877-1881), Udine, Forum, 2009.

[39]          Cfr. Federica Bertagna, La presenza d’italiani in Argentina e Brasile. Similitudini e differenze dei processi di colonizzazione, “Giornale di storia contemporanea”, 2017, n. 2, pp. 9-24, e Appunti sulla presenza degli italiani nel processo di colonizzazione in Argentina e Brasile, in Colonos, colônias e colonizadoras: aspectos da territorialização agrária no Sul do Brasil, a cura di João Carlos Tedesco e Rosane Marcia Neumann, vol. 5, Passo Fundo, Upfe, 2019, pp. 46-63.

[40]          Già spesso “determinanti” nell’emigrazione friulana fra età moderna ed età contemporanea (cfr. per il periodo prestatistico Gaetano Perusini e Roberto Pellegrini, Lettere di emigranti, “Ce Fastu?, XLVIII-XLIX,1972-73, pp. 217-261, e Giorgio Ferigo, Dire per lettera… Alfabetizzazione, mobilità, scritture popolari dalla montagna friulana, “Metodi e ricerche”, 23, 2002, pp. 3-57).

[41]          Alimentate spesso, anche queste, da informazioni pervenute dall’America (cfr. Emilio Franzina, Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle letteree dei contadini veneti e friulani in America Latina, 1876-1902, Caselle di Sommacampagna (VR), Cierre, 1994). Nel caso dei veneti e dei trentini immigrati nel Rio Grande do Sul, notavano vent’anni fa gli autori di una originale ricerca (Andrea Zannini e Daniele Gazzi, Contadini, emigranti, “colonos”. Tra le Prealpi venete e il Brasile meridionale: storia e demografia, 1780-1910, Treviso, Edizioni Fondazione Benetton – Canova, 2003, II, p. 412), al di là, come fattore attrattivo, della fertilità eccezionale dei primi raccolti dopo la queimada e della “sopportabile entità, almeno rispetto alla situazione lasciata in Italia” dei sacrifici imposti dal “primissimo insediamento […] nessun «commercio» degli emigranti avrebbe potuto sostenere per anni una corrente di trasferimenti dall’Italia al Brasile come quella che alimentò per due decenni la colonizzazione, [se] le notizie positive sulla ricchezza della terra brasiliana trasmesse dagli emigranti a familiari, parenti e amici non fossero [state] nella sostanza vere”.

[42]          Emilio Franzina, L’emigrazione italiana fra Otto e Novecento nelle canzoni popolari e nei canti politici, in L’oceano dei suoni. Migrazioni, musica e razze nella formazione delle società euroatlantiche, a cura di Pierangelo Castagneto, Torino, Otto Editore, 2007, p. 104.

[43]          Maria Grazia Dalfollo Lenzi, Dedicato agli emigrati che furono traditi dalla propaganda, Trento, Provincia Autonoma, 2009.

[44]          Andando a ritroso nel tempo merita d’essere ricordato un episodio senz’altro isolato, ma piuttosto significativo risalente al primo anno (“l’anno senza estate”) della terribile carestia che afflisse mezzo mondo dopo l’eruzione epocale del vulcano indonesiano Tambora. A metà ottobre del 1816 il Ricettore di Malcesine sul Lago di Garda segnalava alla Regia Delegazione Provinciale di Verona quanto fosse cresciuto fra gli abitanti di quella località “il fanatismo di passare in Ispagna nella supposizione di trovare colà agiatamente da vivere [al punto da] aver reclamato con molta insistenza tanto dall’Autorità comunale quanto dal Parroco dei certificati della loro buona condotta e delle carte per intraprendere il viaggio [sicché] malgrado le prudenti misure adottate per non secondarne le domande tre [dei] suddetti si erano in tempo di notte, per la via del Lago, incamminati per la Provincia bresciana […]” (Ettore Accettella, Sui movimenti emigratori e della legislazione negli Stati italiani anteriori all’unificazione del Regno, Verona, Delegazione Provinciale dell’Emigrazione, 1926, ds., p. 26).

[45]          Dove all’inizio degli anni ‘80 si registrarono alcuni circoscritti arrivi in gruppo di emigranti trentini che non ebbero però riprese o sviluppi particolari (cfr. Grosselli, L’emigrazione dal Trentino, pp. 67-70 e per il Messico anche Renzo Tommasi e José Benigno Zilli Mánica, Messico, la tierra prometida: la Colonia italiana Diez Gutiérrez trentino tirolese (1882), Trento, Giunta della Provincia Autonoma, 2007).

[46]          Emanuele Banfi, Analisi variazionistica delle lettere di un migrante ladino in Brasile a metà Ottocento, in Pagine di storia, di famiglie, di memorie. Per un’indagini sul multilinguismo nel Trentino austriaco, a cura di Id. e Patrizia Cordin, Museo Storico in Trento, 1996, pp. 123-157.

[47]          [Graziadio Isaia Ascoli], Le Venezie, “L’Alleanza”, 23 agosto 1863 e poi in “Museo di Famiglia” (Milano), 30 agosto 1863, ma successivamente anche in Confini e denominazioni della regione orientale dell’Alta Italia. Proposte del prof. Amato Amati socio corrispondente del R, Istituto Lombardo, lette nell’adunanza del 7 giugno 1866, Milano Tip. G. Bernardoni, 1866, pp. 35-42.

[48]          Cfr. Alfredo Stussi, Nazionalismo e irredentismo degli intellettuali nelle Tre Venezie, e Alberto Brambilla, L’identità delle Venezie nel pensiero di Graziadio Isaia Ascoli. Appunti, in Le identità delle Venezie 1866-1918. Confini storici, culturali, linguistici, a cura di Tiziana Agostini, Padova, Antenore, 2002, pp. 20-22 e 77-97; Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 19-20.

[49]          Nel volume miscellaneo La Stella dell’Esule, Roma, Libreria Manzoni, 1879, pp. 25-26.

[50]          Gianfranco Ellero, Il Friuli e la Venezia Giulia secondo Graziadio Isaia Ascoli, Codroipo, Istitût Ladin-Furlan “Pre Checo Placerean”, 2014.

[51]          Domenico Pittarini, La Politica dei villani. Scene rusticane in due atti in versi con l’aggiunta di altre composizioni in rustico ed altre in vernacolo ecc. [1^ ed. Vicenza, Burato, 1870], Schio-Thiene, Leonida Marin, 1884.

[52]          Alessandro Casellato, I moti del macinato in Veneto. Prima analisi di un caso regionale e spunti per una comparazione, “Venetica”, XXV, 2 (2012), pp. 47-79, e Ivan Buonanno, La rivolta dei fiumi. I moti del macinato in Veneto (dicembre 1868-gennaio 1869), ibid., XXXI, 1 (2015), pp. 229-266.

[53]          Emilio Franzina, Dall’Arcadia in America. Attività letteraria ed emigrazione transoceanica in Italia (1815-1940), Torino, Edizioni della Fondazione G. Agnelli, 1996, pp. 42-62.

[54]          Emilio Franzina, La grande emigrazione. L’esodo dei rurali dal Veneto durante il secolo XIX, Venezia, Marsilio, 1976, pp. 81-95 e 141-153.

[55]          Sul sintagma «smania di emigrare» ‒ così definita in una circolare nel giugno del 1878 di un effimero organismo emanazione a Udine dell’Associazione Agraria (il Patronato degli Agricoltori friulani emigranti per l’America Meridionale) ‒ si vedano le considerazioni di Paulo Brenna, L’emigrazione italiana nel periodo antebellico, Firenze, Bemporad, 1918, pp. 146-50.

[56]          Gustavo Sacerdote, La vita di Giuseppe Garibaldi, Milano, Rizzoli, 1933, p. 114.

[57]          Emilio Franzina, Gli italiani al nuovo mondo. L’emigrazione italiana in America (1492-1942), Milano, Mondadori, 1995, ad nomen.

[58]          Gian Biagio Furiozzi, L’emigrazione politica in Piemonte nel decennio preunitario, Firenze, Olschki, 1979; Ester De Fort, Esuli in Piemonte nel Risorgimento. Riflessioni su di una fonte, “Rivista storica italiana”, 115, II (2003), pp. 648-688, e Angela Maria Alberton, “Finché Venezia salva non sia” . Esuli e garibaldini veneti nel Risorgimento, Caselle di Sommacampagna (VR), Cierre, 2012.

[59]          Carlo Marino, Dal Piave a Little Bighorn. La straordinaria storia del Conte Carlo Camillo di Rudio da cospiratore mazziniano e complice di Orsini a ufficiale del 7° Cavalleria del generale Custer, Belluno, Tarantola, 1996.

[60]          Franzina, Gli italiani al nuovo mondo, pp. 129-130, e Francesco Durante, Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti, I, 1776-1880, Milano, Mondadori, 2001, pp. 458-469.

[61]          Edoardo Piva, Una pagina della vita di un avventuroso polesano in America. Gustavo Minelli, in Miscellanea in onore di Roberto Cessi, III,Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1958, p. 91-102.

[62]          In libri come A catàr fortuna. Storie venete d’Australia e del Brasile, Vicenza, Neri Pozza, 1994, e Quando raboso e friularo si chiamavano vin moro, Crocetta del Montello, Antiga Edizioni 2017, pp. 46-49, ma si veda anche Storie straordinarie di italiani nel Pacifico, a cura di Marco Cuzzi e Guido Carlo Pigliasco, Bologna, Odoya, 2016.

[63]          Fabio Bertini, Figli del ‘48. I ribelli, gli esuli, I lavoratori. Dalla Repubblica Universale alla Prima Internazionale, Roma, Aracne, 2013.

[64]          Federica Bertagna, La stampa italiana in Argentina, Roma, Donzelli, 2009, p. 25.

[65]          Ioan-Aurel Pop e Ion Cârja, Un italiano a Bucarest: Luigi Cazzavillan (1852-1903), Roma, Viella, 2012.

[66]          Ministero degli Affari Esteri – Commissione permanente per il rimpatrio degli italiani all’estero, Il rimpatrio degli italiani all’estero nell’anno XVII – E.F., Roma 1940. Il rimpatrio in questione, secondo le stime fornite dalla Comissione (p. 7), riguardò, in tutto il mondo, ventimila famiglie per un totale di 70.000 persone.

[67]          Gianpaolo Romanato, L’Italia della vergogna nelle Cronache di Adolfo Rossi (1857-1921), Ravenna, Longo Editore, 2010.

[68]          Lamberto Paoletti, L’emigrazione italiana negli ultimi trent’anni. Saggio di esposizione statisica, Roma, Libreria editrice E. Mantegazza, 1908, pp. 19 e 25.

[69]          Andreina De Clementi, La scoperta dell’emigrazione, in La figura e l’opera di Francesco Coletti, a cura di Jean-Guy Prévost e Stefano Spalletti, Milano, Franco Angeli, 2014, pp. 275-286.

[70]          Una citazione fra molte di Meneghello (qui da Libera nos a Malo, Milano, Feltrinelli, 1963, pp. 171-172) è quella che uso da oltre vent’anni in teatro per dare un’idea dei rapporti “in paese” fra giovani emigranti di ritorno e parenti o loro amici. Essa riguarda uno zio dell’autore, Francesco alias lo zio Checco, che prima della Grande guerra “era stato anche in Svizzera, dai quattordici anni ai diciotto, e poi un po’ in giro per l’Europa, anche a Pietroburgo. In Svizzera per un anno o due aveva imparato a fare il meccanico moderno…. Però girando per l’Europa la sua vera forza consisteva nel fatto che sapeva anche fare il fabbro, battere il ferro sull’incudine; arte che già scarseggiava in Svizzera, in Alsazia e altrove [.] Era un bellissimo ragazzo, alto e fiero. Mio padre, otto anni più giovane si ricorda com’era bello e moderno quando tornò a casa dalla «Svizzera». Era vestito comne un signorino, gli stavano tutti attorno, meravigliandosi. Più tardi andò in cortile ad attaccare il cavallo, e per uno scarto della bestia tirò giù una bestemmia. La nonna Esterina lo sentì; si mise a piangere quietamente e disse: «Ruvinà»”. Di Guarnieri si vedano invece i passi, consonanti con questo di Meneghello, ma riferiti agli emigranti (di ritorno) della seconda metà del Novecento in Il Veneto di ieri, “Venetica”, 1986, n. 6, pp. 100-103.

[71]          Dott. Achille Ferari, Contributo allo studio dell’Emigrazione dal Veneto, Bassano, Pozzato, 1913, pp. 7-9.

[72]          Poste in evidenza da Lazzarini, Campagne venete ed emigrazione di massa cit.

[73]          Per cui, è stato giustamente osservato, se si àncora “il rapporto tra rimpatriati ed espatriati, a un valore medio nazionale del 59,8% corrispondono quote dell’80,6% per il Centro, del 78,3% per il Nord Est, del 60,7% per il Nord Ovest e solo del 40,2% per il Mezzogiorno. Differenze nette, che potrebbero avere almeno una parte di spiegazione nel ritorno di emigranti partiti dal Centro-Nord prima del 1905, quando questa parte del paese aveva un ruolo largamente predominate nel flusso ma la rilevazione dei rimpatri non era ancora attivata” (Anna Maria Birindelli e Corrado Bonifazi, L’emigrazione italiana verso il Brasile: tendenze e dimensioni (1870-1975), in Portugal e as migrações da Europa do Sul para a America do Sul, a cura di Fernando de Sousa et al., Porto, Cepese, 2014, p. 506).

[74]          Autobiografia giovanile di Domenico Marchioro, a cura di Ezio Maria Simini, Schio, Odeonlibri, 2005 (in forma romanzata si veda anche Maria Facci, Eravamo tutti figli suoi. Una famiglia veneta tra fabbrica ed emigrazione, Pordenone,Biblioteca dell’immagine, 2015)

[75]          Studio sull’emigrazione dei contadini dal Veneto, Treviso, Luigi Zoppelli Editore, 1897, p. 31.

[76]          Cfr. Trentamila tirolesi in Brasile. Storia, cultura, cooperazione allo sviluppo. Atti del Convegno, Trento 2-3 febbraio 2001, a cura di Renzo M. Grosselli, Trento, Regione Autonoma Trentino-Alto Adige, 2005.

[77]          Renzo M. Grosselli, Colonie imperiali nella terra del caffè. Contadini trentini (veneti e lombardi) nelle foreste brasiliane. Parte II: Espirito Santo 1874-1900, Trento, Provincia Autonoma, 1987, pp. 150-175.

[78]          Amedeo Osti Guerrazzi, Roberta Saccon e Beatriz Volpato Pinto, Dal Secchia al Paraίba. L’emigrazione modenese in Brasile, Caselle di Sommacampagna (VR), Cierrre Edizioni, 2002.

[79]          Emilio Franzina, L’immigrazione veneta in Rio Grande do Sul nelle memorie di Giulio Lorenzoni, introduzione a G. Lorenzoni, Le memorie di un emigrante italiano, Roma, Viella, 2008.

[80]          Per altri esempi d’un “esodo di conservazione” si veda quello studiato da Vanzetto di una famiglia trevigiana, gli Stigliani, partiti per la Francia negli anni Venti ma in realtà “emigrati per non dover cambiare” (Livio Vanzetto, Emigrare da Fossalunga. Un paese del Veneto rurale nella prima metà del Novecento, Treviso, Edizioni Fondazione Benetton/Canova, 2000, p. 195).

[81]          Piero Brunello, Agenti di emigrazione, contadini e immagini dell’America nella provincia di Venezia, “Rivista di Storia Contemporanea”, XI, 1 (1982), pp. 95-122.

[82]          Cfr. Emilio Franzina, La storia altrove. Casi nazionali e casi regionali nelle moderne migrazioni di massa, Caselle di Sommacampagna (VR), Cierre edizioni, 1998, pp. 50-90, e Paulo Cesar Gonçalves, Mercadores de Braços. Riqueza e acumulação na organização da emigração europeia para o Novo Mundo, São Paulo, Alameda, 2012.

[83]          Mauro Garofoli, Il Polesine, l’alluvione, la grande emigrazione (1883-1902), in L’emigrazione dal Veneto: un bilancio storiografico e ipotesi di ricerca, nr. monografico di “Venetica”, 1992, pp. 121-154.

[84]          Cfr. I veneti in Brasile e la storia dell’emigrazione, a cura di Emilio Franzina, Caselle di Sommacampagna (VR) – Vicenza, Cierre Edizioni e Accademia Olimpica, 2019.

[85]          Cfr. Giovanni Terragni, Pietro Colbacchini con gli emigrati negli stati di S. Paolo, Paraná e Rio Grande do Sul 1884-1901. Corrispondenza e scritti, Napoli, Grafica Elettronica, 2016. Per i rapporti con l’establishment politico dei clerico-moderati veneti ‒ “guidati” a fine Ottocento dal senatore e grande industriale protezionista di Schio Alessandro Rossi ‒ e dei vescovi “conciliatoristi” Scalabrini e Bonomelli impegnatisi a fondo nell’opera di assistenza e di tutela degli emigranti rinvio a Emilio Franzina, Bonomelli, Lampertico e Rossi, in Geremia Bonomelli e il suo tempo, a cura di Gianfausto Rosoli, Brescia, Fondazione Civiltà Bresciana, 1999, pp. 337-417.

[86]          Su cui rimangono fondamentali, quantunque trascurati dagli storici non solo italiani o brasiliani, i sondaggi e gli studi di Piero Brunello sin dai tempi, quasi trent’anni fa, del suo ottimo saggio intitolato appunto Pionieri. Gli italiani in Brasile e il mito della frontiera, Roma, Donzelli, 1994 del quale costituisce ora un ampliamento ‒ e una ripresa polemica, ma di grande acribia ed erudizione ‒ il volume recente, sempre di sua mano, su Trofei e prigionieri. Una foto ricordo della colonizzazione in Brasile, Caselle di Sommacampagna (VR), Cierre Edizioni, 2020, intorno a una successione di episodi verificatisi tra Otto e Novecento a danno degli indigeni locali da gruppi di “bugreiros” veneti in una zona santacatarinense nei pressi di Urussanga. Per quanto si tratti di vicende che non ebbero altrove, che io sappia, l’equivalente pur essendo rappresentative di tutta una mentalità e di una cultura espresse o fatte proprie dagli immigrati giunti dal Nord Est dell’Italia, e benché riguardino soprattutto la storia del trapianto all’estero di costoro a cui in questa sede è possibile appena accennare in modo sommario e molto di sfuggita, credo che non sia pleonastico averne fatto parola anche come istruttivo esempio di analisi del “perturbante” nella storia delle migrazioni.

[87]          Javier Grossutti, Friulani d’Argentina: l’altra patria oltreoceano (1875-1914), in Contributo friulano alla letteratura argentina, a cura di Silvana Serafin, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 13-3.

[88]          Bianca Maria Pagano, L’emigrazione friulana dalla metà del secolo XIX al 1940, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1968.

[89]          Matteo Ermacora, Coloni e pionieri nelle Americhe. Note sulle partenze nei primi anni della “grande emigrazione” (1877-1888), “Glemone”, Nr. unico, 2001, pp. 191-206; Franco Cecotti, L’emigrazione dal Litorale austriaco verso Argentina e Brasile 1878 – 1903, in Un’altra terra, un’altra vita. L’emigrazione isontina in Sud America tra storia e memoria 1878-1970, a cura di Id. e Dario Mattiussi, Gradisca d’Isonzo, Centro di Ricerca e Documentazione Storica e Sociale “Leopoldo Gasparini”, 2003, pp. 18-39. Anche da altri punti dei territori istrogiuliani “asburgici”, ma destinati a passare dopo il Primo conflitto mondiale all’Italia, si verificarono cospicui casi di emigrazione oltreoceano, cfr. Javier P. Grossutti, Via dall’Istria. L’emigrazione istriana dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi anni Quaranta del Novecento, Trieste-Fiume, Università Popolare di Trieste – Unione Italiana Fiume, 2013, e Ester Capuzzo, L’emigrazione dall’Istria nel periodo asburgico (1867-1918), in Movimenti di popoli in Istria, a cura di Annalisa Giovannini, Trieste, Società Istriana di Archeologia e Storia patria, 2018, pp. 31-42.

[90]          Per una prima panoramica degli studi cfr. Francesco Micelli, L’emigrazione friulana. Saggio bibliografico, in Emigrazione. Memorie e realtà, a cura di Casimira Grandi, Trento, Provincia Autonoma, 1990, pp. 289-316; Javier Grossutti, L’emigrazione dal Friuli. Saggio bibliografico, in Ti ho spedito lire cento. Le stagioni di Luigi Piccoli, emigrante friulano. Lettere familiari 1905-1915, a cura di Id. e Adriano D’Agostin, Pordenone, Edizione biblioteca dell’Immagine, 1997, pp. 269-326; Giancarlo Bertuzzi e Francesco Fait, Un secolo di partenze e di ritorni. L’emigrazione dal Friuli Venezia Giulia verso l’estero (1866-1968), Udine, Forum, 2010.

[91]          Cfr. Giovanni Zalin, Popolazione e flussi migratori permanenti nel Veneto e in Friuli (1866-1924/25), in Le identità delle Venezie (1866-1918). Atti del Convegno internazionale di studi (Venezia, 8-10 febbraio 2001), a cura di Tiziana Agostini, Padova, Antenore, 2003, pp. 395-404, ed Emilio Franzina, A emigración a Arxentina dende rexións de Véneto e Friuli (1876-1925), “Estudos Migratorios. Revista Galega de Análise das Migracíons”, 2008, n. 1, pp. 157-169.

[92]         Una predica agli emigranti, “Giornale di Udine”, 3 gennaio 1879. Sull’emigrazione dalla “Slavia veneta” (Valli del Natisone e del Torre) cfr. Aleksei Kalc e Majda Kaddic, L’emigrazione dalla Slavia Veneta nel contesto dell’emigrazione friulana, “Zgodovinski časopis”, 1992, n. 2, pp. 199-200

[93]          Marta Nuñez, Colonia Caroya: cien años de historia, Córdoba, Editorial Tapas, 1978, e Nora L. Prevedello e Silvia S. Gerosa, La inmigración italiana en Colonia Caroya y el contacto de dos lenguas, Córdoba, Comunicarte Editorial, 1997.

[94]          Gino e Alberto di Caporiacco, 1877-1880. Coloni friulani in Argentina, in Brasile, Venezuela e Stati Uniti, Reana del Roiale, Chiandetti Editore, 1978, p. 80.

[95]          Ibid., pp. 107-172.

[96]          Luciano Ostani, Attraverso l’Atlantico, “Giornale di Udine”, 16 febbraio 1886.

[97]          Pacifico Valussi, La giustizia agli italiani, ibid., 4 febbraio 1885.

[98]          Pacifico Valussi, L’emigrazione è un male o un rimedio?, ibid., 8 febbraio 1878.

[99]          Il «mito», in compenso, farà breccia, riveduto e corretto, oppure mutuato da vedute einaudiane, nella cultura cattolica del nuovo secolo, cfr. Sveva, I Friulani in America, “Il Cittadino”, 18/19 gennaio 1900.

[100]         Robert F. Harney, Dalla frontiera alle Little Italies. Gli italiani in Canada 1800-1945, Roma, Bonacci, 1984, pp. 121 e 281-282.

[101]         Annuario statistico della emigrazione italiana dal 1876 al 1925, a cura del CGE, Roma, MCMXXVI, p.72.

[102]         Cfr. Emigranti e profughi nel Primo conflitto mondiale, a cura di Emilio Franzina, “Archivio storico dell’emigrazione italiana”, 13 (2017).

[103]         Cfr. Giovanni Favero, Un’economia aperta alla prova della Grande guerra: I rimpatri degli emigranti nella fase di neutralità, ibid., pp. 12-21; Id., Interventismo statistico. I rimpatri per causa di guerra tra agosto 1914 e maggio 1915, in Specchio della popolazione: la percezione dei fatti e problemi demografici nel passato, a cura di Andrea Menzione, Udine, Forum, 2003, pp. 137-146; Matteo Ermacora, La guerra prima della guerra: rientro degli emigranti, proteste e spirito pubblico nella provincia di Udine (1914-1915), in Neutralità e guerra: Friuli e Litorale austriaco nella crisi del 1914-1915, a cura di Id., Ronchi dei Legionari, Consorzio culturale del Monfalconese, 2015, pp. 37-57.

[104]         Vincenzo Porri, Cinque anni di crisi nel Veneto 1914-1918, Roma, Stab. Tip. per l’Amministrazione della Guerra, 1922, pp. 4-6.

[105]         Essendo succeduto dopo la sua scomparsa al vescovo di Cremona Geremia Bonomelli, che ne era stato il fondatore, presidente dell’Opera omonima “di assistenza per gli emigrati italiani in Europa” era diventato dal 1914 il vescovo di Vicenza Ferdinando Rodolfi la cui azione, documentata anche dalle sue carte ora presso l’archivio diocesano berico si esplicò con energia in favore dei rimpatrianti prolungandosi, fin che fu possibile, nello spazio europeo e successivamente, nel corso della guerra, con iniziative dedicate ai militari prigionieri e dispersi, alle famiglie con vedove e orfani, agli operai militarizzati e nel 1916 anche ai profughi della Strafexpedition ecc. (su di lui cfr. Ermenegildo Reato, Il vescovo Ferdinando Rodolfi nella guerra 1915-1918, in Tempi, uomini ed eventi di storia veneta. Studi in onore di Federico Seneca, a cura di Sergio Perini, Rovigo, Minelliana, 2003, pp. 509-522, e Albagrazia Lazzaretto, Soccorrere, guidare, difendere. Vescovo, clero e popolo a Vicenza durante la prima guerra mondiale, in Chiese e popoli delle Venezie nella Grande Guerra, a cura di Francesco Bianchi e Giorgio Vecchio, Roma, Viella, 2016, pp. 291-317).

[106]         Ufficio del Lavoro, Dati statistici sui rimpatriati per causa di guerra e sulla disoccupazione, Roma, Tip. L. Cecchini, 1915, cit. in Favero, Un’economia aperta alla prova cit., pp. 18-19.

[107]         Cfr. ad es. Paolo Pozzato, La guerra prima della guerra. Emigrazione di rientro e moti per il pane nell’Alto Vicentino, in Emigranti e profughi cit., pp. 32-39.

[108]         Cfr. Peter Manz, Emigrazione italiana a Basilea e nei suoi sobborghi, 1890-1914: momenti di contatto tra operai immigrati e società locale, Comano, Edizioni Alice, 1988; René Del Fabbro, Emigrazione proletaria in Germania all’inizio del XX secolo, in L’emigrazione tra l’Italia e la Germania, a cura di Jan Petersen, Manduria, Lacaita, 1993, pp. 27-44, e Transalpini. Italienische Arbeitswanderung nach Süddeutschland im Kaiserreich 1870-1918, Osnabrück, Rasch, 1996.

[109]         Patrizia Salvetti, Il movimento migratorio italiano durante la prima guerra mondiale, “Studi Emigrazione”, 87 (1987), pp.282-283.

[110]         Emilio Franzina, Al caleidoscopio della Gran Guerra. Vetrini di donne, di canti e di emigranti (1914-1918), Isernia, Cosmo Iannone Editore, 2017, pp. 157-158.

[111]         Emilio Franzina, Entre duas Pátrias. A Grande Guerra dos imigrantes ítalo-brasileiros, 1914-1918, Belo Horizonte, Ramalhete, 2017, pp. 243-331, ma cfr. anche Renzo M. Grosselli, Noi tirolesi, sudditi felici di Dom Pedro II (ed. anastatica del volume edito in Brasile dalla Est Educs di Porto Alegre e Caxias do Sul nel 1999), Trento, Provincia Autonoma, 2008.

[112]         Emilio Franzina, Emigrazione, lotte agrarie e mercato internazionale del lavoro: il ruolo delle organizzazioni laiche e cattoliche (1919-1923), in Il sindacalismo agricolo veneto nel primo dopoguerra e l’opera di G. Corazzin, Treviso, Cassamarca, 1985, pp.73-144.

[113]         Casimira Grandi, Numeri nomi memorie. Note per un bilancio sull’emigrazione trentina nel Novecento, in Per una storia della popolazione italiana nel Novecento, a cura di Alessio Fornasin e Claudio Lorenzini, Udine, Forum, 2017, p. 108.

[114]         Eugenia Scarzanella, L’emigrazione veneta nel periodo fascista, “Studi storici”, 1977, n. 2, p. 182, e Matteo Sanfilippo, Genèse des migrations internes à la péninsule italienne: du 18e au début du 20e siècle, “Cahiers d’histoire. Revue d’histoire critique”, 143 (2019), pp. 75-84: tra le zone del Triveneto da cui si diramarono più numerose le correnti di emigrazione interna verso Piemonte e Lombardia vi fu, assieme al Trevigiano e al Trentino, l’Altopiano dei Sette Comuni (cfr. Giacomo Pittoni, Lo spopolamento montano in Italia. Indagine geografico-economico-agraria, IV, Le Alpi venete – Montagna vicentina, Roma, Inea, 1938).

[115]         Emilio Franzina, La chiusura degli sbocchi emigratori, in Storia della società italiana, XXI, La disgregazione dello Stato liberale, Milano, Teti, 1982, pp.125-180.

[116]         David Aliano, Brazil through Italian Eyes: The Debate over Emigration to São Paulo during the 1920s, “Altreitalie” 31 (2005), pp. 87-107.

[117]         La chiusura in due riprese (nel 1921 e nel 1924) dello sbocco nordamericano rese in effetti nuovamente “appetibili” alcune mete oltremarine vecchie e nuove verso cui si ebbero a tratti in modo spontaneo, ma qualche volta anche in forma almeno parzialmente “indotta”, numerose partenze. Dal Veneto si ritornava così ad imbarcarsi per l’America spagnola o per la lontanissima Australia o ancora per il Brasile dove, dopo la nostra serrata del 1902, tentarono infatti di nuovo d’indirizzarsi, con l’assenso del governo italiano da un lato e di quello di San Paolo dall’altro, gruppi numericamente abbastanza consistenti di emigranti originari delle Venezie. Sull’insano movimento” che a un certo punto si determinò “fra le famiglie coloniche” di tutta la regione, ma soprattutto nel Pordenonese e nel Trevigiano, ricordando da vicino gli effetti del “contagio emigratorio” e del “febbrile desiderio di emigrare al Brasile” già venuti in luce cinquant’anni prima, cfr. Franzina, Storia dell’emigrazione veneta cit., p. 177.

[118]         O per quelle del Trentino appena entrato a far parte del Regno di cui vi fu un esempio durato appena due anni tra il 1923 e il 1925 in Messico (cfr. Renzo Tommasi, “Alma parens frugum o planto lontano?” La cooperativa di emigrazione agricola trentina “S.Cristoforo” e la colonizzazione dello Stato di Jalisco nel Messico, “Archivio trentino di storia contemporanea”, 1996, n. 2, pp. 97-120).

[119]         Da Villa Regina a Villasboas. Progetti di colonizzazione in Sud America negli anni del primo fascismo, “Percorsi Storici”, 1 (2013), http://www.percorsistorici.it/numeri/numero-1/titolo-e-indice/saggi/pantaleone-sergi-da-villa-regina-a-villasboas.

[120]         Cfr. Sur les pas des italiens en Aquitaine, a cura di Monique Rouch e Carmela Maltone, Talence, MSHA 1997, e Laure Teulières, Immigrés d’Italie et paysans de France, 1920-1944, Toulouse, Presses universitaires du Mirail, 2002.

[121]         Pietro Pinna, Gli emigranti italiani in Francia durante il fascismo e il ruolo dei missionari cattolici, “Storicamente”, 15-16 (2019-2020), DOI: 10.12977/stor792.

[122]         Philip V. Cannistraro e Gianfausto Rosoli, Emigrazione Chiesa Fascismo. Lo scioglimento dell’Opera Bonomelli, 1922-1928, Roma, Studium, 1979.

[123]         Che era stato per la verità preceduto da un Comitato permanente per le migrazioni interne, nato nel 1926, su entrambi cfr. Stefano Gallo, Senza attraversare le frontiere. Le migrazioni interne dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2012, e Il Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna (1930-1940). Per una storia della politica migratoria del fascismo, Foligno, Editoriale Umbra, 2015.

[124]         Matteo Pretelli, La risposta del fascismo agli stereotipi degli italiani all’estero, “Altreitalie”, 28 (2004), pp. 48-65.

[125]         Marco Donadon e Alberto Zanatta, Aspetti antropologici e socioculturali dell’emigrazione schedata. Il caso dei trevigiani in Argentina durante il fascismo, “Antrocom. Journal of Anthropology”, 11-12 (2015), pp. 109-126.

[126]         Emilio Franzina, Una emigrazione nazionalpopolare: i coloni veneti nell’Agro Pontino, in La Merica in Piscinara. Emigrazione, bonifiche e colonizzazione veneta nell’Agro Romano e Pontino tra fascismo e postfascismo, a cura di Id. e Antonio Parisella, Abano Terme, Francisci Editore 1986, pp. 31-120.

[127]         Sul tema dei veneti nell’Agro Pontino, dopo quelli seminali di Oscar Gaspari, esistono numerosissimi studi di alterno valore per cui cfr. Giampiero Bianchi, I veneti pontini nella letteratura storica: elementi per una bibliografia, in Veneti pontini. Popolazioni venete in terra pontina, tra bonifica integrale e grande trasformazione (1930-1970), a cura di Id., Roma, Agrilavoro, 2010, pp. 121-161.

[128]         Annibale Folchi, I contadini del Duce. Agro Pontino 1932-1941, Roma, Pieraldo Editore, 2000, p. 22.

[129]         Oscar Gaspari, Il mito di Mussolini nei coloni veneti dell’Agro Pontino, “Sociologia”, 1983, n. 2, pp. 155-174.

[130]         Alessandra De Rose e Donatella Strangio, Dall’Italia al Brasile. Storia del contesto economico e sociale tra due territori lontani ma «gemelli»: Latina e Farroupilha, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2013.

[131]         Destinata ad ottenere a un certo punto anche il sostegno di enti ed istituti di governo, cfr. Donatella Strangio, Migration and institutions: the case of the Veneti, “Journal of Modern Italian Studies”, 2018, n. 5, pp. 603-619.

[132]         Nella cifra calcolata sommariamente rientrano anche, dato oltremodo significativo, molte migliaia di lavoratori stranieri provenienti dagli Stati europei di prima immigrazione finiti adesso sotto il tallone della Wehrmacht come ad esempio il Belgio dove si comportarono in tal modo (anche se non conosciamo poi le esatte percentuali regionali) non pochi italiani (cfr. Anne Morelli, Fascismo e antifascismo nell’emigrazione italiana in Belgio 1922-1944, Roma, Bonacci, 1987, pp. 256-257) non foss’altro perché per parecchi di loro, quantunque antifascisti convinti, essere assunti in Germania forniva, come sarebbe poi successo in mezza Europa con la Organization Todt nella parte finale della guerra, una garanzia di sicurezza superiore rispetto a quella offerta dal rimpatrio o dal fatto di rimanere in un paese occupato dai nazisti in cui le probabilità di essere consegnati alla polizia italiana da parte della Gestapo erano certamente superiori.

[133]         Come felicemente recita il titolo di un libro curato da Marco Fincardi, Emigranti a passo romano. Operai dell’alto Veneto e Friuli nella Germania hitleriana, Caselle di Sommacampagna (VR), Cierre edizioni, 2002, e articolato in diversi contributi (di Roberto Sala sul tema generale dei Fremdarbeiter, di Luigi Urettini sullo stereotipo dell’immigrato veneto docile e laborioso, di Matteo Ermacora sui migranti friulani nel Reich hitleriano, di Adriana Lotto sui bellunesi ecc.).

[134]         Marco Fincardi e Daniela Bonotto, Emigrati del Veneto settentrionale nella Germania nazista (1938-1945, “Protagonisti”, 74 (1999), pp. 26-36.

[135]         Alessandro Casellato, La Germania di Luigi Meneghel. Biografia e autobiografia di un operaio trevigiano (1941-1945), in Emigranti a passo romano cit., pp. 129-154.

[136]         Sonia Castro, L’emigrazione italiana in Svizzera nel secondo dopoguerra. La nascita del primo accordo sull’emigrazione del 1948, “Altreitalie”, 36-37 (2008), pp. 26-34.

[137]         Cfr. Vincenzo D’Alberto, Il rimedio dell’emigrazione in Montagne e veneti nel secondo dopoguerra, a cura di Ferruccio Vendramini, Verona, Bertani, 1988, pp. 457-478.

[138]         Emanuela Primiceri, L’emigrazione italiana e il piano Marshall: la politica migratoria del centrismo negli anni della ricostruzione, Milano, Pensa Multimedia, 2016.

[139]         Tassi migratori con l’estero delle regioni italiane, in Un secolo di emigrazione italiana, 1876-1976, Roma, Cser, 1978, p. 380, Tab. 8.

[140]         Da Sandro Rinauro, Percorsi dell’emigrazione italiana negli anni della ricostruzione: morire a Dien Bien Phu da emigrante clandestino, “Altreitalie”, 31 (2005), p. 11. Ampio spazio in questa ricerca è dedicato anche agli emigranti italiani i quali, in quanto ex prigionieri di guerra (o ad altro titolo) vennero arruolati a forza nella Legione Straniera (tra loro pure un giovane studente padovano in realtà scappato di casa e poi perito in Vietnam: Antonio Cocco, Ridotta Isabelle. Nella Legione straniera senza ritorno da Dien Bien Phu. Lettere 1952-54, Milano, Terre di Mezzo, 2018).

[141]         Sandro Rinauro, Il cammino della speranza. L’emigrazione clandestina degli italiani nel secondo dopoguerra, Torino, Einaudi, 2009.

[142]         Anne Morelli, L’appel à la main d’oeuvre italienne pour les charbonnages et sa prise en charge à son arrivée en Belgique dans l’immédiat après-guerre, “Revue Belge d’Histoire Contemporaine ”, 1988, n. 1-2, pp. 85-86.

[143]         Nel resoconto di un articolo non firmato del 5 aprile 1947 (Ventimila veneti emigrati nel 1946) poi ripreso da Francesco Torresin (L’emigrazione dal Padovano nel secondo dopoguerra (1945-1966), Caselle di Sommacampagna (VR)-Padova, Cierre Edizioni e Centro Studi Ettore Luccini, 2008, p. 53) il “Gazzettino” che con ogni probabilità sottostimava un esodo a cui le successive misurazioni statistiche ufficiali, senza contare i clandestini, avrebbero attribuito in totale un numero di emigranti due volte più grande, segnalava anche una graduatoria provinciale dei partenti così congegnata: Venezia 1.500, Udine 5.350, Trento 3.750, Treviso 2.800, Belluno 2.250, Vicenza 2.150, Padova 1.300, Verona 750, Bolzano 200. Gran parte degli emigranti, aggiunge Torresin sempre sulla scorta della stessa fonte giornalistica, “risultavano espatriati in Belgio (14 mila) per lo più come minatori e metalmeccanici; altri 4000 si erano diretti in Svizzera come lavoratori d’albergo e mense, 1500 in Francia in qualità di minatori, metallurgici, tessili, agricoltori ed edili e i restanti in Austria come spaccapietre, cementisti e boscaioli”. Oltre a quello di Torresin anche altri libri e saggi hanno affrontato il tema dell’emigrazione postbellica tra il 1945 e il 1975 dalle province del Veneto a breve distanza dalla sua conclusione (ad es. Annamaria Lona, Aspetti della ripresa emigratoria nel Veronese del secondo dopoguerra, in Un altro Veneto: saggi e studi di storia dell’emigrazione nei secoli XIX e XX, a cura di Emilio Franzina, Abano Terme, Francisci Editore, 1983, pp. 125-137, e Leopoldo Magliaretta, Emigrazione e mercato del lavoro nella montagna veneta nel periodo della ricostruzione, in Montagne e veneti cit., pp. 479-498).

[144]         Donatella Strangio, Emigrazione italiana assistita nel secondo dopoguerra, “Popolazione e storia”, 2018, n. 2, pp. 41-66.

[145]         Javier Grossutti, Emigranti friulani dalla fine della guerra agli anni sessanta, in Il Friuli 1943-1964, Dalla guerra di Liberazione alla ricostruzione. Un nuovo Friuli, a cura di Alberto Buvoli, Udine, Istituto Friulano per la Storia del Mobimento di Liberazione, 2012, pp. 409-472.

[146]         Raoul Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe l’esilio, Milano, Rizzoli, 2005. Per la storia dell’emigrazione dall’Istria nel periodo precedente la Seconda guerra mondiale, sia durante il secolo XIX sia in età fascista quando essa era entrata a far parte del Regno e quindi del Triveneto, cfr. ancora Grossutti, Via dall’Istria cit.

[147]         Grazia Prontera, L’emigrazione italiana verso la Repubblica federale tedesca. L’accordo bilaterale del 1955, la ricezione sulla stampa, il ruolo dei Centri di emigrazione di Milano e Verona, “Storicamente”, 4 (2008), https://storicamente.org/migrazioni-prontera, ed Elia Morandi, Governare l’emigrazione. I lavoratori italiani verso la Germania nel secondo dopoguerra, Torino, Rosenberg & Sellier, 2011.

[148]         Alcide Paolini, L’emigrazione in Friuli, “Il Ponte”, 1962, n. 2, p. 210.

[149]         Michele Colucci, Storia dellimmigrazione straniera in Italia. Dal 1945 ai nostri giorni, Roma, Carocci, 2018.